HVSR Digest #3

HVSR Digest #3

Wombats, Spoon, OK GO, Oh Sees e Black Rebel Motorcycle Club: cinque pezzi buoni per programmare l'attesa dell'inverno. Con drammattica fallibilità meteoropatica, s'intende.

8 Dicembre 2017

The Wombats

Lemon to a Knife Fight

Twilight in salsa indie

Il vombato è un simpatico animaletto che vive in Australia: zampe corte e naso a palla, piace a grandi e piccini che quasi mai sanno resistere al suo fascino coccoloso da peluche Trudi un po' sovrappeso. A patto di non farlo incazzare sul serio, s'intende. In pratica è un incrocio tra un procione e un castoro, con l'aggiunta di un bel marsupio sullo stile del suo conterraneo, il canguro, con cui da sempre si gioca lo scettro si simbolo aussie nel mondo. Da bravi colleghi, i due si sono divisi il mercato: mentre quest'ultimo infatti si rivolge a un pubblico più mainstream, il primo è (ri)conosciuto prevalentemente da una fetta di fan più ristretta ma forse ancor più fedele, diamo di nicchia.

Gli Wombats, pur non essendo né marsupiali né australiani, hanno però in comune con i piccoli roditori cui hanno rubato il nome astruso sia il pubblico tipicamente indie, sia la simpatia innata. Il senso dell'(auto)ironia, infatti, non ha mai fatto loro difetto e li ha sempre accompagnati sin dai tempi in cui ci esortavano — come trucco infallibile per essere più felici — a ballare sulle note dei Joy Division.

Questa propensione naturale è più che confermata dalla nuovissima Lemon to a Knife Fight, che precede il loro quarto album Beautiful People Will Ruin Your Life in uscita a febbraio, e dal suo surreale video girato da Finn Keenan che, intervistato al riguardo, ha liquidato la cosa con sibillino «David Lynch meets Power Rangers». In effetti il frontman del gruppo, Matthew Murphy, ha confermato che l'ispirazione per il pezzo gli è venuta da una lite avuta con la moglie dopo aver visto Mulholland Drive e quindi non stupisce che ne sia uscito fuori una specie di piccolo B-movie ad altissima qualità, in cui una pallina da tennis è l'unica testimone — ehm — oculare di una sordida storia di rapimenti, violenza e caccia alle fighe mannare.

Il pezzo, dal canto suo, non è davvero niente male, ma il consiglio è quello di aspettare un attimo prima di entusiasmarsi più del dovuto: troppe volte, ultimamente, i tre di Liverpool ci hanno illuso con un paio di singoli azzeccatissimi per poi sgonfiarsi sulla lunga distanza dell'album successivo.

In poche parole, troppe volte, anche in passato, ci hanno promesso David Lynch per poi darci i Power Rangers.

Spoon

Do I Have to Talk You Into It

Comunque c'è un mio amico che te lo fa in cinque minuti, con Paint

In tempi come questi, così infoiati nella raccolta di big data, andare a spulciare la propria fanbase con sondaggi generici per capire come è composta può portare scoprire cose che avresti preferito non sapere.

Immagino sia esattamente quello che è successo agli Spoon, che magari si aspettavano dei risultati che chiamassero in causa studentelli indie alle prese con gli esami di matematica o quarantenni nostalgici della fine dei 90's ancora in cerca di un lavoro. E invece:

We did the research, and it turns out 80% of our fanbase is composed of graphic designers.

Naturale conseguenza della cosa, l'idea di gratificarli con un omaggio che scimmiotta i peggiori tutorial di Photoshop mai girati nei forum a tema "Adobe Creative Suite". Ecco quindi il nuovo singolo Do I Have to Talk You Into It, dove Britt Daniels viene ridotto (letteralmente) a pelle e ossa, cancellato e riportato in vita, liquefatto in un lupo della steppa e sottomesso a tutta una serie di altre barbarie grafiche, ognuna comunque riconducibile alla stessa, retorica domanda esistenziale: perché girare un video ad alto budget quando puoi sfruttare quella comoda funzionalità che la società moderna ci ha messo a disposizione e che va sotto il nome di "screen capture"?

Per poi riportare tutta questa operazione virtuale sul piano di un realismo spicciolo (molto più in linea con il tono stranamente incazzato del testo), inutile dire — spoiler alert! — che finisce male, ovvero come sempre, nella vita, le poche volte che stai facendo un ottimo lavoro: ti dimentichi di salvare.

OK GO

Obsession

Video killed the YouTube star

Non so se gli OK GO siano mai stati a tutti gli effetti un gruppo. Sicuramente hanno smesso — volontariamente o meno lo sanno solo loro — di esserlo dopo quella cosa dei tapis roulant. Here It Goes Again da un lato ha decretato la loro fortuna, dando ufficialmente il via a un processo di consacrazione che li ha portati all'attuale status di maghi del videoclip acrobatico, dall'altro ha fatto sì che pressoché nessuno ormai sia più minimamente interessato ai loro dischi. Semplicemente, tutti — anche i fan dichiarati — se ne stanno lì, seduti sulla riva di YouTube, ad aspettare di veder passare il meraviglioso cadavere dell'ultima, geniale idea bislacca dei quattro di Chicago.

Non è un caso quindi se il loro nuovo piccolo capolavoro Obsession è una traccia che appartiene a un album vecchio ormai di tre anni e ben si guarda dal discostarsi dalla formula vincente: canzoncina che si limita al solito pop-rock orecchiabile da sufficienza risicata e video che sposta più in alto, per l'ennesima volta, il limite dell'ingegneria circense applicata alla promozione musicale.

L'azienda partner questa volta è la thailandese Double A, che ha messo a disposizione tonnellate della sua "super-smooth paper" e 567 stampanti per ricevere, a posteriori, un ritorno di immagine non indifferente, visto che — cosa, questa, davvero incredibile, almeno basandosi sull'esperienza della vita reale — nemmeno una si è inceppata, nel corso dei due anni che ci son voluti a realizzare il tutto.

Sì, perché a questo giro il progetto era quello di programmarle in sincrono e dare vita a un deliro in stop-motion così colorato che, una volta trasformato in flusso di immagini, ha generato una mole di informazioni binarie tale da mettere addirittura in crisi il bitrate della piattaforma di video sharing, costringendo quindi la band a rimandare l'uscita del pezzo nell'attesa che una mandria di nerd mettesse un paio di toppe e introducesse nel player l'opzione di visualizzazione a 1440p e 2160p.

Come dire: chi di YouTube ferisce...

Oh Sees

Nite Expo

Come ci siam chiamati l'ultima volta?

Dunque, cerco di riassumere la cosa nel modo più chiaro possibile. C'è una band che ha fatto uscire un disco un paio di settimane fa e che, per promuoverlo, ha lanciato un singolo per Halloween. Fin qui, niente di strano. Solo che il singolo apparteneva al disco precedente, risalente a questa estate. Ah, dimenticavo: questa estate la band in questione si chiamava in un altro modo. Confusi? Tranquilli: nessuno vi può biasimare.

John Dwyer e compagni di merende sono un gruppo a dir poco prolifico: hanno all'attivo una ventina di album in meno di quindici anni di scorribande. Produzione, questa, che nell'ultimo periodo ha addirittura visto registrare il suo picco, con medie di una pubblicazione ogni sei mesi.

A peggiorare la situazione, la volubilità schizofrenica con cui questa gang di squilibrati ha deciso di battezzarsi di volta in volta: Orinoka Crash Suite, Orange County Sound, The Ohsees, The Oh Sees, Thee Oh Sees e qualche altra variazione sul tema. Se non ho perso il conto, attualmente dovrebbero rispondere semplicemente al grido di OCS. O almeno questo è il nome sotto il quale è uscito l'ultimo Memory of a Cut Off Head.

Nite Expo invece faceva parte della tracklist di Orc, un disco degli Oh Sees — sempre loro, se non si fosse capito — e merita un ascolto, ma soprattutto una visione, per rendere il giusto merito al lavoro di disegno animato di Alex Theodoropulos, che graficamente porta Beavis And Butthead nell'inferno del cosplay e, in termini di contenuti, mischia Game of Thrones con il video di Paranoid Android.

Garage-rock dritto, una spruzzata di psichedelia, qualche colpo di spadone ben assestato e un finale che ci ricorda di non dare mai la vittoria per scontata fino al novantesimo più recupero. Una lezione di vita, insomma.

Black Rebel Motorcycle Club

Little Thing Gone Wild

Tutto ancora, sempre e comunque, molto yeah

Nonostante — quando apparirono per la prima volta sulle scene — una certa frangia della stampa specializzata e qualche promoter retro-maniaco abbia tentato di dipingerli prima come i nuovi Velvet Underground e poi come la versione patinata da MTV dei Jesus and Mary Chain, i Black Rebel Motorcycle Club sono sempre stati un gruppo dal profilo relativamente basso: poche comparsate e tanti concerti, pochi videoclip da broadcast nonostante sette album raramente deludenti, pochi fronzoli fumosi che hanno costantemente lasciato in bella vista quell'arrosto stuzzicante e cotto bene, che in bocca ha sì più o meno sempre lo stesso sapore, eppure non ti stanchi mai di ritrovare in tavola, a casa di nonna.

Little Thing Gone Wild anticipa (finalmente) il nuovissimo Wrong Creatures, in uscita a gennaio, e torna a pescare a piene mani da quel sacco che i Nostri, nel loro girovagare, son sempre stati attenti a non dimenticarsi a casa: le origini. Un garage-rock dal piglio blues nonostante i tratti levigati, annegato in una psichedelia grezza dai suoni perfettamente sporchi, che va a braccetto con un video multi-esposto in cui il vecchio trucco dello split-frame ribadisce come — anche e soprattutto quando si parla di rock'n'roll — tre rimanga il numero perfetto.

Messa così, potrebbe anche sembrare l'ennesima raschiata sul fondo del barile del tempo che fu, ma ricordiamoci che questa è una delle poche band che all'alba del nuovo millennio — un periodo storico in cui tutto era morto e durante il quale se volevi specificare una sorta di appartenenza dichiarata a un vago concetto di punk dovevi inserirlo tra parentesi nel titolo — è riuscita a permettersi uno strascicatissimo «Yeeeah!» nel ritornello di una canzone senza risultare ridicola.

Il tempo passa per tutti, Marlon Brando è morto e badare al sodo, oggi, non è più una nota di merito, ma le giacche di pelle son tornate a far capolino anche nelle vetrine di Zara e, sulle spalle dei BRMC, sembrano calzare ancora a pennello.

Note a margine
Questa mini playlist è un piccolo estratto di quella che è stata selezionata in esclusiva per hvsr.net e che ancora continua a fare la sua porca figura, in costante evoluzione, sull'omonimo sito. La riportiamo anche qui, in fila per cinque con il resto di quel che avanza, per questioni di vanagloria, completezza e perché Spineless è come il maiale: non si butta via nulla. Ma soprattutto per non dimenticare, a perenne memoria di quei bei tempi andati in cui i mixtape si facevano a mano e gli algoritmi ci mettevano i bastoni tra le ruote solo durante le ore dei corsi di algebra.
Fear yourself
Darwinismo indie