Tu quoque, Kristoffer Rygg? Ovvero di quello che tocca fare a una ex black metal band norvegese per tirar fuori il miglior album della proprio carriera. Tipo ammazzare Giulio Cesare.
21 Giugno 2017
Kristoffer Rygg è un po' il Mike Patton del black metal, ma meno autoreferenziale: uno che nella vita ha fatto — musicalmente parlando — di tutto, ma che se poi gli chiedi qual è la cosa di cui va maggiormente orgoglioso in un percorso più che ventennale ti risponde: «Il nostro disco di cover del 2012» (Childhood's End).
La sua creatura Ulver — più che una band, un experimental collective o, come preferiscono definirsi, "a pack of wolves" — arriva in scioltezza al tredicesimo album (il terzo negli ultimi due anni) e si rivela così — almeno in termini di prolificità — più simile a una colonia di conigli che a un effettivo branco di lupi, senza per questo abbassare di un millimetro il livello compositivo e rifiutandosi categoricamente di allinearsi al luogo comune che vuole i concetti di qualità e quantità sempre e comunque bilanciati secondo un criterio di proporzionalità inversa. Negli anni, il collettivo norvegese ha vestito i panni — ogni volta con successo, tra l'altro — di un'orchestra di oscuro folk scandinavo, di un combo di jazz-techno avant-garde, di un progetto estemporaneo per la colonna sonora di film minimalista, di una cover band di pezzi garage anni Sessanta, di un ensemble specializzato in ambient-drone e di qualche altra cosa che mi sono perso nei rari momenti in cui ero distratto.
Non che il fatto stupisca particolarmente: dopotutto — "storicamente" parlando — la comunità black metal si è sempre rivelata un terreno fertile per chi ha sentito il bisogno di sperimentare e perfezionare stili e soluzioni innovative e non ha mai serbato troppo rancore — al netto della vicenda fatta di accoltellamenti, omicidi e incarcerazioni che vide a suo tempo protagonisti Burzum e Euronymous, le cui origini sono in ogni caso ancora tutte da definire e vanno sicuramente oltre un banale risentimento da "svolta pop" — a chi si è voluto allontanare dalle sue radici brutali e rumorose. La differenza di base è che, mentre nella maggior parte dei casi questo processo è avvenuto in maniera lineare (diciamo seguendo un sentiero naturale che va da A a B), gli Ulver sono passati da A a Z senza guardarsi intorno e toccando — secondo un criterio solo apparentemente random — quasi tutte le lettere di svariati alfabeti e lingue morte in ordine sparso: un encefalogramma tutt'altro che piatto, ma che anzi avrebbe rischiato di sconfinare nella schizofrenia, non fosse stato ostinatamente supportato da quel talento che Rygg si è sempre rifiutato di vendere — nonostante ne avesse in abbondanza per sé e per gli altri — e grazie al quale ogni volta riesce a confinare il tutto dentro il perimetro di un'unica, intima coerenza.
The Assassination of Julius Caesar non poteva quindi sottrarsi a questo prevedibilmente imprevedibile pattern, anche se liquidarlo con un semplice "Ulver goes pop" pare in tutta onestà riduttivo. L'esercizio è — va detto — molto più complesso e tremendamente affascinante: prendere un ipotetico ambiente sonoro in cui i Nine Inch Nails più cupi si rarefanno fino a confondersi con i Tears For Fears, popolarlo di personaggi storici ingombranti e lasciarli lì a cospargere di sale le ferite ancora aperte della società contemporanea. Un'operazione romantica, a modo suo. Romantica nel senso di Byron.
Fin dal titolo infatti siamo già a fare i conti con Shakespeare e da lì in avanti inizia un processo a dir poco doloroso in cui la mitologia prova a specchiarsi in una generica pop culture, per finire a trovarci — suo e nostro malgrado — fin troppe analogie. In altri termini, a voler usare le parole di Rygg «tragedies repeat themselves / in a perfect circle». E così Lady Diana brucia con Nerone, Charles Manson si accomoda su un piedistallo accanto a Papa Wojtyla e Madre Teresa di Calcutta, i soldati della battaglia di Dunkirk aggiungono un po' di posti a tavola per far accomodare i membri della Chiesa di Satana, mentre la pietra che chiudeva il sepolcro di Gesù rotola via al ritmo di una cavalcata psychedelica che assomiglia a una lenta, malsana liturgia. Il gioco — se vogliamo avere l'incoscienza di chiamarlo così — ti prende la mano: dare alla tragedia moderna il peso del mito antico per far risuonare nei secoli dei secoli un'unica costante armonica — la follia umana — e lasciarci sfiniti dal dubbio che la Storia — quella con la "S" maiuscola — altro non si riveli che lo spoiler di una nuova stagione di Game of Thrones popolata da dei replicanti tipo Westworld.
Comunque sia, la cosa davvero inquietante è la nonchalance e la naturalezza con cui Rygg e compagni di merende riescono a padroneggiare i nuovi strumenti del mainstream elettronico — come lo facessero da sempre invece che da ieri — senza perdere un grammo della loro poetica occulta e soprattutto — questa era la parte più difficile — senza risultare ridicoli o kitsch. I suoi meriti in questo senso sicuramente li ha la produzione a firma Martin Glover (membro fondatore e bassista dei Killing Joke) — maestro indiscusso quando si parla di refrain sintetici e atmosfere dichiaratamente eighties eppure mai così attuali — che però, senza ombra di dubbio, è stato facilitato nel suo compito dal fatto di dover mettere le mani su un mucchio di idee ben chiare e tutta una serie di meccanismi già perfettamente oliati.
Senza mezzi termini, possiamo dire che, con venticinque anni di carriera sulle spalle, gli Ulver si prendono il lusso di confezionare quello che forse è il miglior capitolo del loro catalogo — una drammatica "saga pop" che potrebbe diventare il perfetto surrogato del disco che in tanti avrebbero voluto ascoltare mettendo sul piatto il nuovo dei Depeche Mode, invece di trovarsi a fare i conti con un innocuo:
Where's the revolution? Come on, people, you're letting me down.