Dimenticarsi l'acchiappacolore

Dimenticarsi l'acchiappacolore

Delusione per il terzo album dell'enfant prodige dell'elettronica d'oltremanica: James Blake ci presenta un disco sbiadito e stinto, frutto di un imperdonabile errore di candeggio.

30 Maggio 2016

Dopo un debutto deliziosamente mosso, l'istantanea appena sfocata tramite la quale cinque anni fa presentò al mondo della grande musica il suo minimalismo elettronico garbato (ma a quel tempo ancora probabilmente girato con una camera a spalla e senza l'ausilio di un comodo stabilizzatore — ottico o digitale che fosse), e un secondo album più consapevole del proprio stile, in cui era riuscito finalmente a vestire quell'iniziale soul-step acerba di un elegante tabarro di lana cotta e a dare contorni più concreti e freddi al suo electro-writing, prima forse troppo aulico e ora invece granitico e con i piedi ben piantati nella neve, James Blake arriva con tutti i favori della critica e dei fan alla famosa, terribile prova del terzo album.

Sinceramente, e lo diciamo con rammarico, ci aspettavamo qualcosa di più.

Da pupillo delle riviste di settore avrebbe potuto permettersi praticamente di tutto: un groviglio di linee melodiche e cerchi ritmici colorati di stampo surrealista, un pot-pourri scomposto e futurista di note ribelli, un perfetto affresco di pianoforte neoclassico ma sempre e costantemente attento alla perfezione anatomica delle campionature sintetiche. E invece l'ex enfant prodige dell'elettronica londinese ci delude con un album infantile e sbiadito, compromesso da scelte clamorosamente sbagliate in termini di produzione (ovvero il campo in cui, in precedenza, aveva dimostrato di saper dare il meglio di sé).

Un disco stinto, come se si fosse rovesciato il gelato addosso e poi avesse sbagliato candeggio.

Innanzitutto il noto illustratore di libri per bambini e ragazzi Sir Quentin Blake (che ha vinto l'appalto chiaramente e senza ritegno alcuno solo per motivi di omonimia che sfiorano il nepotismo) inevitabilmente contribuisce a dare al disco quel tono infantile e fiabesco che mal si adatta a un album che doveva invece essere l'ultima e decisiva prova di sicurezza, crescita e maturità: un Corto Maltese for Dummies, a metà tra un Capitan Harlock capitato per sbaglio sul pianeta de Il Piccolo Principe e una bozza scarabocchiata di malavoglia da Tim Burton per (non) far addormentare il figlio di due anni.

Senza contare poi la scelta dell'acquarello come principale tappeto armonico di sottofondo: il disco della consacrazione definitiva avrebbe richiesto qualcosa di più importante. Una serigrafia da contorni arroganti e scolpiti, una qualche nuova tecnica sperimentale di arte moderna, un assolo di tempera denso e scintillante, al limite una serie di battute classicamente dipinte a olio su una tela intrecciata di beat.

The Colour in Anything invece è purtroppo un disco stinto e stupidamente fanciullesco, un disco che si è rovesciato il gelato addosso e poi ha sbagliato candeggio.

E per una volta a niente serve nemmeno l'inserimento (tardivo quanto disperato e ulteriormente puerile) di una donna nuda, infrascata tra i rami rachitici di quell'albero sulla sinistra, palesemente aggiunta in seconda battuta, per rattoppare invano il disastro ormai compiuto, disastro che però si rivela immune anche a questa cura da ultima spiaggia che i nostri vecchi ci tramandarono (giurando e spergiurando — mentendo e sapendo di mentire — sulla sua infallibilità) con i più svariati nomi, il più comune dei quali dovrebbe essere:

Tira più un pelo di topa che un carro di recensioni entusiastiche online.

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