Déjà-vu

Déjà-vu

Ci dispiace dirlo, ma il nuovo disco di David Bowie altro non è che un misero riciclo dei fasti passati, una geniale minestra riscaldata, e pure col minimo sforzo. Shame on you, Duca Bianco!

17 Giugno 2013

Dice il Duca Bianco è tornato. Dice ave o maestro. Dice più dieci anni dall'ultimo lavoro e non sentirli. Dice quasi settant'anni sul groppone e non sentire nemmeno quelli. Queste le cose più sintetiche.

Perché poi dice anche un disco dal solido cuore rock con molte, molte sfaccettature che decostruiscono l'anima del pop dagli anni Settanta a domani. Per non dire di quando dice sintesi suprema di armonia ed equilibrio melodico amalgamate in un lavoro indiscutibilmente soddisfacente, impervio e accessibile allo stesso tempo, passionale, a tratti illuminante. O quando ancora dice un compagno di avventura suadente sulle strade di nuove visioni, per un viaggio di inaspettata freschezza, in cui l'autocitazione non è la meta ma il mezzo per procedere spedito sulle ali di una rinnovata creatività.

Insomma il gotha del recensionismo mondiale non si permette mezzi termini per descrivere l'inaspettato ritorno di David Bowie: si allinea sbavante sui binari della celebrazione a prescindere, col culo parato e la bocca piena di termini altisonanti. E questo, sinceramente, ci dispiace. Ci dispiace, non tanto per l'artista in sé (è sempre bello vedere un anziano che trova il coraggio di ammettere la pesantezza della noia che prova a vivere di rendita e la forza di alzarsi dalla sua poltrona pregiata — rivestimento 30% coccodrillo, 70% pelle di giornalista musicale — per provare a scrivere di nuovo qualche canzone, certo già in partenza che nessuno avrà il coraggio di dirgli che avrebbe fatto meglio a rimanere a giocare a Gira La Moda con Brian Eno nella sua villetta immersa nel verde di Losanna), quanto per i recensori di cui sopra, per la loro cecità palese, per il loro lecchinaggio prevenuto, per il pessimo servizio che rendono all'onestà di una solida base di fan sinceri, ignorando così superficialmente (e forse — il che sarebbe ancora peggio — volutamente) l'evidenza.

E ancora una volta ci dispiace dover essere noi a svolgere l'ingrato compito di vestire i panni dell'Assange del glam, di recitare la parte dell'Anonymous del rock, di fare la voce grossa e saccente come dei Saviano in salsa pop. Sì, perché la vera grandezza di David Robert Jones detto Bowie ancora una volta è quella di fare centro col minimo sforzo, di spinger fuori un altro uovo d'oro dal sedere di quei mille anni di onorata carriera, di prendersi gioco ancora e per sempre di tutto e di tutti.

Ma quale ricomparsa dopo dieci anni di tempo. Ma quale incredible comeback di pezzi inediti. Ma quale post-rivoluzione all'indietro del vecchio che avanza. Come stanno le cose è sotto gli occhi di tutti, ed è vergognoso che ancora nessuno abbia avuto il fegato di dirlo chiaro e tondo. Basta guardarlo un attimo per realizzare che The Next Day altro non è che una minestra riscaldata, un bieco riciclo del passato privo anche del benché minimo sforzo di renderlo attuale, un restyling approssimativo di un successo ormai andato. Un briciolo di memoria visiva (o anche solo una stupidissima ricerca su Google Images) basta, per dimostrare i maniera inconfutabile che The Next Day altro non è che Heroes, con il titolo cancellato con l'UniPosca nero, un quadrato bianco appiccicato sopra alla cazzo e una banale scritta in Verdana messa lì a prorogare la data di scadenza.

Debunking

Come a Un Giorno in Pretura, ecco i nostri esperti che in meno di due minuti mostrano, senza poter lasciar adito a dubbi, che le precedenti non erano solo mere illazioni, ma la pura verità: non è per essere giustizialisti a tutti i costi, ma queste sono semplicemente prove schiaccianti. Niente di più, niente di meno. Svelato il trucco, almeno una sorta di giustizia morale è fatta.

Preti part-time
Solitudine