Kim Gordon, Tycho, i Julie's Haircut, Kazu e Trentemøller: cinque pezzi buoni per riprendere il solto tran tran quotidiano senza troppi traumi o scleri imbarazzanti.
29 Settembre 2019
Ritrovarsi nell'oscuro mondo del ride-sharing e finire a fare la tassista di notte per una compartecipata di Uber. Lasciare che la più varia umanità si alterni annoiata sui tuoi sedili posteriori mentre tu — altrettanto annoiata e con le palpebre appesantite da un trucco così leggero da riassumere in un colpo solo tutte le cinquanta sfumature di makeup che vanno da Platinette a Amy Winehouse — guidi tra le luci di Los Angeles, forte del potere di stendere con lo sguardo gli ignari passanti che incroci, come faceva il piccolo Riccardino Fuffolo alzando le mani.
Kim Gordon, la vita dopo i Sonic Youth magari se l'era immaginata diversa. Eppure le atmosfere evocate dal video diretto da Loretta Fahrenholz sono perfettamente in linea con lo squallore post no-wave in cui la band newyorkese ha sguazzato per anni. Che qui, ad affettare l'angoscia, ci siano i synth invece che le chitarre, non fa poi questa grande differenza. E soprattutto non abbassa il livello.
Perché un disco solista? Perché proprio ora? «Non lo so». Lo spettro di un Raz Degan alle prese con l'ammazzacaffè si aggira dentro questa risposta, ma anche qui in ogni caso rimaniamo dentro i confini del personaggio, sempre troppo occupato a non sentirsi soddisfatto per aver tempo di cercarne i motivi. Un trucco buono come un altro per campare cent'anni, a quanto pare.
No Home Record — dichiaratamente ispirato al documentario No Home Movie, della regista belga Chantal Akerman — uscirà su Matador il 13 ottobre prossimo. Il suo messaggio sembra essere comunque già chiaro: casa è dove riesci a venire a patti con la tua inquietudine. E raramente è un posto solo.
Scott Hansen è un surfista che non ce l'ha fatta.
Nell'impossibilità di sfruttare, per finanziare il suo hobby, l'idea — ormai fin troppo abusata — di rapinare banche armato di maschere con le fattezze dei presidenti americani, è stato costretto a riciclarsi minimal designer di giorno e talentuoso producer di notte. Nemmeno una brutta trovata, a dirla tutta, visto che, se non altro, risparmi. Nel senso che le copertine degli album puoi disegnartele da solo.
In ogni caso, in entrambe queste sue incarnazioni, non ha mai mancato di ribadire la sua ossessione per una certa estetica nord-californiana abbagliata dal sole degli anni '80. Da un lato soluzione grafiche squisitamente geometriche immerse dentro gradienti dai colori caldissimi. Dall'altro un'elettronica strumentale, facile ma gustosa, da godersi sulla spiaggia, al tramonto, sorseggiando un aperitivo post-pop, alcolico ma senza esagerare.
Dopo quattro dischi su questa falsariga, la domanda, nella testa dei fan, è sorta spontanea: come suonerebbero questi pezzi se qualcuno ci cantasse sopra? Da buon fanatico di big data attento ai sondaggi, Tycho ha pensato bene di soddisfare la FAQ a stretto giro di posta. Il nuovo Weather sfoggia infatti — come guest appearance ben poco "guest", visto che compare in cinque tracce su otto — la bella voce di Hannah Cottrell (aka Saint Sinner) e ci regala subito la risposta: come una Banks un po' stanchina che ha ingoiato una caramella aromatizzata agli XX.
Che, tradotto, significa: niente male, alla fine della fiera. Non fosse per il pericolo — assolutamente verosimile e che un pezzo come Pink & Blue, suo malgrado, incoraggia — che qualcuno lo riduca, prima o poi, a un remix troppo sbiadito per stare stare su un dancefloor, ma assolutamente perfetto per fare la sua porca figura dentro un camerino di Bershka.
Anzi no, come non detto. È già successo.
Se c'è un gruppo per cui vale la pena di sprecare un aggettivo ingombrante (e spesso sottovalutato) come "solido", questi sono i Julie's Haircut. E il fatto che vengano da un paese in cui anche solo una minima idea di stabilità è un lontano, appannato ricordo, non fa che segnare un ulteriore punto in loro favore. Sto parlando dell'Italia, sì.
Spuntati con le radici profonde di una vite di lambrusco da quell'Emilia che negli anni '90 ha partorito forse le migliori cose del panorama nostrano, la band di Luca Giovanardi (l'arrogante bottegaio di colliniana memoria) non si è fatta mancare nulla, riuscendo a sopravvivere a tutta la gavetta necessaria per sognare un irreale (e poi, come era facilmente pronosticabile, irrealizzato) mainstream dei tempi d'oro: da Supersonic, a Tora! Tora!, all'MTV Brand: New Tour.
Ce l'ha fatta grazie a un trucco vecchio come il gioco delle tre carte, ma che funziona — come il gioco delle tre carte — solo se sei capace di metterlo in pratica in maniera perfetta: non restare mai uguali a se stessi. Sette album in vent'anni, messi in cascina assaggiando come un navigato sommelier le etichette più interessanti dello Stivale (Gamma Pop, Homesleep, Woodworm) e partendo da un iniziale garage-rock che metteva i Dinosaur Jr. nelle mani di Jon Spencer, fino ad arrivare a sperimentazioni noise mai fini a se stesse e a una propria grammatica intima, che finalmente mette in chiaro il senso che può avere la parola "psichedelia" fuori dai Seventies.
In The Silence Electric è l'ottavo disco e Sorcerer ne annuncia la buona novella costruendo attorno a un tono metallico standard di base un pezzo ossessivo fino allo spasmo, che conferma la costante brillantezza di un proposta a tutti gli effetti europea, facilmente esportabile ma ancora, disgraziatamente, troppo poco esportata.
Un trio newyorkese con un nome che unisce le due categorie più cliccate su YouPorn, composto da una coppia di gemelli di origine italiana che sembrano il perfetto incrocio tra Massimo Troisi e Angelo Branduardi e da una giapponese che si chiama Kazu.
Messa così, la questione Blonde Redhead, fa parecchio ridere e soprattutto lascia portoni spalancati alle più facili e triviali ironie. Eppure la band dei fratelli Pace, in venticinque anni di carriera, ha messo la propria firma indelebile su un certo tipo di "indie-qualcosa", in perenne, equilibrata evoluzione di se stessa e sempre in bilico tra il sensuale e l'avant-garde, così da risultare costantemente e inesorabilmente "fica".
Kazu Makino, musicalmente parlando, nonostante la sua voce da bambina, adulta lo è sempre stata, ma ha deciso di metterlo nero su bianco solo oggi, imbarcandosi in questa avventura solista, dove è tutto meno che "sola", visto l'elenco di collaboratori che compare in calce ad Adult Baby: dal maestro Ryuichi Sakamoto, al percussionista degli Atoms for Peace, Mauro Refosco, al batterista di Son Lux, Ian Chang.
Come Behind Me, So Good! è un'invocazione laica che parte — alla stregua di un gospel recitato in sottoveste — dalle navate di una chiesa per aprirsi in una congiura ariosa che ti porta altrove. Detta in maniera semplice, è posseduta da quella strana magia che contraddistingue i migliori pezzi dei Blonde Redhead (ma con un intimismo ancora più spinto): dovunque tu sia mentre la stai ascoltando, ti fa sentire inconsapevolmente da un'altra parte.
Tipo nella quiete di un'Isola d'Elba in bassa stagione, guarda caso proprio il posto dove Kazu ha deciso di ritirarsi e passare più tempo possibile, compatibilmente con i suoi impegni, tour ed esigenze di ragazza ormai cresciuta.
Come Napoleone insomma, ma molto, molto più sexy.
L'etichetta di Anders Trentemøller si chiama In My Room. Il che fa subito pensare a una sorta di nerdismo amatoriale e un po' sociopatico: il lo-fi dichiarato da dietro la porta chiusa di un adolescente con pochi amici.
Poi ascolti le complesse, raffinatissime, studiate con ossessività fino al minimo rumore, soluzioni sonore che il musicista danese — 47 anni suonati (in tutti i sensi), ormai cinque album all'attivo, un'innumerevole quantità di remix e collaborazioni con chiunque vi passi per la testa — riesce a tirare fuori dal cilindro e ti viene giustamente da chiederti se ci è o ci fa. O comunque almeno la curiosità di darci una sbirciata, nella sua cameretta, anche solo per scoprire quali strani macchinari o software hi-tech possa contenere.
In realtà, è un dato di fatto che i frutti del Trentemøller producer si sono sempre distinti in maniera abbastanza decisa dalle sue serate dietro la consolle e non è mai stato semplice sentirsi a casa tutte le volte che ci ha accolto nelle sue stanze, arredate con gusto eclettico e in ogni occasione diverso. Oggi — chez Trentemøller — la moquette è un minimalismo rarefatto di natura prettamente "post-qualunque cosa", che il nostro ospite usa come solide fondamenta su cui costruire le stratificazioni intricate a cui ci ha abituato, come in una distillazione lenta, ma precisa e inesorabile di presente, passato e futuro.
Per continuare a fare le cose in famiglia, a questo giro, invece che andare a scomodare nomi altisonanti da barattare con un featuring, se la gioca con la compagna Lisbet Fritze. Le chiede di cantare e suonare la chitarra, le mette un'ascia da taglialegna in mano e la manda a spasso per i boschi della loro selvaggia Scandinavia, mentre lui la segue come uno stalker, filmando il tutto con un iPhone.
Il risultato? Ancora una volta tutt'altro che DIY, nonostante gli sforzi. Ascoltare (e guardare) per credere.