La band di Stuart Braithwaite, all'Estragon di Bologna, mette in scena l'ennesimo spettacolo perfetto in una carriera ventennale. Oggi come ieri, una semplice questione di imbarazzo nella scelta.
2 Novembre 2017
Coolverine è la più bella canzone dei Mogwai. Dico sul serio: non è una provocazione. E lo dico a cuor leggero, senza impegno, con la self confidence di chi è sicuro di non sbagliare. Lo dico con quello sguardo allo stesso tempo ingenuo e sornione (o almeno lo farei se fossi capace di uno sguardo diverso dall'impassibilità più muta e deludente) di chi ha trovato il trucco buono per non scegliere e non si vergogna di ammetterlo, di chi ha capito che il valore che diamo all'unicità di una cosa (di qualunque cosa) è un investimento a perdere, di chi sa che l'esclusività di una definizione (una qualunque definizione) è un plus che ormai fanno fatica a considerare tale anche i collezionisti più sgamati.
Coolverine è la più bella canzone dei Mogwai. La più bella canzone dei Mogwai sono almeno cinquanta canzoni. Forse qualcuna in più.
La setlist di un concerto è una roba complicata. Altà Fedeltà l'avete letto tutti e qui il discorso non è diverso: per la setlist di un concerto potremmo imbastire teorie e stilare regole molto simili a quelle che Nick Hornby mette in campo riguardo all'ormai famosissima storia dei mixtape.
Ci sono band che ci lavorano su una settimana consecutiva e poi — sfinite — non hanno la forza di cambiarla per tutta la durata del tour. Band che ogni sera fanno a botte sulla soglia del camerino per decidere modifiche dell'ultimo minuto. Band che tirano a caso i nomi delle canzoni da un cappello e valutano quali si ricordano ancora e quali no. Band che scelgono i pezzi di comune accordo ma poi — true story — non se li ricordano una volta sul palco.
Alcune sparano il singolone appena uscito immediatamente in apertura, altre si tengono il pezzo che le ha rese famose per ultimo. Altre concentrano tutti i pezzi più tirati nei bis, altre ancora cominciano con una suite strumentale, magari accompagnata da una voce parlata, registrata in bassa qualità.
La gran parte di loro lo fa perché crede di conoscere il carattere, l'umore e le esigenze del suo pubblico, di sapere se chi è in sala preferisce consumare tutto subito in una botta da cocainomane e poi rilassarsi rincoglionito in una successiva, indifferente e stordita fase chill-out o se invece vuole un vero e proprio crescendo che lo lasci senza fiato dopo l'ultima nota dell'ultimo encore.
Autoconvincersi di questo aiuta a sopravvivere, indubbiamente, ma la verità è che nella maggioranza dei casi una buona fetta di chi è in sala è lì per ascoltare un pezzo o due al massimo, che quando sente quel paio di accordi noti prova a precipitarsi sotto il palco come un invasato spingendo a destra e a manca, mentre per il resto del tempo se ne sta appoggiato al bancone del bar a farsi due chiacchiere con chi capita. Dopo aver fatto il check-in sull'evento Facebook, ci mancherebbe.
I Mogwai, in questo senso, sono un caso a parte, più fortunato, se vogliamo, sicuramente più semplice da gestire, sia dall'interno che dall'esterno. Non hanno singoloni, né pezzi che più di altri li hanno resi famosi. La stragrande maggioranza delle loro canzoni sono suite strumentali, nelle pochissime che tecnicamente potremmo definire "cantate" spesso la voce è parlata, registrata in bassa qualità. Le parti più tirate e quelle più ariose si alternano tre o quattro volte nell'arco di un'unica traccia e — cosa più importante — il loro pubblico sembra non avere pezzi preferiti. O meglio, tutti i loro pezzi sono i preferiti della maggior parte di quelli che sono in sala. Questo perché — eccoci al punto di partenza — la più bella canzone dei Mogwai sono almeno cinquanta canzoni. Forse qualcuna in più.
I Mogwai, Coolverine — la loro canzone più bella — la buttano là in pasto alla folla a metà set, come fosse una qualunque tra le loro cinquanta canzoni più belle. Perché le cose stanno esattamente così. I Mogwai infatti iniziano la data bolognese del loro Every Country's Sun European Tour con un pezzo vecchio di dieci anni: Friend of the Night.
Friend of the Night — ovviamente — è la canzone più bella dei Mogwai.
Aprire per un band come i Mogwai ha i suoi pro e i suoi contro. Da un lato presenti la tua proposta davanti a duemila teste pensanti che non si fanno particolari pregiudizi di genere (musicale) e hanno la pazienza di ascoltarti e magari di dirti pure bravo, se secondo loro te lo meriti. Dall'altro quelle duemila teste sono una fanbase così devota che dopo il primo pezzo del main act — che puntualmente, è la loro migliore canzone — praticamente nessuno si ricorda più di te.
È esattamente quello che accade ai Sacred Paws, o forse dovrei dire "alle" Sacred Paws, power-trio di riot grrrl ma non troppo (diciamo con un paio di "r" in meno), nato dall'incontro della chitarrista Rachel Aggs (in pratica Buzz Osborne dei Melvins, ma un po' più sexy) con la batterista Eilidh Rodgers, fresche di uscita su Rock Action (l'etichetta scozzese fondata appunto dai membri dei Mogwai) con il loro debutto Strike a Match, un concentrato di quello che potremmo definire (se significasse qualcosa) art-punk: teso, nervoso, ben composto e ben suonato, che però ha poco a che fare con quello che a breve seguirà.
Ma si sa, gli abbinamenti headliner + guest seguono logiche di mercato superiori, che noi umani non possiamo nemmeno immaginare. Nel senso che possiamo immaginarle benissimo, ma preferiamo di no. Per il bene di tutti. Nostro in primis, in quanto parte attiva di quelle stesse logiche.
È sempre un piacere (si fa per dire) tornare all'Estragon, l'unico locale al mondo che, nel passare a un nuova location dall'acustica quasi perfetta, riesce a far rimpiangere il vecchio stanzone dove si sentiva il giusto e male.
Il moderno (si fa per dire pure quello, saranno più di dieci anni ormai) Estragon Club è uno dei due posti che è meglio non cercare su Google Maps. L'altro è il Circolino della Vela di Civitanova, dove si mangiano probabilmente gli spaghetti alle vongole più buoni del litorale marchigiano, ma che in termini di geolocalizzazione del suo account business connesso al servizio del colosso di Mountain View lascia un po' a desiderare. In quel caso la navigazione (mai termine fu più adatto) si incaglia facendo confusione tra "molo Nord" e "molo Nud" e quindi si tratta di procedere a vista senza bussola, circumnavigando il porto per un totale di quasi un chilometro a piedi. Not a big deal, come direbbe un turista oxfordiano in vacanza a Macerata: lo scalo di Civitanova Marche non è quello di Marsiglia e, se è estate, la passeggiata è pure piacevole, ma se avevi organizzato una robetta in cui la puntualità è d'obbligo — tipo una cena galante a base di pesce — le cose si fanno comunque imbarazzanti.
In maniera simile, cercando tramite la app la venue felsinea, il telefono ti guida attraverso una surreale avventura periferica, lungo un circuito fatto di dejà-vu che si snoda prima tra Via Romita e Via Zambeccari e poi tra via Zambeccari e Via Romita in un endless loop dal sapore nolaniano. Vedi il luogo verso cui sei diretto lì, a pochi passi oltre la rete, a distanza di sicurezza come gli animali allo zoo, ma non sai come raggiungerlo. Delle svariate potenziali entrate, nessuna sembra essere quella giusta: in alcune c'è un tizio corpulento che ti fa un gesto di diniego agitando l'indice della mano e ti indirizza verso un generico altrove, altre sono sbarrati da massi ed erbacce, in altre ancora c'è del filo spinato, come a un checkpoint abbandonato verso la ex-DDR, dall'Emilia a Berlino Est sulla corsia d'emergenza dell'autostrada del Brennero, in perfetto stile CCCP.
La struttura dei tuoi desideri fa bella mostra di sé, in mezzo a un'immensa distesa di auto illuminata da degli alti, potentissimi riflettori, eppure non puoi toccarla. Pare di essere a Cape Canaveral, ma senza conto alla rovescia, se si esclude quello che ti sta scattando in testa al pensiero di quanto poco manca all'inizio del concerto, e così la tua esperienza utente si riduce a sentirti sparato indietro di vent'anni, novello Fox Moulder che ronza intorno alla recinzione di qualche stabilimento sospetto, ufficialmente fabbrica di tortellini, ma sicuramente copertura di una qualche losca attività eversiva di una frangia deviata del governo in combutta con gli alieni. Loschi come i gestori di quei locali che cambiano parola d'ordine alla porta con intervalli regolari per far sì che solo pochi eletti siano ammessi, il forte sospetto è che quelli dell'Estragon con intervalli regolari — ogni volta che ritorni — cambino invece il punto di ingresso.
A questo giro — seguendo probabilmente la regola aurea della caccia al tesoro, secondo la quale se vuoi che qualcuno non trovi qualcosa la soluzione migliore è nasconderla nel posto più banale, in bella vista — l'entrata è ben indicata lungo la via principale con un cartello a caratteri cubitali, ma — dato che non so la parola d'ordine — mi tocca comunque pagare due euro di parcheggio, cifra in effetti irrisoria rispetto a quanto poi dovrei sborsare al carrozziere se finissi in una delle innumerevoli buche (più verosimile dire crateri, meglio ancora "ferite da mortaio della Seconda Guerra Mondiale") non segnalati di cui il parcheggio stesso è costellato. Ma tant'è: seguire le band che ami in giro per l'Italia è impegnativo e la vita on the road è fatta di alti e bassi. Come amava ripetere un tizio che di mestiere vendeva Land Rover a domicilio.
Io, i Mogwai, posso dire di averli visti crescere, crescendo. Nel senso che siamo cresciuti insieme — loro meglio di me, questo va detto, ma non siam qui per parlare di me. O forse sì, visto che faccio un po' fatica a scindere le due cose.
Comunque, mi ricordo ancora la prima volta che me li trovai di fronte su un palco, ormai quasi venti anni fa: suonarono ottanta minuti di seguito senza dire una parola. Giuro, nemmeno una parola: un grazie, un ciao, un vaffanculo. Niente. Ottanta minuti strumentali praticamente senza interruzioni, un passante lungolinea all'incrocio delle righe, ovvero verso quello che più che un finale fu una specie di tortura all'Arancia Meccanica: a luci ormai spente, un quasi mio coetaneo tarchiatello e già calvo di cui ancora non sapevo il nome lega tramite la tracolla la chitarra alla testata dell'amplificatore, facendo così partire un feedback acutissimo nel buio più assoluto, e se ne va a testa bassa. Circa un minuto — avete idea di quanto sia lungo un minuto con un rumore bianco pressoché purissimo, fisso dentro le orecchie? Ve lo dico io:
Nel corso degli anni poi si sono un po' sciolti, giusto per garantire quel minimo sindacale di interazione richiesto dalla figura di "musicista live" nell'immaginario collettivo: prima hanno aggiunto una spruzzata di geografia approssimativa («We're Mogwai, from Glasgow»), poi buttato qua e là qualche «Thank you» sottoforma di borbottio. Una volta, addirittura (sempre a Bologna, sempre all'Estragon, se non sbaglio), una dedica interminabile del tipo «This is for our friend, Enzo». Ciao Enzo, chiunque tu sia, hai fatto la storia, a modo tuo.
È stato un processo lento, progressivo, fatto di piccoli passi messi con cura uno dietro l'altro e minuscole conquiste ponderate con calma, tasselli di una personale lotta privata contro la loro naturale, caratteristica — lodevole, dal mio punto di vista — propensione a non apparire. Processo che ha dato i suoi risultati, risultati che avrebbero reso orgoglioso (non escludo lo abbiano fatto — ammetto di non essere così informato sulla vita privata di ogni membro del gruppo) il miglior psicoterapeuta di Scozia.
Per questo mi stupisco solo fino a un certo punto, nel vedere, stasera, Stuart Leslie Braithwaite che fa il suo ingresso sul palco addirittura correndo (saltellando, forse, ma non vorrei sbilanciarmi troppo) e grida — grida — un euforico (euforico secondo la "scala-Mogwai", ovvero poco sopra la soglia minima di tristezza di un telecronista di calcio brasiliano):
Hi how're you doin'? It's nice to be back here in Bologna!
Il punto esclamativo ce l'ho aggiunto io: mi son fatto prendere la mano dall'entusiasmo. Chiedo scusa.
Il resto è ordinaria amministrazione, anche se non manca qualche minima variazione nel look. Dominic Aitchison per esempio (magistrale come sempre al basso) ultimamente ha un po' trascurato la rasatura e ora si presenta come il perfetto incrocio tra un barbiere hipster di Finnieston e Grigori Yefimovich Rasputin: pressoché immobile martella con malcelata indifferenza il suo strumento come un colosso di Rodi in jeans e felpa in uno spot dell'Electric Guitar Company. Non che gli altri si agitino attorno invasati, ma lui, dall'alto dei suoi quasi due metri, fa più impressione: credo sembrerebbe fermo anche se registrato in time-lapse.
Alla sua destra invece, Barry Burns e Alex Mackay pare non invecchino mai: eterni meravigliosi nerd d'oltremanica, cresciuti a pane, PES e Guitar Hero, maghi di arrangiamenti per chitarre, tastiere e quel che avanza, fanno coppia fissa come i carabinieri — uno un po' più bruttino, uno un po' più figo, questo è vero, ma si sa: la differenza tra un Mogwai e un Gremilin è sottile e distinguerli è rimasto uno degli esercizi più difficili, dall'84 a oggi. A meno di non dar loro da mangiare dopo mezzanotte, s'intende.
Tutti abbiamo avuto un amico metallaro, giusto? Io più di uno. Il più metallaro dei miei amici metallari è un tipo smilzo, alto meno di quel che sembra, forse perché magro come un chiodo: uno che non diresti mai la buona forchetta che è, almeno finché non ci parli un attimo e non realizzi come finisca per declinare tutto in termini enogastronomici. Per capirsi: le chitarre che stanno più o meno a metà di One dei Metallica sono "grattugiate", Jordan Rudess dei Dream Theater quando delira in un assolo piegato con due mani sulla tastiera sta "impastando" e Nico McBrain degli Iron Maiden che si lancia in quei drum-fill con le bacchette che rotolano su una distesa di tom "fa la maionese".
Ottimo. Prendendo per qualche secondo in prestito il suo meta-linguaggio, possiamo dire che, sul palco dell'Estragon, Stuart — perso come sempre in quel suo movimento oscillatorio sfalsato perpendicolarmente (il busto di lato, la testa avanti e indietro) che da sintomo evidente di autismo è ormai diventato cifra stilistica — alterna arpeggi melancolicamente killer che sembrano decorazioni di nouvelle cousine a momenti in cui grattugia formaggio in quantità sufficiente per infornare una parmigiana che sfami tutta la sala, mentre Cat Myers — che sostituirà per tutto il tour Martin Bulloch, alle prese con gli ormai cronici problemi di salute — anche se di tom ne ha uno solo, fa abbastanza maionese (senza mai rischiare di farla impazzire, tra l'altro) da riempire un paio di damigiane di insalata russa.
Parmigiana e insalata russa per tutti: la colazione (facciamo lo spuntino di mezzanotte, vista l'ora) dei campioni.
Io, dei Mogwai, crescendo, ho visto crescere anche il pubblico. In numero, età, abitudini, tic, e timide isterie. Ok, non siam qui a parlar di me, ma su questo tema faccio ancora più fatica a scindere le due cose, visto che io sono stato il pubblico dei Mogwai.
I primi tempi la poca gente assisteva al concerto in religioso silenzio, spesso raccolta in piccoli gruppi di due o tre persone. Dopo le prime cinque note di una canzone — di ogni canzone — una si piegava verso l'altra per sussurrarle all'orecchio il titolo (era la più bella canzone dei Mogwai, il titolo era ovviamente esatto, nonostante non ci fosse nessun testo a dare una mano alla memoria), l'altra, senza guardare il suo interlocutore, ma con gli occhi fissi sulla band, annuiva serissima, come se l'avessero appena messa di fronte a una verità inconfutabile. Il rituale si ripeteva all'inizio di tutti i pezzi. A fine concerto, applausi scroscianti ma compassati come solo i fan dei Mogwai sanno fare.
Oggi dopo le prima cinque note di una canzone — di ogni canzone — partono svariati gridolini di eccitazione, un mormorio di qualche secondo galleggia sospeso e si alzano un po' di smartphone con il pulsante rosso REC attivo.
Dopotutto, come dar loro torto? Il silenzio durante l'esecuzione è rimasto pressoché invariato negli anni — qualcuno accanto a me addirittura grida «Zitti!» a quelli che si sono azzardati ad applaudire durante uno dei momenti di quiete dopo la tempesta che caratterizzano tutte le canzoni dei Mogwai, le più belle canzoni dei Mogwai in particolare — e l'audio del video da caricare su YouTube per una volta non sarà niente male.
C'è pure chi, quando riconosce un pezzo ben preciso, sussurra tra sé e sé «Ahia, ahia...», involontario outing di uno spasimo, retrogusto di un lamento puro, perché le più belle canzoni dei Mogwai sono così, fatte apposta per restare attaccate a un'immagine, a un tarlo, a un ricordo e quando le riavvolgi fanno male come un dolore intercostale che ti prende alla sprovvista o come quel risentimento muscolare alla schiena che ti eri dimenticato di avere, a patto di non piegarti mai in un certo modo.
Le canzoni più belle dei Mogwai ti piegano in un certo modo, esattamente in quel maledetto modo.
Nel frattempo il concerto si snoda infilando come palline di un un abaco quattordici ottime canzoni dei Mogwai, tra cui più di dieci canzoni più belle dei Mogwai.
Il nuovo Every Country's Sun (per inciso, l'album più bello dei Mogwai — l'album più bello dei Mogwai sono, allo stato attuale, almeno fino al prossimo diciamo, nove album, né uno più né uno meno) fa la sua porca figura, anche se viene spalmato in maniera non troppo invasiva in mezzo al resto.
In mezzo al resto ci stanno, in particolare, ben tre pezzi "cantati" (se quel sussurro a spettro dolcemente limitato di Stuart Braithwaite vogliamo chiamarlo "cantare" e soprattutto se vogliamo considerare "cantata" quella colonna sonora di una fantascienza andata e sconfitta che è Hunted By A Freak, dove alla voce c'è — come tutti sanno — un'intelligenza artificiale che ha noleggiato il vocoder da Cher) messi sul piatto uno dopo l'altro, non si sa bene se per ribadire un sommesso "sappiamo fare anche questo" oppure per rovinarci la sorpresa nascondendo tra le righe lo spoiler di un futuro più o meno prossimo in cui la parola sarà meno sopravvalutata.
In ogni caso, nessuno ha il tempo di decidere se quest'ultima eventuale prospettiva sia un sogno o un incubo, perché arrivano, come uno schiaffo collettivo, We Are No Here e la recentissima Old Poisons, che chiudono il set principale e lasciano la sala spettinata tutta dallo stesso lato e a terra un bel po' di timpani felicemente sanguinanti, così che i due bis (Every Country's Sun e Mogwai Fear Satan) non debbano fare altro — non possano fare altro — che accanirsi sui cadaveri dei padiglioni auricolari e camminare con passo pesante su una distesa di sorrisi ebeti e appagati: quelli di chi non ha capito (ma ha sentito benissimo) del tutto cosa è successo ma vorrebbe comunque ripeterlo all'infinito.
Fare una classifica tra i concerti di una band che hai visto almeno dieci volte non è in genere un'operazione semplice: entrano in gioco situazioni particolari, tue stanchezze improvvise, giramenti di palle imprevisti, musicisti che fanno il compitino perché la notte prima sul tour bus non hanno dormito, cantanti strafatti che vanno oltre i limiti di una serata storta and so on. Momenti memorabili e scuse patetiche, giustificazioni spassionate e giornate-no senza un perché.
Con i Mogwai è diverso.
E io lo posso ben dire — con quella faccia un po' così e quell'espressione un po' così che farei se fossi capace di uno sguardo diverso dall'impassibilità più muta e deludente — perché il concerto più bello dei Mogwai l'ho visto almeno dieci volte.
Così, tutto torna alla fine. Tutto meno i conti, intendo. Almeno a livello strettamente matematico.
Ma dopotutto, nel post-rock — nonostante la quasi totale mancanza di liriche vere e proprie lo escluda dalle discipline classiche e lo ponga di diritto tra le materie scientifiche — è noto che la matematica è un'opinione (per quanto abbastanza diffusa — quando lo diventa troppo, diffusa dico, allora si parla di math-rock, ma quella è un'altra storia).
E comunque, che coerenza vuoi aspettarti da un gruppo che due decadi fa ci incitava a morire da giovani ma poi si è lasciato alle spalle — come la scia di una lumaca strisciata in direzione ostinata e contraria — un carriera ventennale praticamente priva di passaggi a vuoto, che ci chiedeva di portarla in qualche posto carino, quando in realtà ci aveva già tolto dalle mani il volante e ci stava guidando con lucida nonchalance attraverso non-luoghi meravigliosi, che ultimamente ha giurato che (there's) No Medicine for Regret quando invece era lei stessa la migliore cura per tutti i nostri rimorsi, rimpianti e imprecazioni a denti stretti o gengive serrate?
Tipo per me — ma non siam mica qui a parlare di me, vero? — la cura più bella i Mogwai lo stati almeno una decina di volte, e sto contando solo le volte in cui ho assunto il farmaco dal vivo.
Ecco. Stasera son passato da qua solo (si fa per dire) per verificare — come supponevo — che funziona ancora, sempre e comunque. Lascia dei segni, ma scompaiono presto, come il rush cutaneo innocuo di un vaccino non obbligatorio. Non ha bisogno della ricetta rossa, come certe terapie supponenti e mercenarie, e gode di una posologia arbitraria: puoi assumerla quando e quante volte vuoi. Non ha controindicazioni, se non quella di creare una leggera, piacevole e gestibilissima dipendenza — e infatti è accompagnata da un foglietto illustrativo vuoto, ma lo stesso piegato bene e con su scritto soltanto, in una bella calligrafia di inchiostro simpatico: S E N Z A P A R O L E.
Soprattutto — mica poco, al giorno d'oggi, in questi tempi instant di "mordi e fuggi" generale — la cosa più importante, da non trascurare mai: non ha scadenza.