Il nuovo di Anohni è un disco che ha perso qualche lettera (o nota, che dir si voglia) per strada. Un disco, come dice il titolo, senza speranza: la speranza di imparare come si scrive quello che l'ha composto.
21 Agosto 2016
Fino a qualche anno fa il paese vicino al nostro doveva il suo fascino quasi esclusivamente alla presenza di una nota catena italiana di negozi in franchising, specializzata nella vendita di divani, poltrone e complementi d'arredo per il salotto. L'imponente scritta al neon ha campeggiato per anni in mezzo al nulla circostante, nonostante un piccolo difetto di funzionamento: come tutte le scritte al neon di provincia che si rispettano, già dopo una settimana infatti aveva cominciato a perder colpi, o forse sarebbe meglio dire lettere. In particolare la "D", la "I" e la "V" iniziali, noi non ci ricordiamo mai di averle viste accese. Così, nel tempo, un'inquietante quanto ammiccante Ani & Divani ha continuato a illuminare le sterpaglie che circondavano lo stabilimento.
Non abbiamo i dati di vendita per poter dire se, col senno di poi, la conseguente ambiguità sull'uso a cui erano destinati i suddetti divani abbia avuto un impatto positivo o meno sul fatturato dell'azienda. Una subdola strategia di marketing? Un semplice sfortunato contatto elettrico? Un sabotaggio burlone? L'ennesimo tragico esempio di analfabetismo?
Non lo sappiamo, ma, qualunque essa sia, la stessa cosa è quella che potrebbe essere capitata al nostro caro Antony Hegarty, che già in sede di registrazione all'anagrafe aveva perso la classica "H" di Anthony, poi ha spento il cognome diventando semplicemente Antony (in partnership con gli originalissimi Johnsons) e oggi ce lo ritroviamo di nuovo tra i maroni sottoforma di ANOHNI. Si è fulminata la "T", è caduto pezzo di "Y" trasformandola in una "I", qualche buontempone ha aggiunto una "H" a caso, forse per compensare quell'intoppo burocratico di cui sopra o forse solo perché così faceva più esotico, ed ecco che la crisi di identità è servita e l'inutile rebranding completato.
Non stupisce, la cosa: dopotutto il personaggio in questione ha fatto dell'ambiguità una cifra stilistica se non una ragione di vita (al punto che abbiam dovuto indire una riunione plenaria di redazione per decidere, qualche riga fa, se usare la formula "il nostro caro" o "la nostra cara" — abbiamo optato per il primo, nonostante la preferenza opposta espressa in svariate interviste dall'artista stesso, perché a dire "la nostra cara Antonio" ci saremmo sentiti proiettare una dimensione surreale di offlaga-disco-paxiana memoria à la Robespierre, con nostro sommo sbigottimento), al punto da risultare una dei primi esponenti della comunità transgender a esser nominato per gli Academy Awards (e qui chiudiamo il cerchio con i divani — e soprattutto con gli ani — di cui sopra).
In ogni caso, riassumendo, Hopelessness si presenta sotto le (non sappiamo quanto) mentite spoglie di un disco velato ed enigmatico, come seminascosto da una maschera opaca che ne confonde volontariamente i lineamenti, i suoni e le soluzioni compositive, per poi rivelarsi inesorabilmente per quello che è, ovvero un'opera dubbia e vagamente indefinibile, una roba che non sa bene come chiamarsi o che se lo sa non sa bene come scriverlo: l'anagramma sonoro di un'insegna in parte spenta, una partita a Scarabeo tra pezzi di alfabeto e pezzi di pentagramma senza vincitori né vinti. Che sia una subdola strategia di marketing, un sabotaggio burlone, o l'ennesimo caso di analfabetismo musicale, lo scopriremo solo quando tornerà la corrente su tutte le lettere o le note in questione.
Perché sì, anche il caso di semplice, sfortunato contatto elettrico non può essere escluso a priori, visto che, a quanto si dice, questo è il disco più elettronico mai realizzato da Antony. Con tutti i pro, i contro e rischi del caso.