Il nuovo disco del duo formato da Dominic Maker e Kai Campos scala le vette della post-dubstep senza nessuna paura dei fili dell'alta tensione. Occhio a non fare la fine di un Icaro 2.0, però.
29 Ottobre 2017
Dominic Maker e Kai Campos hanno iniziato con qualcosa di simile alla dubstep (ma che sempre stava alla dubstep come un culone da twerking sta al classico sedere a mandolino), poi sono stati tra i primi a mandarla in pensione iniziando a inzuppare le zampe nelle sabbie mobili di quella che in molti hanno definito post-dubstep (che a sua volta stava alla dubstep come un Kandinsky sta a una natura morta di Caravaggio) e ora salgono in piedi sulla sua carcassa (della dubstep, dico — e anche della post-dubstep, forse) e ci rimangono sfoggiando un innaturale quanto navigatissimo equilibrio, mentre usano tutte le contaminazioni di genere che vengono loro in mente come specchietto per le allodole che ci impedisca di etichettarli.
Love What Survives guarda al passato (Can, Faust, Cure) senza vergogna — sfoggiando una mise pasoliniana perfetta per le peggiori estati a Ostia e rivalutando elementi analogici di un gusto a dir poco retrò come i boxer a vita alta e il calzino bianco a metà caviglia — ma si erge comunque sulle vette della sperimentazione stilistica come un moderno capretto di montagna, capace di trovare risorse e ispirazione anche da pochi ciuffetti di erba oscura dall'amaro sapore coldwave.
Più che semplice incrementalismo musicale, questa è una scalata programmata alle posizioni più influenti dell'IDM, fatta senza protezioni di sorta, appigli sicuri o agganci predefiniti, con la sicurezza sfrontata di chi non ha mai sofferto di vertigini né è mai caduto dal seggiolone.
Tutto molto bello, tutto molto promettente, non fosse solo per il rischio — non così improbabile a quelle altezze — di fare la fine del capitano Richard Ashby quella volta al Cermis. Ovvero un gran casino con i cavi della funivia.