HVSR Digest #1

HVSR Digest #1

Vessels, Grizzly Bear, Lali Puna, Com Truise e Joahnn Sebastian Punk: cinque pezzi che l'algoritmo probabilmente non vi suggerirebbe, e invece potrebbero essere la colonna sonora della migliore mezz'ora della vostra giornata.

1 Novembre 2017

Com Truise

Propagation

Più contro che pro, nella scelta di farsi una moglie robot

Per sgombrare subito il campo da ragionevoli dubbi o imbarazzanti equivoci, chiariamo innanzitutto che Com Truise non è il tentativo (abortito sul nascere) di snoccialare in ordine di importanza tutto il cast di Top Gun da parte di un cinefilo dislessico, ma bensì il nome d'arte di Seth Haley.

Barbuto produttore statunitense di indiscusso talento, dal 2010 (ovvero da molto prima che tornassero di moda) ci delizia con raffinatissime incursioni strumentali in un retrofuturo che sembra uscito — se non proprio da un videogame arcade anni '80 — da qualche VHS sci-fi ritrovata in soffitta.

Non stupisce quindi se Propagation, terzo singolo tratto dal suo ultimo album Iteration, si sviluppi come un mini-episodio di Black Mirror: una tragedia familiare di violenza domestica, dove la Lorella Cuccarini di una vecchia pubblicità delle cucine Scavolini altri non si rivela che un replicante incazzato, forse perché scartato dal set di Westworld.

Dopotutto, in tempi di sequel di Blade Runner, la domanda sorge spontanea: se i buoni vecchi androidi di Ridley Scott sognavano tutt'altro che pecore elettriche, cosa potrà mai fantasticare la tua mite e obbediente mogliettina robot?

Com Truise ci fornisce non solo la risposta — di affogarti nella piscina privata della casa che le hai regalato subito dopo le nozze, per la precisione — ma anche qualche indizio su come prevenire il peggio. O almeno su quando dovresti iniziare a preoccuparti: esattamente nel momento in cui le sue pupille diventano com'erano quelle di Wes Borland ai bei tempi dei Limp Bizkit.

Johann Sebastian Punk

Tragedy

Il pasto nudo e crudo

Le regole del gioco sono semplicissime. Prendete un album che vi piace (a dirla tutta non è necessario che vi piaccia, ma diciamo che aiuta) e mischiatene la tracklist così che i titoli, messi in fila uno dietro all'altro, formino un discorso più o meno sensato (a dirla tutta questa storia della sensatezza finale della cosa — come spesso accade nella vita — è complicatissima quanto sopravvalutata, ma se vi riesce vi guadagnerete qualche punto in più). Ripetete l'operazione con un altro album. Ecco così pronte le due strofe principali del vostro nuovo singolo e voi dovrete preoccuparvi soltanto di trovare un ritornello che funziona (a dirla tutta, con queste premesse, più o meno qualunque ritornello funzionerà).

Insomma, una specie di Parolandia per bambini cresciuti, applicato alla composizione di testi per la musica, che — a livello di sbattimento generale — sta giusto un gradino sopra il Thom Yorke di Kid A / Amnesiac (che si narra tirasse fuori a caso da un cappello foglietti di carta con su scritte le parole — tu chiamalo, se vuoi, “cut-up method”) e giusto un gradino sotto il ben noto Verbalizer di David Bowie.

La cosa buffa è che funziona, almeno a vedere quello che fa Johann Sebastian Punk con Revolver dei Beatles e Aftermath dei Rolling Stones nel suo ultimo pezzo Tragedy, tratto dal nuovissimo Phoney Music Entertainment, ed ennesima prova di perizia estrema nel campo di quella che potremmo definire "musica rocambolesca": baroque-pop e surf-punk rallentato, glam-rock e teatralità pura, tutto rigirato col mestolo in un unico calderone visionario che prova a sciogliere il significato della parola dentro il suo stesso suono.

Processo, questo, addirittura estremizzato nel video, dove un Massimiliano Raffa a metà tra Peaches e Arturo Brachetti finge di partecipare a un ipotetico casting per sosia di Vladimir Luxuria, mentre ci accompagna in un karaoke fonetico, attraverso sottotitoli universalmente leggibili, in quanto scritti — sarebbe meglio dire pronunciati, i più impertinenti potrebbero azzardare storpiati — secondo le regole dell'IPA.

No, non la birra, l'International Phonetic Alphabet.

Vessels

Mobilise

L'elettronica dopo il post-rock

Nel 2015 il miglior album di musica elettronica forse lo aveva tirato fuori un gruppo post-rock. Il disco era Dilate, la band i Vessel.

A due anni di distanza i ragazzi di Leeds tornano con il monumentale The Great Distraction, lavoro ricco di ospiti (Flaming Lips, John Grant, Harkin, Vincent Neff) che dimostra come i cinque siano tutt'altro che distratti e men che meno disattenti, ma bensì perfettamente concentrati sulla strada da prendere e altrettanto convinti di quella presa: chitarre più o meno appese al chiodo (a parte nei momenti in cui è possibile farle suonare come qualcosa di diverso da una chitarra) e la mani ben in pasta in un universo sintetico che anche quando si perde in aperture più oniriche mai smette di strizzare l'occhio a una certa club culture di nicchia.

Mobilise è il terzo singolo tratto dall'album appena uscito e arriva insieme al video diretto da Alexander Darby: girato alle Red Sands Fort, piccole piattaforme costruite all'estuario del Tamigi durante la seconda guerra mondiale per fermare l'avanzata tedesca, vede come protagonista la versione cyber-punk del campione inglese di free-ride su moto d'acqua ed è una specie di chiamata alle armi post-apocalittica, che si materializza in quello che sembra un rave distopico con la cover band dei Bloody Beetroots come guest star, organizzato dalla crew di Baywatch per festeggiare il salvataggio dei soldati inglesi dopo i casini di Dunkirk. Senza Pamela Anderson però, né tantomeno Harry Styles.

Peccato solo che la versione del video sia una radio-cut di quattro minuti scarsi (contro i quasi nove della versione su disco), una specie di trailer insomma, in cui si riesce solo a intuire l'imponente crescendo rossiniano — quello sì, estremamente post-rock, da poterlo quasi definire post-rocksiniano — che caratterizza l'originale da metà in poi.

Grizzly Bear

Losing All Sense

La band preferita dai Radiohead

Non tutte le band possono sfoggiare in curriculum un endorsement pubblico da parte dei Radiohead, in particolare poche (ma buonissime) parole del solitamente taciturno Jonny Greenwood, che a suo tempo — introducendo i Grizzly Bear al proprio pubblico durante il tour di In Rainbows — li definì «my favorite band in the world».

Comunque, indipendentemente dal testimonial d'eccezione che li accompagna, c'è più di un motivo per applaudire applaudire Painted Ruins, quinto album di Ed Droste e compagni, che sancisce il loro ritorno in pista dopo le non si sa bene quanto fondate voci di scioglimento che nel 2013 avevano seguito il precedente Shields.

Losing All Sense è il nuovo singolo del quartetto di Brooklyn e non si fa particolari problemi a unire la ballabilità dei migliori, vecchi Blur con quella decadenza semi-artefatta à la Divine Comedy, ulteriore testimonianza — ce ne fosse ancora bisogno — del loro modo "laterale" di fare indie: prodigiosa (quasi artigianale) attenzione ai piccoli dettagli mischiata a una specie di devozione per la melodia, che garantisce loro la libertà di deviare verso tangenti sbilenche dal retrogusto indefinibile, a metà tra il pop puro e la psichedelia for dummies.

Il tutto senza perdere mai né una certa profondità nei testi, né un buona dose di ironia visuale. Per dire, qui il video inizia male in una puntata di Desperate Housewives e finisce peggio dentro una di Lost, eppure — anzi, forse proprio per questo — ti strappa lo stesso una risata.

Lali Puna

Two Windows

C'era una volta l'indietronica

Poche label discografiche sono così legate a un ben preciso (sotto)genere musicale come la Morr Music a quel recinto — tanto ibrido quanto circoscritto — che va sotto il nome di indietronica: se non vogliamo sbilanciarci dicendo che l'ha inventato, sicuramente nessuno potrà negare l'importanza che ha avuto l'etichetta berlinese nel contribuire alla sua definitiva consacrazione.

Poche band sono legate a un'etichetta — da una vita e per la vita — come i Lali Puna alla creatura di Thomas Morr. Se, come si dice, nel calcio non esistono più le bandiere, figuriamoci nel music business. Eppure la band di Valerie Trebeljahr, splendida mosca bianca in un mondo di pecore nere, ancora non si stanca di interpretare il ruolo di Francesco Totti nella squadra del produttore tedesco. Una discografia completa senza cambiare casacca, che li ha visti debuttare nel 1998 e passare con la naturalezza dei predestinati dal ruolo di pionieri prima, alfieri poi e adesso custodi dei segreti della nicchia in questione.

Orfani del genio compositivo di Markus Archer — che insieme alle sue chitarre si porta via il lato più indie del progetto lasciando gli altri a fare i conti con quel che resta dell'(elet)tronica — tornano, a sette anni di distanza dal precedente Our Inventions, con Two Windows un disco che si pone come un nuovo punto di partenza e prova a lasciare da parte la componente soave ed eterea a favore di beat più accentuati, energici e fisici.

Il tutto, comunque, sempre senza esagerare, né perdere il delicato equilibrio — in questo senso la title-track è un esempio perfetto — che ha sempre contraddistinto le loro invenzioni pop: arrangiamenti stratificati, glitch elettronici campionati e la voce di Valerie, fugace e quasi sussurrata come un'ombra nella coda dell'occhio.

Per capirsi: i Lali Puna erano la risposta alla domanda («ma chi sono questi?») che vi siete fatti la prima volta che avete visto l'inizio de Le conseguenze dell'amore di Sorrentino, ovvero la voce perfetta di un tapis-roulant che si muove lentissimo in un aeroporto deserto. E in questi anni di silenzio non hanno né violentato la loro natura né perso il loro gusto innato per tutto ciò che è emozionale. Quindi lo capite anche da soli che, nonostante qualcuno parli di "svolta dance", è ridicolo aspettarsi la techno all'improvviso.

Note a margine
Questa mini playlist è un piccolo estratto di quella che è stata selezionata in esclusiva per hvsr.net e che ancora continua a fare la sua porca figura, in costante evoluzione, sull'omonimo sito. La riportiamo anche qui, in fila per cinque con il resto di quel che avanza, per questioni di vanagloria, completezza e perché Spineless è come il maiale: non si butta via nulla. Ma soprattutto per non dimenticare, a perenne memoria di quei bei tempi andati in cui i mixtape si facevano a mano e gli algoritmi ci mettevano i bastoni tra le ruote solo durante le ore dei corsi di algebra.
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