Un concerto che inizia la sera della fine del mondo e finisce sette anni dopo. Una traversata, cadenzata sul ritmo di un disco troppo presto dimenticato. Un'amicizia sospesa, tra i suoi trucchi e i suoi rituali. Un remix fatto con i ricordi, i ricordi di uno che non sa smettere.
19 Gennaio 2009
Giulia mi aspettava indossando la t-shirt degli Smashing Pumpkins, quella viola, aderente con su scritto "ZERO" argentato. Un classico.
La gente fa sempre fatica ad entrare nell'ottica che qualcuno voglia dire semplicemente quello che ha detto: né una parola di più né una parola di meno. Ti sta bene quella maglietta. Punto. Altre ti stanno meno bene. Quella ti sta particolarmente bene. Punto.
È diffidente per natura, la gente.
Anche in macchina suonavano gli Smashing Pumpkins: Never Let Me Down Again. Era un caso. Era sempre un caso. Era tutto un caso.
Era un tributo ai Depeche Mode, For the Masses. Non la solita compilation, bensì un disco colpevomente sottovalutato, come avrebbe detto con sadica compiacenza uno qualunque dei critici musicali dell'epoca.
Erano tempi in cui i critici musicali non sopportavano il fatto che i blogger volessero fare i critici musicali, mentre i blogger volevano fare i critici musicali perché non sopportavano che la critica musicale fosse in mano ai critici musicali. I presupposti per il dialogo tra le parti erano ai minimi termini, ma internet era come l'universo — in espansione — e avrebbe confermato che c'era posto per tutti, dimenticandosi di metterci in guardia sul fatto che non necessariamente sarebbe stato un bene.
Comunque non importa. Non importa più. Non importa mai.
For the Masses — riempì la durata esatta del viaggio da Firenze a Bologna.
Il sole era tramontato piano, inspiegabilmente lento. Dissi a Giulia:
Era la frase che avevo imparato buttar là quando spiegare iniziava ad essere qualcosa che aveva a che fare con il dolore. O con i rimpianti. Ma non era poi così lontana dalla verità, quella volta almeno.
È che a quei tempi già non c'eran più le mezze stagioni, ma quelle intere ancora sì, così come i rituali.
I rituali, son la cosa che mi manca di più.
E allora l'Estragon, d'estate, in preda a quello che appunto somigliava più a una specie di scaramanzia che a un vero e proprio cambio di guardaroba, si trasferiva.
D'inverno, anch'esso inesorabilmente vincolato dalla meravigliosa toponomastica di quelle parti, nel vecchio capannone vicino a via Stalingrado, davanti all'Unipol, accanto all'Holiday Inn. Vista tangenziale.
D'estate altrove (in realtà poco più in là, ma concettualmente sempre, per rimanere in tema, di rivoluzione si trattava) dentro l'Arena Parco Nord: il Tendone Estragon, in mezzo alla Festa de l'Unità, era un evento, molto più della festa stessa, già allora sbiadita da tempo immemorabile.
Arrivammo con troppo anticipo. Arrivavamo sempre, con troppo anticipo, un po' su tutto, e quasi mai era un bene, nonostante quello che si possa pensare. Chiuso.
Ma alla fine il tempo era quello giusto, i pochi giorni di settembre lasciavano intatta la possibilità di aspettare ore seduti per terra, appoggiati al portone, ad ascoltare Radio Fujiko in filodiffusione.
Giulia fumava quelle sigarette improponibili, lunghe e strette. "Sigarette da battona", le avrebbe definite Mimì. Glielo dissi. Si mise a ridere. Il suo sorriso sapeva di asfalto appena bagnato, ancora in bilico sul proprio futuro, ignaro — o forse solo incurante — delle pozzanghere a venire.
È stata l'ultima volta che li ho visti. Era la prima volta che li vedevo. È stato uno dei loro ultimi concerti prima di sciogliersi, forse l'ultimo davvero, non ricordo. Ho deciso che provo a smettere. Di ricordare, intendo. Anche se è una roba difficile. Poco convinta e metodicamente inciampata. Come per tutte le forme di dipendenza.
Deve essere per quello che faccio così fatica a non contarmi tutto quel tempo sulle mani. E dico "le mani", perché le dita non bastano.
Sono passati sette anni abbondanti. Le mezze stagioni non son tornate, anzi, sono sparite anche quelle intere. L'Estragon ha messo su famiglia e comprato una casa: ha costruito un hangar al posto del tendone e ora sta fisso in zona fiera, non troppo lontano dalle mostre di mobili e dagli stand degli assicuratori.
«Tutta un'altra musica», direbbe una pubblicità incosciente che gira in questo periodo.
Davanti all'Unipol, accanto all'Holiday Inn, non so cosa ci sia, forse un altro locale, forse le puttane. Quelle vere.
Giulia è un po' che non la sento. Spero stia bene, spero anche lei abbia trovato un posto dove fermarsi, e si sia liberata della maledizione di dover seguire suo padre in giro per l'Italia.
Era un pezzo grosso dei carabinieri, suo padre, e ad ogni nuovo trasferimento c'era la dependance accanto alla caserma pronta ad ospitare tutta la famiglia: una (bella) casa gratis, in cambio dell'impossibilità di inventarsi un'amicizia più lunga di un paio di anni. Non so se il gioco valeva la candela, come si dice. Non credo.
Ma fa niente.
Quella sera lei rimase a dormire dai suoi amici, a Bologna. Io no: i miei amici sono sempre stati altrove, in qualunque posto mi sia trovato. Una specie di asincronia dei rapporti interpersonali, uno sfasamento dei sentimenti, percepiti a fondo solo oltre una certa soglia di chilometri di distanza.
Una sorta di maledizione, a voler ben vedere, ma questa è un'altra storia.
In macchina suonavano i Cure, World in My Eyes. Giulia questa non l'ha mai sentita, pensavo al ritmo dei lampioni della tangenziale. Mai sentita suonata dai Cure, intendevo. For the Masses, un album colpevolmente sottovalutato, anche solo per il fatto di durare esattamente quanto il viaggio da Bologna a Firenze. Saper tacere nel preciso istante in cui la vita richiede di farlo è un pregio raro. Anche per un disco.
A un certo punto inziò pure a piovere: due gocce in croce, buone giusto a farti balenare in testa il dubbio se accendere o meno i tergicristalli. Sarebbe stato evidente a chiunque, che non era credibile, la pioggia, in una serata come quella: non sarebbe mai arrivata a battere fin sui bordi del lavandino, per dirla appunto con le parole del post-rock italiano. Eppure ci provò lo stesso.
Era la notte tra il 10 e l'11 Settembre 2001.
Arrivai a casa la mattina tardi, le cinque, le sei, non so. Stava albeggiando.
Non è questa gran cosa, l'alba. Dura troppo poco. Non raggiunge mai quell'attimo che ti permetterebbe di capirne l'effettiva bellezza.
Rinvenni dal torpore profondo alle tre del pomeriggio, minuto più, minuto meno. Mi svegliò un messaggio di Giulia:
E poi un altro, in risposta all'assenza di una mia risposta:
Io, nel sonno, me la cavai con una battuta stupida. Stupida a prescindere, anche al netto del giudizio inflessibile del senno di poi:
Chissà perché pensavo ai quei pappagallini cosiddetti inseparabili, quelli che devono essere comprati in coppia e se uno dei due muore anche l'altro si lascia morire. O almeno così dicono. Così scrissi a Giulia, con le labbra increspate a metà, senza sapere il resto:
Eran tempi, quelli, che ancora ero certo me ne sarei andato. Da qualche parte, altrove anch'io, per una volta.
Poi invece alzarsi, pisciare e andare sì, ma solo in cucina. E trovare, su ogni canale, la fine del mondo.
Non è questa gran cosa, la fine del mondo. Dura troppo. Si perde, andando oltre, quell'attimo in cui potrebbe riuscire davvero a farti paura.
Non ne sapevo granché della paura, però guardai le piccole figure nere che si buttavano nel vuoto dal centesimo piano e pensai che in certi casi è meglio non fare troppi movimenti, perché così si va a fondo più lentamente. Ovviamente non avevo fatto i conti con la gravità. E la gravità vince sempre.
Ma non è qui, il punto. Non è mai qui, il punto. Dovunque sia "qui".
È che son passati sette anni abbondanti. E rivederli oggi — ora — fa l'effetto di uno scherzo della memoria. Di un riflesso sbagliato sulla retina. Di un fantasma dentro una fotografia.
Sette anni si vedono. Si vedono sulle facce. Sulle sfumature grigie dei capelli di Vittoria. Sulle guance scavate e complicate dalla barba di tre giorni di Egle.
Non mi è mai piaciuta la parola "reunion". Puzza di stantio solo ad ascoltarla. Ma questo assomiglia più a un risveglio da un torpore autoindotto. Uno che si guarda allo specchio e si chiede a voce alta "dove eravamo rimasti?", cercando di indovinare tra le rughe nuove tutto quello che è successo nel frattempo. Fa il rumore di un nastro che si riavvolge e poi inciampa un paio di volte prima di ripartire a stento. Ha i colori appannati dei ricordi più insistenti. Particolari insignificanti in un puzzle pieno di buchi.
E anche di Giulia, come per tutti i puzzle che si rispettino (che poi altro non sono che quelli iniziati e mai finiti), ogni tanto ritrovo dei pezzi.
Come tre righe sul forum di un sito di recensioni musicali e non solo, che andava molto di moda una decina di anni fa e ora sta lì annoiato come un vecchio, stanco di raccontarsi ai suoi quattro visitatori mensili attuali. Tre righe che parlano di me, ma indirettamente, attraverso la descrizione di un disco colpevolmente sottovalutato: For the Masses, una roba che non se l'è mai filata nessuno, né allora, né poi. Né critici illuminati, né blogger visionari.
O un CD masterizzato con la sua calligrafia sopra, precisa e bella come quasi stampata. Che dopotutto eran gli albori della pirateria e anche nell'illegalità l'occhio voleva ancora la sua parte. O almeno un po' d'attenzione e di cura.
Sì, perché l'ultimo pezzo che mi è capitato in mano, di Giulia, è stata proprio la sua matita per gli occhi. Nera. Un mozzicone quasi spuntato, come l'avanzo di un trucco riuscito male, di quelli che invece del rossetto ti ci lascian l'amaro, in bocca: di quelli che il coniglio, dal cilindro, ci esce direttamente in umido, e non fa più nessuna tenerezza. Al massimo un po' di appetito.
L'ho ritrovata qualche anno fa, quella matita nera, quando ho venduto la vecchia Volkswagen Polo, mentre ero intento in quella forma di difesa imprescindibile nel momento in cui abbandoni la strada vecchia per la nuova: raccogliere tutte le briciole di pane che hai lasciato dietro di te.
Come Pollicino, quello della favola, ma più triste.
Stavo svuotando la macchina dai dieci anni di me che le erano incastonati dentro, prima di lasciarla nelle mani di qualcuno che l'avrebbe ridotta a un cubo di lamiera informe, o — nella migliore delle ipotesi — spedita in Romania per spacciarla come quasi nuova, quando da sotto un tappetino è uscito quel ricordo di eye-liner molto dark. E dico "dark" per dire un qualcosa come una canzone dei Depeche Mode suonata dai Cure dentro una Polo nera che si inventa la vita in un'autostrada appeninica rimasta impressa nell'immaginario collettivo soltanto per i notiziari di Onda Verde sulla situazione del traffico
Allora mi è venuto da sorridere, nonostante tutto. E ho pensato che la macchina è femmina, e vuole anche lei la sua dose di civetteria, almeno per conto terzi. Che alla fine era meglio lasciarcela, quella matita per gli occhi, invece di appoggiarla insieme a tutto il resto su un altarino di rimpianti davanti al quale inginocchiarsi e dimenticare. Che magari l'avrebbe trovata qualcuno, altrove. In un qualunque altrove: fosse stato il cortile di uno sfasciacarrozze o il garage di un operaio di Bucarest non avrebbe fatto differenza. E quel qualcuno forse avrebbe perso un attimo, almeno un battito di ciglia, a inventarci su una storia. Non conta quale. Non conta più. Non conta mai.
E allora rivederli oggi — ora — con le braccia tese aggrappate alla transenna della prima fila, fredda come l'inverno, dentro un locale inspiegabilmente familiare per esser parte di questa città che ancora non conosco e non ho imparato ad amare, è straniante come il silenzio religioso che avvolge ogni intermezzo tra una canzone e l'altra e sfuma i contorni del fiato che si condensa appena fuori dalle labbra, almeno fin quando non rimane solo la luce elettrica, a confinare la notte fuori dalle vetrate.
Assomiglia a un rituale. E son contento, perché i rituali son la cosa che mi manca di più.
Però è una roba difficile. Spaventata e impaziente. Dolcemente desolata. Una roba che puoi ammaestrare solo con la nostalgia, non fosse che a Milano la nostalgia non è contemplata.
Milano è un posto buono per dimenticare, ripetono in continuazione i protagonisti, diretti dall'ultimo John Ford come se l'Idroscalo fosse in Via Paolo Sarpi, estremo avamposto di una moderna Manciuria.
E dimenticare è un bene, dice Mimì.
Mentre mi avvio fuori dal parco, contro l'orizzonte della circovallazione gli alberi sono solo disegnati. I pali asettici dei lampioni tratteggiano l'attimo in cui i fari delle macchine mi colpiscono a turno: un singolo schiaffo prima di cessare di esistere. E diventare macchie al neon, e poi puntini in movimento, e poi niente.
Me lo dico sottovoce, provando a convincermene sul serio, mentre per l'ennesima volta non riesco a resistere a quel vizio impacciato che mi accompagna da quando ho memoria, e mi guardo indietro.
Questo racconto ha permesso a Spineless di vincere il concorso Quaderni Rock, indetto dal MEI — Meeting delle Etichette Indipendenti nel 2009 ed è stato successivamente pubblicato su Il Mucchio Selvaggio.
Domenica 29 novembre, alle ore 18:50, presso il Centro Fieristico di Faenza — Tenda D — si è presentato un tizio smunto, timido nelle sue occhiaie, sostenendo di essere lo stesso Spineless in carne (poca) e ossa (tante): tra il disappunto e la delusione dei presenti, ha bofonchiato due parole di ringraziamento, ha ritirato il premio dalle mani di John Vignola ed è scomparso così come era venuto.
C'erano almeno un centinaio di testimoni in sala, ma nessuno è disposto a giurare che le cose siano andate effettivamente così.