HVSR Digest #2

HVSR Digest #2

Bloody Beetroots, Tin Woodman, Tove Lo, EMA e Ought: cinque pezzi buoni per sedurre ogni automa. Ma funzionano anche se siete fatti di carne e ossa. Soddisfatti o rimborsati.

21 Novembre 2017

Tin Woodman

Metal Sexual Toy Boy

Il robot più figo della scena indie

L'etichetta più graffiante del momento — la coccolosissima Bello Records, prima label ad essere fondata e gestita da un gatto — torna all'attacco, dopo il successo di due anni fa targato Any Other, calando l'asso che non ti aspetti.

Deus ex-machina di una creatura per due terzi (Simone Ferrari e Davide Chiari) umana e per un terzo (il terzo più importante) robot dal cuore di nastro Fostex, Tin Woodman naviga sicuro in un mare appiccicoso di tastiere, sintetizzatori, vocoder, linee di basso gommose e killer-riff amiccanti, sicuro del suo fascino metallico e preceduto dalla sua fama di sciupafemmine (not so) hi-tech.

Metal Sexual Toy Boy è il singolo apripista — nonché title-track — del loro nuovo EP: una sofisticata truffa metropolitana — dai risvolti alquanto hot ma con un finale che non lascia spazio al romanticismo — ai danni di una biondina molto sexy, descritta al meglio dal video diretto da Marco Jeannin, che vede una Sara Flambè estremamente a suo agio nei panni della biondina molto sexy e un Tin Woodman diabolicamente perfetto nei panni di se stesso.

Ben inserito nella sua narrativa dal sapore tanto avant-pop quanto retro-nerd, il progetto Tin Woodman parte da un punto ben preciso — che sta esattamente a metà tra Il Mago di Oz e Corto Circuito — e arriva a presentarci il conto, facendo leva sulle debolezze che ci caratterizzano in quanto esseri dotati di un cuore pulsante, attraverso quella che si rivela essere tutt'altro che un'operazione-nostalgia.

Anzi. Tin Woodman è la fantascienza che si fa attualità allo stato puro: il lato party harder dell'omino di latta, il cyborg malandrino con cui Dorothy ha perso la verginità senza che Zia Emma e Zio Henry lo sapessero — una sera, strafatti nel privé di un evento Facebook — prima di essere sedotta, abbandonata e gettata in corsa da una DeLorean prenotata su BlaBlaCar, sparata a tutta velocità verso quel che resta di un ipotetico ritorno al futuro. Musicale e non solo.

Tove Lo

Disco Tits

Il Muppet Show in versione #NSFW

Ebba Tove Elsa Nilsson poteva essere la classica brava ragazza, ma ha deciso che invece no. Biondina con gli occhi azzurri e la faccia angelica, si diploma remissiva alla scuola di musica Rytmus Musikergymnasiet di Stoccolma per poi passare senza preavviso — forse sintomo di una crisi di rigetto — al lato oscuro della forza, ovvero prima a bisbocciare un certo easy-rock con il fidanzato dell'epoca nella band Tremblebee e poi a comporre da solista cose turche come Disco Tits, pezzo a dir poco esplicito che già dal titolo lascia all'immaginazione solo le briciole e celebra — ce ne fosse ancora bisogno — la santissima trinità della perdizione: sesso, droga e [aggiungi un genere musicale a caso].

Nello specifico il buon vecchio rock'n'roll con cui di solito si completa la ricetta si fa da parte e lascia il centro pista a un electro-pop tremendamente accattivante quanto mainstream, che comunque fa sempre la sua porca — mai aggettivo fu più adatto — figura.

Porca figura che in questo caso sconfina nel campo dei sex toy animati e ci mette di fronte alla situazione paradossale in cui il video di una canzone che celebra il lasciarsi andare e il perdere il controllo senza freni inibitori vede come protagonista un pupazzo, ovvero un personaggio che per compiere anche la minima azione deve venire manovrato da qualcun altro. In poche parole, un Muppet Show vietato ai minori per famiglie moderne senza bambini, dove Sesame Street diventa sul serio una strada da battere. "Battere" nel senso di Lola, che mia madre chiamava Antonio, con nostro sommo sbigottimento.

Ammetto di non aver mai capito dove sta e chi pone la soglia del Not Safe For Work su internet. Se le guideline rimangono circoscritte a quella storia dei capezzoli su Instagram, non credo — almeno tecnicamente — che questo sia #NSFW, anche se sconsiglio lo stesso di vederselo sul PC aziendale. A meno che non vi abbiano selezionato per uno stage nella redazione di PornHub, s'intende.

In quel caso, se avete finito con le fotocopie e siete di quelli a cui piace guardare, qui potete godervi pure il behind the scenes.

The Bloody Beetroots (feat. Jet)

My Name Is Thunder

Ridefinire il concetto di tamarraggine e spargerlo come la peste a sanificare la rave culture

Che il progetto di Sir Bob Cornelius Rifo fosse a rischio megalomania era una cosa evidente fin dagli albori. Dopotutto, la rapidità con cui il baronetto di Bassano del Grappa ha portato i Bloody Beetroots dai piedi delle Prealpi Venete ai palchi dei più grandi festival europei, implicava necessariamente (oltre che un talento che non si può non riconoscergli) una buona dose convinzione nei propri mezzi e di faccia (da cui quella storia delle maschere, immagino) come il culo.

Megalomania che diventa ufficialmente dichiarata con il loro nuovo The Great Electronic Swindle, mastodontico monolito di venti tracce, stracolmo di ospiti (a volte anche improbabili), che si pone come il loro lavoro forse più ambizioso, in quel suo tentativo di prendere l'estetica punk-rock e frantumarla in BPM sulla timeline di Ableton Live, smascherando una delle più grandi truffe (e fuffe) dei nostri giorni e rivelando la brutta fine che sta facendo la (o almeno un certo tipo di) musica elettronica da stadio.

Il piano è evidente e — temo — nemmeno troppo (auto)ironico: ridefinire il concetto di tamarraggine e spargerlo come la peste di manzoniana memoria a sanificare la rave culture. Diventare, a seconda dei momenti, gli AC/DC dell'electro, i Korn dell'EDM, i Guano Apes del Sónar o i Darkness della consolle. A costo di distruggere tutto per ricominciare da (ground) zero. Una roba rischiosa, il cui risultato è tutt'altro che garantito e potrebbe rivelarsi sì una svolta epocale, ma anche ritorcersi loro contro riducendoli allo status di 30 Seconds to (Bruno) Mars italiani.

Per ora l'unica cosa certa è che — novello Machiavelli — il buon Bob è purtoppo disposto a tutto, pur di raggiungere il suo scopo: anche a improvvisarsi resurrezionista, per riesumare un cadavere che ci auguravamo fosse ben sepolto come quello dei Jet. Liaison questa, che pareva già poco realistica in partenza e che, anche col senno di poi, non definirei propriamente un successo: nel senso, non son riusciti a trovarsi d'accordo nemmeno sull'equalizzazione dell'annosa diatriba "chitarre vs cassa dritta", al punto di concludere il dibattito senza vincitori né vinti, ovvero rilasciando due versioni diverse del primo singolo My Name Is Thunder.

Qui l'arrangiamento alternativo — quello, diciamo tamarro old school — segnalato unicamente per dovere di cronaca o comunque solo a dimostrazione di quello che ci hanno insegnato fin dalle scuole elementari: cambiando l'ordine degli addendi, il risultato non cambia.

Ought

These 3 Things

Essere umani non può essere semplice

La richiesta bulimica di post-punk revival non accenna a saziarsi nonostante il passare del tempo e, in questo senso, i canadesi Ought sono ben più di un semplice spuntino per fermare lo stomaco.

La conferma arriva dal loro ultimo singolo These 3 Things: pulsante e diretto, non perde tempo in fronzoli e mette in tavola un pattern vocale degno del miglior Robert Smith, il solito basso leggermente distorto che cammina spedito e una drum-machine (o forse un batterista che suona come una drum-machine — al giorno d'oggi chi è ormai più capace di distinguere la differenza?) in loop che aiuta il tutto a progredire senza particolare inciampi. Insomma, roba già sentita ma che difficilmente ci stancheremo di ascoltare, soprattutto se accompagnata da un video intelligente (ma allo stesso tempo sempre più strano e disturbante via via che va avanti) come quello girato da Jonny Look e Scottie Cameron.

Ambientato dall'inizio alla fine all'interno della stessa stanza (se non è un esplicito riferimento alla Room Inside the World che dà il titolo al loro nuovo album, la coincidenza è quantomeno sospetta), vede come protagonista un manichino di Benetton e sembra la versione for (crash test) dummies della vecchia Lazy di David Byrne, declinata però attraverso un ribaltamento di prospettiva in cui sono gli uomini a mettersi al servizio degli automi, nell'ottica di render loro la vita più semplice. Almeno all'inizio diciamo, visto che quando i test vengono replicati su una persona reale, i risultati previsti vanno un po' a puttane.

Come a ribadire che life sucks — sempre — ma cercare la famosa easy way out è un'operazione comunque sterile. Anche perché la vera bellezza della vita stessa si scopre soltanto quando si introduce nel processo proprio l'imprevedibilità della variabile umana. Disse la volpe all'uva.

EMA

Fire Water Air LSD

C'è il video di una canzone che se lo vedi, dopo sette giorni muori

Un tripudio di glitch disturbati e marciti in technicolor che diremmo usciti da un redivivo televisore a tubo cadotico e schermo tutt'altro che piatto. Synth malati che sembrano chitarre distorte e chitarre distorte che sembrano sintetizzatori con l'asma a cantare in coro un vintage trip in VHS. Un immaginario post new-age che chiama in causa — senza troppe remore spirituali — i quattro elementi in versione 2.0, ovvero sostituendo la buona, vecchia, banale terra con qualcosa di più, diciamo, evocativo. Tu chiamala, se vuoi, video-arte. O almeno sicuramente così la chiamerebbe DaVideo Tape, il cosiddetto "immersive visual artist" (parole sue) che il video l'ha girato.

Come lui, Erika Anderson non ha mai avuto paura di sperimentare e mai ha nascosto la sua passione per come la tecnologia — a volte coadiuvata da altre sostanze, più o meno sintetizzate appunto — possa contagiare la realtà.

In questo senso, Fire Water Air LSD, il suo nuovo singolo, non fa eccezione: nasce con intenti a dir poco nobili — «I wanted it to sound like Guns N' Roses coming out of grandstand speakers at a demolition derby.» — e in effetti più o meno suona come qualcosa del genere.

A livello visivo invece le cose le sono leggermente sfuggite di mano e così ora ci ritroviamo, un po' spaventati, a infilare nel videoregistratore di papà una roba strana, convinti che sia il nastro maledetto di The Ring, per poi finire a trovarci dentro una comparsata di M¥SS KETA. Frangette bionde, maschere improvvisate e zero terrore, se non la paura di sentirsi parte attiva di un vecchio dialogo di Rat-Man, quello che analizzava con disarmante lucidità proprio il lungometraggio di Gore Verbinski:

  • C'è un film che se lo vedi, dopo sette giorni muori.
  • Sempre meglio di quei film che se li vedi, dopo cinque minuti sbadigli.
Note a margine
Questa mini playlist è un piccolo estratto di quella che è stata selezionata in esclusiva per hvsr.net e che ancora continua a fare la sua porca figura, in costante evoluzione, sull'omonimo sito. La riportiamo anche qui, in fila per cinque con il resto di quel che avanza, per questioni di vanagloria, completezza e perché Spineless è come il maiale: non si butta via nulla. Ma soprattutto per non dimenticare, a perenne memoria di quei bei tempi andati in cui i mixtape si facevano a mano e gli algoritmi ci mettevano i bastoni tra le ruote solo durante le ore dei corsi di algebra.
Musica per serie televisive infrante
Fear yourself