Il delirio del teorema

Il delirio del teorema

Questa volta Darren Aronofsky piscia di gran lunga fuor dal vaso e mette decisamente troppa carne al fuoco, per poi darla in pasto al grande pubblico ancora troppo cruda.

2 Ottobre 2020

Darren Aronofsky torna nelle sale con quello che — a quanto si legge in giro — dovrebbe essere tanto il suo film più "audace e coraggioso" quanto quello scritto più di getto. Pare che il regista statunitense abbia dichiarato “per buttar giù la sceneggiatura de Il Cigno Nero ho impiegato dieci anni, per quella di Madre! appena cinque giorni”. E si vede, bisogna ammetterlo. Diciamo che se — come Nostro Signore per creare il mondo — se ne fosse preso almeno uno in più e magari anche la domenica per pensarci un attimo meglio, probabilmente si sarebbe accorto che aveva messo un po’ troppa carne al fuoco. Letteralmente. Al fuoco, dico.

Per buttar giù la sceneggiatura de Il Cigno Nero ho impiegato dieci anni, per quella di Madre! appena cinque giorni.

E si vede, bisogna ammetterlo. Diciamo che se — come Nostro Signore per creare il mondo — se ne fosse preso almeno uno in più e magari anche la domenica per pensarci un attimo meglio, probabilmente si sarebbe accorto che aveva messo un po' troppa carne al fuoco. Letteralmente. Al fuoco, dico.

Un esempio a caso: se metti uno che non molti anni fa se ne andava in giro per il Texas a bucare il cranio di chi gli capitava sotto tiro con una bombola ad aria compressa e sfoggiando quella pettinatura a far la parte del poeta tormentato che si isola in compagnia della sola moglie chiuso una casa sperduta nel nulla, per superare il suo ipotetico blocco dello scrittore, è chiaro che le cose non possono che andare in vacca. Parecchio in vacca, e in men che non si dica, tra l'altro.

Javier Bardem è uno di quegli attori (un altro è, ad esempio, Vincent Cassel) che ti riconciliano con l'essere maschio: nel senso, se è diventato un sex symbol lui — un ominide dai lineamenti e dall'espressione di un pugile suonato con un profilo da bull terrier, dal suo lato migliore, s'intende — c'è speranza per tutti. Bravo, per l'amor di Dio, ma da qui a santificarlo e renderlo oggetto di culto come un qualunque Padre Pio — che in fin dei conti è quello che succede qui — ce ne corre.

Anche il resto del cast è di qualità. Un minuto di silenzio in particolare per la povera Jennifer Lawrence, che pensava di aver svoltato facendo il suo ingresso trionfale nel cinema d'autore, ma invece si ritrova dentro un film che in termini di realismo si pone giusto uno step sotto Hunger Games e X-Men. Ma con una trama più improbabile.

Un film che va ben oltre la soglia del ridicolo: una roba che risulta perfino difficile da spoilerare, da quanto è assurda.

Un poeta ormai da tempo incapace di scrivere anche un solo verso, sua moglie — e sua musa — che nell'attesa si è data al fai da te al punto che ormai ne sa più di un commesso di Brico e una casa troppo grande per due persone che non aspetta altro che essere rimessa in sesto: sembrano gli ingredienti perfetti per una puntata di Fratelli in Affari e invece basta manciata di ospiti (in)attesi per far degenerare il tutto ben oltre l'immaginabile. E anche ben oltre la soglia del ridicolo, probabilmente, in quella che risulta una roba perfino difficile da spoilerare, da quanto è assurda: tipo due ore di scarti di un episodio di Black Mirror ambientato dove non prende il cellulare, la rivisitazione in chiave biblica di un incrocio tra Platoon e Non aprite quella porta generata da un'innocua atmosfera da "aggiungi un posto a tavola, che c'è un amico in più", che dimostra quello che avrebbe potuto essere L'inferno di cristallo se John Guillermin e Irwin Allen avessero attraversato una deriva mistica — dopo aver passato una serata in un club privè à la Eyes Wide Shut però — prima di mettersi dietro la macchina da presa.

Insomma — al netto dello spiegone "teologecologista" che il regista non ha comunque voluto farci mancare e di cui è obiettivamente difficile trovare traccia nel girato — chiamiamolo "il Vangelo secondo Aronofsky", un pot-pourri apocalittico in cui, chiusi nelle stesse quattro stanze, si passa nel giro di pochi minuti da una veglia funebre alla terza guerra mondiale e dove la Lawrence — messa incinta non si capisce bene se da Bardem stesso o da un non meglio identificato spirito non particolarmente santo — partorisce senza epidurale in un'ambientazione che sta a metà tra una messa nera pasoliniana, un rave techno non autorizzato e l'irruzione dentro la scuola Diaz durante il G8 di Genova, ma purtroppo non riesce a salvare il bambino nell'unico modo possibile, ovvero lasciandolo in affido ai servizi sociali prima che il marito scompensato lo dia in pasto alla folla adorante. Letteralmente. In pasto, dico.

In conclusione, se π a suo tempo è stato il teorema del delirio, Madre! — anche visto il tentativo finale di simulare un significato che è solo (forse) nella testa del suo autore, riesumando in extremis il vecchio trucco della struttura circolare in cui la fine è l'inizio o forse l'inizio era la fine o (ancora peggio) qualunque cosa sia era l'inizio della fine e comunque (questo è poco ma sicuro) al peggio non c'è mai fine — avrebbe forse dovuto intitolarsi 2πr — dove "r" è il raggio che corrisponde alla gittata di quanto il regista ha, come si suol dire, pisciato fuor dal vaso — e, del delirio di Aronofsky, ne è la definitiva dimostrazione.

Pubertà
Pioggia come se piovesse