HVSR Digest #7

HVSR Digest #7

Shame, Jon Hopkins, God Is An Astronaut, Chvrches e Moon Hooch: cinque pezzi buoni per celebrare la santa Pasqua come Iddìo comanda, ma senza che si monti troppo la testa.

30 Marzo 2018

Moon Hooch

Acid Mountain

Il classico power-rock trio, più o meno

I Moon Hooch sono il classico power trio rock, però senza basso e senza chitarra. Ok, a voler essere precisi, anche senza voce. Al posto del basso hanno un sassofono, al posto della chitarra un altro sassofono e al posto della voce… niente. In pratica sono la band strumentale risultato di un esperimento in laboratorio andato sì fuori controllo, ma che già originariamente era stato concepito con intenzioni in bilico tra il bizzarro e il geniale: incrociare gli White Stripes con John Zorn e vedere l'effetto che fa.

Poi è andata come nei classici film di fantascienza anni '80: lo splendido mostriciattolo che ne è uscito fuori è scappato dal teatro della mutazione genetica in questione (nello specifico, il seminterrato della New School for Jazz and Contemporary Music di New York) e ha fatto perdere le sue tracce, per poi ricomparire da un giorno all'altro ai bordi dei binari della metropolitana della Grande Mela, al centro di un capannello di curiosi che si erano radunati senza preavviso — ma solo a seguito di uno strano effetto "pifferaio magico" — interrompendo la loro corsa di formiche impazzite, alla faccia della fretta di andare al lavoro, dei timpani lobotomizzati dagli auricolari e dell'attenzione tipicamente dedicata allo schermo dei loro smartphone.

Da subway busker a protagonisti sui palchi dei maggiori festival nordamericani ed europei, il passo è stato più breve del previsto. Fondamentalmente perché James Muschler (batteria), Mike Wilbur e Wenzl McGowen (sax) hanno trovato la formula giusta per portare il jazz dei nonni direttamente sul dancefloor, con delle ritmiche pestate e un'energia da headbanging che ha fatto alzare il sopracciglio incuriosito anche a qualche metallaro. C'è dell'elettronica, dell'hip hop, tanto funk, un po' di distorsione sapientemente saturata e ovviamente chili e chili di sperimentazione ai limiti del carnascialesco (tipo suonare con un birillo per la segnaletica stradale come protesi di uno strumento a fiato).

Insomma, se pensate che caotici quanto esilaranti duelli a suon di strombazzate baritono vs. tenore non siano cose che fanno per voi, qui c'è tutto il materiale necessario per cambiare idea in poco più di tre minuti. Oltre che un video — quello diretto da Alex Italics — adeguatamente surreale che narra una drammatica storia di amore finito male, di infatuazione e violenza, di un sacco di botte e via ma tutte nella stessa, stroboscopica, orgiastica serata.

Chvrches (feat. Matt Berninger)

My Enemy

L'ennesimo esperimento di marketing (perfettamente riuscito, tra l'altro)

Magari mi sbaglio, magari sono io che son prevenuto, magari loro sono solo tre ragazzi che volevano farsi un culo così con una sana gavetta e invece hanno coronato subito — loro malgrado — il sogno che coltivavano, ma i Chvrches mi sono sempre sembrati, se non vogliamo proprio usare parole brutte come "gruppo costruito a tavolino", diciamo almeno gente parecchio brava nel product placement. Soprattutto quando il prodotto in questione sono loro stessi.

A partire dal nome (che si legge "Churches" ma si scrive CHVRCHΞS — nemmeno fossero una startup che espone al Fuorisalone), passando per il fatto che gettarsi a cavalcare l'onda di riflusso del synth-pop a fine anni Duemila non può essere certo definito un "obiettivo sfidante", per arrivare a supporre — a voler essere sul serio maliziosi — che mettere a cantare una giornalista di The Line of Best Fit sia stata, nella peggiore delle ipotesi, un'ottima strategia per partire con qualche recensione tanto gratuita quanto interessata.

Ma forse mi sbaglio sul serio, forse sono davvero io che son prevenuto: dopotutto, uno dei luoghi comuni più diffusi è che i critici musicali siano in gran parte dei musicisti falliti, quindi, vista in questo senso, pure l'azzardo di Lauren Mayberry — di percorrere la parabola al contrario, dico — diventa nient'altro che la storia di un critico musicale che, fallendo, ce l'ha fatta.

Eppure non riesco a non pensare che anche la scelta di un duetto con Matt Berninger come singolo per promuovere il nuovo disco Love Is Dead vada in questa direzione: chi meglio del frontman di una delle band più rispettate del panorama indie degli ultimi anni — un quasi cinquantenne belloccio (ma non troppo), un po' padre di famiglia (ma non troppo) e un po' poeta maledetto (ma non troppo), che piace alle figlie ma contemporaneamente stuzzica un po' anche le madri — per allargare il bacino di utenza, sia in termini demografici che di snobismo intellettualoide, senza andare però a confondere troppo l'attuale fanbase?

Che poi i due si conoscessero e fossero amici da tempo, che avessero già condiviso lo stesso palco, che si fossero addirittura intervistati a vicenda qualche anno fa, così come la constatazione che la cosa effettivamente funzioni — con lo splendido baritono di lui che va in parte a compensare la voce insopportabilmente infantile di lei e un testo di non-amore scazzato che starebbe bene proprio addosso a una canzone dei National, se non fosse stato privato di ogni metafora e messo giù come dovesse essere spiegato a un bambino di quattro anni — oppure che il video associato sia fondamentalmente a sua volta un non-video a costo zero — ma sempre buono a solleticare la voglia creativa low-budget della vostra sorellina di dieci anni (fatti un selfie-emo e usa un po' alla cazzo una qualunque delle mille app di glitch effect che trovi sull'AppStore) — non cambia la sensazione iniziale.

Sempre l'ennesimo, probabilmente riuscito, esperimento di marketing rimane.

God Is An Astronaut

Epitaph

L'antidoto migliore per la vostra voglia di Festa di San Patrizio

Questo mese ricorre Lá Fhéile Pádraig, più comunemente nota a queste latitudini come Festa di San Patrizio: è una celebrazione di origine cristiana che si tiene ogni anno in onore, appunto, di san Patrizio patrono d'Irlanda e commemora l'arrivo del cristianesimo nell'isola durante il quinto secolo dopo l'avvento di Nostro Signore.

Non stupisce quindi che, lassù, il 17 Marzo sia festa nazionale della repubblica. Più difficile capire perché anche dalle nostre parti si sia preso a festeggiare il St. Patrick's Day, radunandosi dentro capannoni opportunamente agghindati in finto legno e trifoglio a mangiare discutibili piatti di manzo bollito, mentre ci si gonfia di ottima Guinness annacquata. Nel senso, è vero che anche in altre parti del mondo la ricorrenza viene celebrata con passione, ma si tratta prevalentemente di quei paesi interessati nel corso dei secoli da una significativa immigrazione irlandese, mentre — ad oggi — credo che la cosa più simile a una comunità celtica in Italia sia il fan club dei Modena City Ramblers.

Comunque, prima di perdere lucidità e credibilità annebbiati da litri di sidro dentro l'Irish Pub sotto casa, cogliamo l'occasione per parlare un attimo seriamente di musica irlandese. Nello specifico, di post-rock irlandese. Il che, a una prima e superficiale analisi, potrebbe sembrare la stessa cosa che parlare della squadra di bob giamaicana alle Olimpiadi Invernali, ovvero addentrarsi ad analizzare una nicchia minuscola, soprattutto se confrontata con prodotti di esportazione di massa come U2, Cranberries o Enya.

Eppure i God Is An Astronaut da ormai sedici anni occupano saldamente il loro posto di principali alfieri del rock strumentale gaelico, vantando un discreto successo anche all'estero (nei paesi mediterranei in particolare). La loro ottava fatica si chiama Epitaph, esce a fine aprile e — forse perché ispirato nella composizione dalla scomparsa prematura di un loro cuginetto di otto anni — si candida a perfetto party pooper per qualunque spirito festaiolo l'arrivo della primavera stia risvegliando in voi.

La cosa (ehm) buffa è che, per essere sicuri che il messaggio fosse recapitato a dovere, pare che il video dell'omonimo singolo sia stato rifatto da capo due volte. La prima versione infatti — stando alle parole della band, troppo allegra — «While well made, missed the point entirely», mentre questa (completamente creata saccheggiando l'archivio del dottor Stanley B. Burn, pioniere della fotografia post-mortem) non lascia adito a fraintendimenti: uno slideshow d'altri tempi, in bianco e nero, che descrive senza pietà la vulnerabilità dell'infanzia, lo shock che mina alle fondamenta la consapevolezza della triste notizia e tutta una carrellata su un dolore distribuito a pioggia in modo da non lasciare superstiti.

Dopotutto, sarà mica un caso se hanno recentemente firmato per un'etichetta che si chiama Napalm Records.

Jon Hopkins

Emerald Rush

La ricetta segreta per un sanissimo rave bio

Fino ad oggi il genio di Jon Hopkins si era nutrito di cose relativamente concrete: campionamenti dei fuochi di artificio presi in prestito della cerimonia di apertura delle Olimpiadi, lifting brutali sulle forme d'onda di sciacquoni dei cessi di un ben noto hotel di New York registrati con l'iPhone e ripassati poi nella padella di qualche sequencer digitale, l'allarme di casa mandato al contrario ma solo dopo averlo privato di qualche bit scelto con cura.

Insomma, era il classico tipo che, durante le feste private, alle quattro di mattina — quel momento sacro quando sono ormai tutti se ne sono andati o stanno stesi ubriachi sul tappeto in salotto — ti ritrovavi in cucina sommerso dalla marea di toast che aveva abbrustolito solo per il gusto di sentire ancora una volta il suono meraviglioso del tuo tostapane: quello che, fino ad allora, tu avevi usato tutti i santi giorni a colazione, senza renderti conto che andava a eccitare una frequenza ancora inesplorata dello spettro udibile.

Anche durante i suoi live set, armato dell'intero catalogo di Kaoss Pad della Korg fantasiosamente collegati gli uni con gli altri in un'installazione tutt'altro che wireless, sembrava uno stenografo iperattivo, capace di generare con le dita suoni sintetici incredibilmente profondi ed emozionanti, che avevi l'impressione di poter quasi toccare con mano.

Poi si sa: a tutti, a un certo punto della nostra esistenza, ci tocca di attraversare uno — chiamiamola così — "stadio mistico". Sperimentare tecniche di meditazione, stati di trance indotta, fare un viaggio in India e magari provare anche se ci riesce di campare con una dieta rigorosamente vegana. Qualcuno ne fa da lì in poi uno stile di vita, qualcun'altro nel giro di un mese torna ad attentare al buco dell'ozono sgasando con il SUV in fila al semaforo, al ritmo frenetico della techno che esce dall'autoradio assemblato da un minore nel Sud Est Asiatico.

A sentir lui, Jon Hopkins in quel periodo di trascendenza c'è entrato ora, con il suo quinto, attesissimo album. Singularity esce a inizio Maggio e — stando al foglietto illustrativo che il producer inglese ci ha fornito a corredo di questo primo singolo:

This album is a blend of sounds, the attempt to find a space where dancing and meditation can coexist.

In pratica la versione su disco di quella che, durante le serate di musica elettronica nei locali più attrezzati, chiamano chillout zone: un posto dell'anima pieno di divanetti di dubbio gusto in cui di solito finisci a collassare nel tentativo di sopravvivere alla fase down dell'MDMA, ma che nessuno vieta di utilizzare per stare al passo con i tempi e seguire un potenziale nuovo trend della club culture: quella sana mezz'oretta di yoga, buona per rigernerare lo spirito prima di tornare in pista a ballare come un derviscio epilettico in tempo per l'afterhour.

Anche il video di Emerald Rush — animato e diretto da Robert Hunter e Elliot Dear — mette insieme tutti questi aspetti, e finisce per raccontare il trip in versione bio di un ragazzino con la felpa che, seguendo delle strane lucciole che paiono uscite da un cartone di Miyazaki, finisce in una grotta magica in cui fondamentalmente è in atto un rave green, a chilometro zero, basso consumo energetico e minime emissioni inquinanti.

È il primo, succulento assaggio di quello che si annuncia come un lavoro complesso e stratificato, una roba che — sempre a leggere la press release — «is intended to be listened to in one sitting, as a complete body of work». Belle parole e auspicio coraggioso, soprattutto da buttare in pasto all'attuale approccio "mordi e fuggi" alla fruizione della musica online, anche se, a voler essere pignoli — come usava dire il mai dimenticato Antonio Lubrano — «la domanda sorge spontanea», per quanto provocatoria: se un'opera di tal fatta è espressamente pensata e composta per essere goduta in un'unica sessione di ascolto senza soluzione di continuità, a che pro far uscire un singolo? Si rischia di fraintenderne il significato sbagliando il metodo e di perderne il senso nascosto a causa di un eccesso di fretta dichiaratamente controproducente in partenza.

Sì, lo so: son sottigliezze filosofiche che potrebbero (dovrebbero) fare la differenza e dettare le strategie promozionali soltanto in mondo utopicamente ideale. Infatti, vai a spiegarlo a quelli di un'etichetta discografica.

Shame

Lampoon

Vent'anni e non sentirli

Questi son ragazzini di vent'anni che ancora non erano entrati in sala di registrazione e già avevano addosso una confezione intera di etichette che andavano da «The UK's most exhilarating/exciting new band» a «A gang of beautiful young British misanthropes» passando per «The shouty south Londoners that go crazy on stage». Riassumendo: qualche fortunato aveva sentito il demo e c'era rimasto sotto, qualcun altro aveva avuto modo di intervistarli e c'era rimasto sotto e un branco di più coraggiosi li aveva visti dal vivo e… c'era rimasta sotto.

Gli Shame non si sono scomposti e dallo studio di registrazione ci sono usciti con Songs of Praise, una piccola bombetta di post-punk raffinatissimo (ovvero grezzo con gusto) che non fa che peggiorare le cose. In termini di gente che rischia di rimanerci sotto, intendo.

Una manciata di pezzi stretti contro natura gli uni accanto agli altri, pronti a esplodere senza avvertirti prima e impacchettati bene attorno a testi inzuppati in un cocktail da hangover duro (¼ vodka, ¼ disagio adolescenziale, ¼ veleno e ¼ sarcasmo), un cantante che mischia la vena socio-politica di un Jarvis Cocker di periferia annoiato e disilluso con il predicare arido, squallido e desolato del primo Nick Cave e una band che fa del rifiutare qualsiasi posa la propria posa, ma poi suona come come i Fall e i Gang of Four più incazzati. Insomma gli ingredienti per gridare alla next big thing ci sono tutti e probabilmente a ragione.

Come sempre, il tempo calerà la sua sentenza e ci dirà se e quanto next e big sarà questa faccenda, ma intanto questi piccoli bulli cresciuti sui soppalchi del Queen's Head pub con i Fat White Family a recitare la parte della balia, hanno fatto irruzione nella stanza — ormai quasi disabitata — del "rock con le chitarre" inglese, buttando giù il muro con un manifesto audace e risoluto che alza di un bel po' l'asticella per tutte i prossimi gruppetti che vorranno sul serio fare il botto con il loro primo disco.

Lampoon è il terzo singolo estratto dall'album e il suo video fatto in casa a costo-zero vorrebbe catturare un'istantanea della follia — on stage e backstage — loro ultimo tour nord americano. Non ci riesce minimamente, sostiene chi è stato presente.

E c'è rimasto sotto.

Note a margine
Questa mini playlist è un piccolo estratto di quella che è stata selezionata in esclusiva per hvsr.net e che ancora continua a fare la sua porca figura, in costante evoluzione, sull'omonimo sito. La riportiamo anche qui, in fila per cinque con il resto di quel che avanza, per questioni di vanagloria, completezza e perché Spineless è come il maiale: non si butta via nulla. Ma soprattutto per non dimenticare, a perenne memoria di quei bei tempi andati in cui i mixtape si facevano a mano e gli algoritmi ci mettevano i bastoni tra le ruote solo durante le ore dei corsi di algebra.
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