L'infinita tristezza dei vent'anni dopo

L'infinita tristezza dei vent'anni dopo

Quel disco famoso degli Smashing Pumpkins e tutta la tristezza dell'anniversario di un'era, piuttosto che di un qualunque album.

24 Ottobre 2015

Nel '95 (non so se era veramente così, io me la ricordo così e son ragionevolmente sicuro di ricordarmela bene) non dico fossero la cosa più lontana da, ma quantomeno una cosa molto lontana da quelli che avrei potuto definire i miei gruppi preferiti. Nel '95 i miei gruppi preferiti erano almeno undici e loro diciamo che erano fuori dalla formazione titolare. Anche in una ipotetica classifica di gruppi ipoteticamente grunge (una classifica così ipotetica che poteva avere un senso solo nel '95, e forse nemmeno allora) venivano senza ombra di dubbio dopo i Pearl Jam, i Soundgarden, i Nirvana, gli Alice in Chains, ma anche dopo gli Stone Temple Pilots, i Bush e almeno altre sette band che non aveva avuto il coraggio di mettere sotto contratto nemmeno la Sub Pop dell'epoca.

Non so, deve essere perché son del '78 e quando hai vent'anni scarsi, un anno fa tutta la differenza di questo mondo. Mica come poi — vent'anni dopo — quando diventa un granello di polvere, sabbia che scivola tra le mani: un infinitesimo di ordine superiore, direbbero quelli che ne sanno, di numeri.

E a proposito di numeri, anche lui, il tizio con la maglietta con su scritto ZERO e una voce al limite del fastidioso, mi ha sempre lasciato abbastanza indifferente, dove "indifferente" va intesa come una parola da approssimare per difetto, sull'orlo di scivolare in quel burrone dove la praticamente totale assenza di fascino esercitato rotola diretta verso una diffidenza percepita a pelle, che a sua volta, nei momenti in cui hai le palle più girate del solito, non esiteresti a definire antipatia vera e propria, per quanto razionalmente ingiustificata.

Il medioevo

Però nonostante questo, già allora (non so se era veramente così, io me la ricordo così e non mi dispiace affatto ricordarmela così), ero capace di lasciar libero dai gusti personali quel poco di necessaria lucidità (ne basta veramente un briciolo, giuro) per riconoscere un album importante, complesso e coraggioso nella sua arroganza di fondo, un album che, a modo suo (concedetemi la banalità), avrebbe fatto la storia.

Una volta qualcuno ha detto che il grande pubblico sa riconoscere il capolavoro, non devi indicarglielo, ha un'istinto innato per questo. L'ho sempre inteso come un modo fico per dire che se sei convinto di aver realizzato un capolavoro ma nessuno se ne è accorto significa che, nella migliore delle ipotesi, dei trentacinque dettagli indispensabili per creare un'opera d'arte, almeno uno l'hai fatto sbagliato. Ovvero un modo carino per dire che forse, se ci pensi bene, un capolavoro non l'avevi mica realizzato. Ecco, io nel '95 ero il grande pubblico.

Comprai il CD da Rumore, un negozio di provincia che aveva preso il nome dalla famosa rivista cartacea di settore e che restò in piedi più o meno dal '94 al '98 (io me la ricordo così, Filippo potrà essere più preciso con date, nomi e cuori incrociati), prima di chiudere, come tutti i negozi di dischi che negli anni, sparsi nelle province più sperdute, han preso il nome da famose riviste cartacee di settore. Come la maggior parte dei negozi di dischi, come la maggior parte delle province, come la maggior parte delle riviste cartacee. Di settore soprattutto. Il CD, sì: perché era il '95, ovvero quell'età di mezzo in cui le cassette erano già vecchie senza essere ancora old-skool, quell'unico momento storico in cui abbiamo finalmente avuto il coraggio di dire la verità — ovvero che il vinile si sentiva di merda, prima di ritrattare tutto e nascondersi dietro un'espressione paraculo come "ha un suono più caldo", quel medioevo digitale in cui l'mp3 era una sigla esoterica ancora priva di significato e non il virus che avrebbe fermato il processo (che sembrava inesorabile, nel '95) di riempimento dei nostri scaffali e dato il via a quello dei nostri hard-disk. Non so se era veramente così. Io me la ricordo così, e i miei scaffali (così come i miei hard-disk) sono lì a testimoniarlo.

Mellon Collie and the Infinite Sadness, artwork by John Craig

Ritorno al futuro

Anche oggi, vent'anni dopo, nei giorni in cui tutti si guardano intorno per vedere se per caso è arrivato davvero Marty McFly, il mio giudizio non è cambiato: loro, ormai dispersi in un'indefinibile wherever che nessuna reunion potrà mai intaccare, rimangono un gruppo di cui ho tutti i dischi più per una questione di completezza che altro e lui, ormai a tratti imbolsito e a un passo da una tragicomica uncle-Fester-zone, rimane un personaggio che nei miei momenti buoni continua a non dirmi granché, mentre in quelli meno buoni mi irrita non poco. L'album, quello, come previsto, ha fatto la storia ed è giusto così. Però nonostante questo, anche oggi, vent'anni dopo, sono ancora capace di lasciar libero dai gusti personali quel poco di necessaria lucidità (ne basta sempre meno, giuro) per riconoscere una cosa (concedetemi la banalità — non so se è così, io l'ho letta così) scritta col cuore.

Time is never time at all
bastonate.com

Non c'entrano niente gli Smashing Pumpkins, Billy Corgan è solo un pretesto e anche Mellon Collie è un semplice qualcosa che stasera devo ricordarmi di scaricare via Torrent perché il disco originale ormai ha il suo posto (immutabile e inamovibile — pena il drammatico crollo di tutto un castello di carte e di ricordi) in quello schema di entropia controllata che è la mia vecchia cameretta, cristallizzata nel tempo a un po' di chilometri da qui. No. È quel che si respira tra le righe piuttosto: l'atmosfera, la malinconia, la consapevolezza partigiana che quello (gli anni Novanta del ventesimo secolo) altro non è (presente, indicativo) che il più bel decennio che ci sia mai stato, nonostante (anzi, soprattutto grazie a) tutto il carico (già sopportato, ma mai volutamente abbandonato per strada) di infinita tristezza, vent'anni dopo.

Bella, molto bella, ma più che altro vera, tremendamente vera, in particolare la parte che ci sbatte in faccia senza lasciare particolari ferite (come tutte le verità dovrebbero fare e raramente fanno), quella che parla di:

Questi blogger, questi recensori, questi uomini che ascoltano la stessa musica di quando avevano i capelli e la barba non gli cresceva, e come tutti dal medioevo o da prima sono lì patetici a cercare qualcuno che capisca perché quegli accordi sono così speciali — e si beccano in genere i vaffanculo di chi, più giovane, sta ascoltando altra musica, e farà un giorno la stessa fine.

Che poi saremmo noi: io, te, tutti.

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Alta fedeltà