Elogio della pirateria digitale, emozioni a 128k e sharing di ricordi partigiani a banda stretta: per tutti quelli che hanno vissuto sulla loro pelle e non dimenticano il mondo prima dell'ISDN.
26 Luglio 2013
È stato camminando lungo il marciapiede di Corso Buenos Aires che ho capito tutta in una volta l'inesauribile pochezza del mondo in cui ci siam finiti dentro. Uscito dal Cinema Arcobaleno, appena svoltato l'angolo con Viale Tunisia, in una tarda serata di mezza primavera, con ancora negli occhi la locandina di quella roba mediocre che avevo appena visto controvoglia: ho infilato le mani in tasca, intrecciando tra indice e medio il cavo dell'iPod fino ad arrivare alla forma tondeggiante dell'auricolare, prima di iniziare a scendere le scale verso la metropolitana e finalmente ho avuto chiare le parole necessarie per narrare sinteticamente questi tempi così poveri che ci è toccato in sorte di vivere.
Premuto PLAY, più o meno, suonavano così:
Triste è l'epoca in cui l'inventore di Napster viene relegato in un ruolo di secondo piano dentro un film per ragazzini sull'inventore di Facebook.
Perché c'è da dire che noi siam quelli che non si dimentica. Noi siam come quelli tipo mio nonno che han fatto la fame in tempo di guerra e che ora, anche se da mangiare ce n'è in abbondanza, non si butta via nulla. È quasi offensivo, sotto un certo punto di vista, per noi che siam quelli che han visto nascere, crescere e morire (e anche resuscitare, a modo suo) Gnutella nel giro una sola, convulsa giornata, sentir te, adesso, che ci vieni a dir di pirateria. Pensarci bene, è uguale: proprio come quelli tipo mio nonno che han vissuto la ritirata tedesca lungo la Linea Gotica e ora gli tocca ascoltar te (sempre te, sì) che parli della grande destra moderata.
"Noi" sarei io. E quegli altri tre o quattro che ancora hanno memoria di com'era fatto il logo di Audiogalaxy.
Io me lo ricordo ancora oggi. Oggi che, alle soglie della pensione, apro il mio iTunes e leggo in fondo: 16299 canzoni, equivalenti a quasi 50 giorni di musica se ascoltate tutte di fila. E son solo quelle dell'hard-disk dedicato a ques'ultimo, sbiadito quadriennio milanese. Ancora oggi che se devo ascoltare un pezzo ci metto meno a scaricarlo sul desktop piuttosto che ad alzarmi, cercare il CD, aprirlo e metterlo nello stereo. Oggi che lo stereo nemmeno ce l'ha più, il lettore CD: ci infili dentro direttamente una chiavetta USB, oggi. Oggi che nemmeno ce l'hai più, lo stereo proprio, dico: apri il tuo MacBook acquistato a rate e la prima schermata che ti compare è quella di Spotify, a suggerirti caldamente di ascoltare L'Estate Enigmistica dei Baustelle perché l'ha sentita dieci minuti fa un tuo contatto di Facebook che sinceramente non sai chi sia.
Ancora oggi io me lo ricordo, il mio primo mp3. Era One, dei Filter.
Che uno pensa, il primo mp3 è una roba importante, avrà scaricato un pezzo dei Led Zeppelin, una canzone dei Pink Floyd, o che ne so, qualcosa dei Pearl Jam, dei Nirvana, dei Metallica. Un pezzone della madonna. O almeno un grande classico di Madonna. Sempre avuto gran rispetto io, di Madonna. Della Madonna, meno, invece: ma quello è un altro discorso, poverina. Invece no: One dei Filter.
E allora subito che uno dice eccolo lì che vuol far l'alternativo dei miei coglioni, il lurido indiependente del bit, il radical chic a banda (quasi) larga: quello che lui no, mica il Led Zeppelin i Pink Floyd o Madonna, no, lui il primo mp3 scaricava un pezzo dei Filter così di nicchia che lo conoscevano solo lui e il cantante dei Filter. Anche se lui a volte quando era ubriaco capitava che si dimenticava il testo. Il cantante, dico.
No. È che c'era solo quello. Eran tempi magri, sperimentali, quelli che se vuoi proprio chiamarla "pirateria", allora era la pirateria beta: non potevi permetterti di scaricare quello che volevi te, non c'era la ricerca per artista, o per album. Era più una pesca a strascico in cui tiravi su un po' di tutto e poi facevi una selezione a posteriori: buttavi a malincuore la maggior parte della merda e tenevi il resto tappandoti un po' il naso. E allora se un tizio di Denver metteva sul suo spazio condiviso One dei Filter te scaricavi One dei Filter. E solo in seguito, dopo il decimo ascolto consecutivo, dicevi: che culo, gran pezzo.
E allora sì: me lo ricordo ancora oggi, io, il mio primo mp3. One dei Filter, quella canzone un po' così, un po' sussurrata e un po' urlata, per dire che non ci sono santi: l'uno è il numero più solo di tutti, anche più solo del due. Che messa così, a quindici anni di distanza, pare una banale idiozia. E invece.
Invece così, a quindici anni di distanza, ti guardi dentro l'unico specchio che si possono permettere questi quattro metri quadrati di affitto sprecato, ti conti un po' e capisci che arrivar a due è veramente complicato, da soli.
Il primo mp3 e il battito del cuore leggermente accelerato mentre la barra del download si riempiva progressivamente (dove "progressivamente" è un termine che qui non ha niente a che vedere con un qualsiasi concetto di velocità ma è solo un'illusione ottica lunga ore), me lo ricordo ancora oggi. Il futuro davanti, un mondo nuovo che si apre, un oggetto alieno che atterra sul tuo desktop per dirti che la tua vita sta cambiando. Il primo mp3 è come il primo bacio: non si scorda mai. E io lo posso dire. Io che sulla chat di Napster c'ho pure trovato una fidanzata.
Il primo mp3 è euforia, incognita, paura di star facendolo nel modo sbagliato. Il primo mp3 è come perdere la verginità. E io lo posso dire. Io che per le cose importanti ho sempre aspettato il momento giusto. Io che ho perso la verginità solo dopo aver scaricato il mio primo mp3. Lo stesso giorno, per festeggiare.
Anche il primo disco, me lo ricordo ancora oggi. Il primo disco scaricato interamente da internet, una traccia dopo l'altra, mp3 dopo mp3. Era quel disco bianco sporco, o forse sarebbe meglio dire grigio pallido. Credo dipenda dal punto di vista: immagino ci passi in mezzo la stessa differenza che sta fra il famoso bicchiere mezzo pieno e quello (altrettanto famoso, ma meno apprezzato) mezzo vuoto. Quindi cambiamo prospettiva e diciamo: quel disco meraviglioso. Is This Desire? di PJ Harvey. Era un disco con un punto interrogativo, che può sembrare un particolare insignificante, ora a quindici anni di distanza, messa così. E invece.
Invece così, a quindici anni di distanza, ti guardi allo specchio e l'unica cosa che vedi è proprio un punto interrogativo, magro, allungato, con quel che resta di un ricciolo in testa e un bel pallino incatenato ai piedi. Il primo punto interrogativo con le occhiaie della storia della letteratura: fermo, immobile, piantato a terra da una gravità imposta come gli schiavi dell'Alabama ai tempi di quello spilungone di Abramo Lincoln, pace all'anima sua.
Ci misi quasi due settimane: due settimane di notti insonni, che dalle 20 alle 8 la connessione flat di Tiscali — gentilmente fornita a un prezzo per i tempi esorbitante dalla regione autonoma Sardegna al retrogrado mondo peninsulare — costava meno e andava un pochino più veloce, anche se le ventole di un Pentium di fine anni '90 non eran meno rumorose dei motori di un Boeing 747 e poi la mattina dopo quelli del piano di sotto ci venivano a chiedere se fosse possibile, gentilmente, non far partire la lavatrice con centrifuga dopo cena, tutte le sere. Ancora oggi, me la ricordo, l'emozione di scrivere il titolo sul CD ancora caldo di masterizzazione 2x, l'odore del pennarello indelebile, l'abbondante mezza cartuccia di inchiostro consumata per stamparne, se non proprio a colori, apprezzabilmente scolorita, la copertina. Di un disco che avevo già in cassetta, originale. Di un disco che di lì a poco avrei comprato in CD, originale. Di una donna che qualche estate dopo avrei fatto 500km (8 ore, più 200 mila lire di viaggio, più 40 di biglietto, più 8 di piazzola in un campeggio in riva al mare, davanti all'unica alba decente che sia mai riuscito a vedere specchiarsi sull'Adriatico), andata e ritorno, per andare ad ascoltare live a Fano.
È questo che intendo quando mi parli di pirateria musicale, di crisi del mercato discografico, di proprietà intellettuale, e io ti dico che è meglio se cambiamo discorso.
Quell'mp3 era sicuramente codificato male, massimo 128kbps quando si era fortunati, probabilmente era tagliato a metà, o con un ronzio fisso in sottofondo, forse addirittura era una proprio una canzone diversa da quella che era scritta sul file che stavi scaricando. Ma non importava. Quando quell'mp3 lì, dopo tre o quattro ore che era in download e la percentuale era al 98% a volte anche al 99%. Ecco, quando al 99,9% il download all'improvviso si interrompeva. Saltava la linea, qualcuno di là alzava il telefono, crashava Windows sopraffatto dal sadismo della legge di Murphy applicata all'informatica (detta anche legge di Gates). Non importava. Quello, in quel momento, era il momento più brutto della tua vita.
E io lo posso dire. Io che i brutti momenti li colleziono in una teca appoggiata alla parete di camera, inchiodati lì da un ricordo a testa, come farfalle morte su un piano ricoperto di velluto rosso e schiacciate da un vetro la cui pesantezza non si vede ma si sente, eccome se si sente. Io che poi tutto ciò lo uso per circuire le ragazze, e invitarle su da me:
Dai, vieni a vedere la mia collezione di brutti ricordi. E cerca di non esser te, il prossimo.
Funziona sempre. Dopotutto, da che mondo e mondo, si sa: la compassione (o, nella migliore ipotesi, il senso di colpa) è la spinta alla base di buona parte dei rapporti sentimentali.
E allora non mi chiedere, oggi. Oggi, che non c'è più nulla da toccare, oggi che tutto è immediato nel suo essere virtuale, oggi che anche i porno lo guardi in streaming, invece che conservarli poeticamente dentro un pila di DVD con su scritto "MatLab Libraries R 9.1". Se non direttamente, appena sfornati, sullo smartphone della tua compagna di classe, durante l'ora di religione. Non mi chiedere oggi cosa rimane di quell'era di partigiani di WinAmp, di abbordaggi timidi e emozionati ai server olandesi di eDonkey, di scambi clandestini di musica sudata a turno, sotto i lampioni intermittenti di piccoli parcheggi di periferia, sacro rituale propiziatorio prima dell'ennesimo, solito sabato sera.
Nulla, rimane.
Se non un migliaio di CD masterizzati magicamente in equlibrio gli uni sopra gli altri ed equamente divisi in tre torri alte due metri, che mia nonna —non si sa grazie all'attenzione di quali santi — è sempre riuscita miracolosamente a non far crollare, nella sua lotta ormai sempre meno quotidiana, sempre meno convinta, sempre meno consapevole, contro la polvere e il tempo, dentro una camera in cui non vivo più da anni.
Lo scontrino dell'EsseDi, a incarnare il ricordo dei soldi messi da parte per il tanto agognato modem a 56k uscito dalla sua scatola orgogliosamente marcata US Robotics con il piglio del protagonista solo per scoprire che linea Telecom pre-rivoluzione industriale di casa mia, installata probabilmente ai tempi Antonio Meucci e poi rosicchiata con costanza certosina nei secoli dei secoli da teneri topini nerd di campagna (si sospetta la regia occulta di Alexander Graham Bell, ma non ci sono prove effettive al riguardo), non riusciva a trasferire dati a più di 14k.
E ancora quei giganteschi mp3 da 3.2 megabyte che gridavano sullo schermo Sony 200SX Multiscan Trinitron 17" (gioiellino di robusta tecnologia giapponese a tubo catodico, uniformemente distribuita su un peso 32kg di solida energia elettrostatica): «Tempo rimanente 7,2 ore». L'uno.
E poi mia madre che doveva telefonare all'ospedale, per sapere i risultati delle analisi, e dalla cucina, con la mano magra appoggiata stanca sulla cornetta, mi gridava:
Te lo buco, quel computer.