Chromatics, Young Fathers, Fuck, Rival Consoles e Peace: cinque pezzi buoni per affrontare le prime botte di caldo senza cali di pressione o panico da allerta meteo.
30 Maggio 2018
Perfettamente allineati con quella corsa sfrenata a chi per primo affonda i denti sull'ultima (fake) breaking news ad ogni costo, che da tempo affligge la società moderna (con trend in netto peggioramento, tra l'altro), dobbiamo ammettere che la classifica dicembrina che aspettiamo con maggior fregola è non tanto la classica I migliori album dell'anno che se ne va (anche perché quelle ormai escono a metà novembre), quanto piuttosto la ben più inutile Gli album più attesi dell'anno che sta per arrivare.
Ecco. Dear Tommy è stato in testa a tutte le classifiche di questo ultimo tipo riferite al 2015, al 2016, al 2017 e al 2018. Questo perché, in un'ipotetica ulteriore lista che metta in fila la gente che ci ha preso più (e meglio) per il culo riguardo alla data di uscita di un disco, i Chromatics occupano saldamente il secondo posto, dietro soltanto ai Tool, guru supremi in materia.
Va detto che — a differenza di Maynard James Keenan e soci — la band di Portland almeno ha lavorato non poco sullo storytelling, aggiungendo via via aneddoti bislacchi, colpi di scena e scuse improponibili per giustificare il ripetuto ritardo. Nel 2014 hanno annunciato il nuovo album, messo online un bel po' di singoli, pubblicato la tracklist ufficiale e stampato quindicimila CD e diecimila vinili. Tutto sembrava pronto, già decisa anche la data (il giorno di San Valentino dell'anno dopo — giusto per non perdere mai l'occasione di essere paraculi quanto basta), ma poi Johnny Jewel ha avuto un'esperienza di "pre-morte" alle Hawaii, ne è uscito un po' scosso e, tornato a casa, ha deciso di distruggere tutte le copie fisiche del disco, partecipare alla colonna sonora del nuovo Twin Peaks e lavorare su un album solista. Quindi si è messo a riscrivere tutto da capo.
Adesso ci risiamo. Black Walls è comparsa all'improvviso insieme al suo video glitterato da slow dancefloor anni '80 e a uno scarno comunicato che suona come un impegno preciso:
Dear Tommy out Fall 2018 on Italians Do It Better.
A voler essere pignoli è stato pure specificato che la successione dei pezzi sarà esattamente la stessa della versione precedente, a parte il fatto che son stati, appunto, risuonati tutti da zero. Anzi no, visto che la stessa Black Walls non compare nell'elenco in questione.
E quindi? Vai a sapere. Perché va bene la suspense, ma qui siamo ben oltre la soglia di «Al lupo! Al lupo!» e quindi credo sia opportuno spostare l'attenzione altrove: lasciare perdere ormai definitivamente i pronostici su se e quando Dear Tommy vedrà la luce e chiedersi piuttosto — se davvero a un certo punto succederà — come reggerà il confronto con le sue stesse ex tracce che abbiamo ascoltato quattro anni fa e soprattutto con il resto del disco immaginario che in tutto questo tempo ci siamo suonati in testa.
Sicuramente, comunque vada, l'unica cosa che possiamo dire con certezza è che a questo punto, più che il successore di Kill For Love, il buon caro Tommy è già il successore di se stesso.
Strana storia, quella di Timothy Prudhomme e compagni di merende, buona per Chi l'ha visto? o un programma a caso di Carlo Lucarelli.
Tra metà degli anni '90 e gli albori del nuovo millennio, hanno pubblicato otto dischi, suonato dal vivo su più di quattrocento palchi e cambiato etichetta con una frequenza maggiore di quella con cui Liz Taylor ha cambiato marito (nove in totale, tra cui la Matador e la nostrana Homesleep). Nel 2008 hanno raggiunto l'apice della fuckness con un epico concerto durante il Festival of The Fuck Bands, organizzato in compagnia di altri gruppi dai nomi altrettanto evocativi come Holy Fuck, Fucked Up e Fuck Buttons e tenutosi — e dove altrimenti? — nella ridente cittadina austriaca di Fucking. Da lì in avanti, più nulla: non un annuncio, non una nota stampa, non un saluto. Semplicemente, scomparsi dai radar, senza nemmeno un abusatissimo:
Huston, we have a (fucking) problem.
Poi è andata che il loro vecchio amico (nonché batterista dei Sonic Youth) Steve Shelley, una volta fondata la sua label Vampire Blues, ha deciso di ripubblicare i loro primi lavori e, mentre era occupato in questo progetto, ha scoperto che i Fuck — nel frattempo, in tutta calma, di nascosto — si erano presi il lusso di scrivere una quindicina di quelli che probabilmente si candidavano al premio di pezzi migliori della loro carriera e quindi avevano in pratica pronto un album nuovo di zecca.
L'hanno chiamato The Band, registrato a spizzichi e bocconi secondo le loro vecchie usanze DIY (le basi a San Francisco, gli overdub in Italia, il mixaggio finale a Memphis) e deciso di farlo uscire a giugno. Leave My Body è il primo e unico singolo e — contro ogni idea di strategia promozionale online — se ne sta ben rintanato (ancora "unlisted", ovvero introvabile tramite il motore di ricerca della piattaforma) su YouTube, insieme al suo video che suona come un didascalico inno alla banalità di tutti i giorni mentre va a posizionarsi a metà tra una storiella di Raymond Carver e un vecchio film in bianco e nero.
Qual era quella frase fatta che si usa in questi casi? "Rock'n'roll will never die", giusto? Ecco, questa piccola parabola ci suggerisce che forse è vero anche per l'indie, quello originale e più genuino: difficilmente muore, al massimo sta in coma una decina di anni, ma poi si sveglia all'improvviso. Quando meno te lo aspetti. Quando avevi perso la pazienza. Quando avevi perso la speranza.
Nella vita tutti indossiamo una maschera. Ogni giorno, intendo: non solo quando andiamo a un concerto dei Tre Allegri Ragazzi Morti. Anzi, spesso non possiamo fare a meno di prenderne in prestito più di una: la cambiamo a seconda delle situazioni e scegliamo quella giusta — come fosse una camicia tra quelle messe in fila tra gli scheletri del nostro armadio — in base alla persona che abbiamo davanti.
Nella vita tutti indossiamo una maschera. E raramente finisce bene, perché quasi mai ci fermiamo un attimo a chiederci quale di queste maschere è quella che davvero ci rappresenta. Ci aveva già avvertito Ingmar Bergman nel 1966 con Persona e oggi Ryan Lee West (producer londinese, in arte Rival Consoles) torna sulla questione con un disco che si chiama allo stesso modo, appena uscito, e un singolo — Hidden — che già dal titolo mette in tavola le sue intenzioni: andare a sbirciare tra le nostre rughe di cartapesta e provare a far luce nelle zone d'ombra che ognuna delle figure che impersoniamo di volta in volta va a proiettare sulle altre. Una moltitudine di layer impilati come piatti ancora da lavare, fatta di spezzoni di performance live, vecchi filmati della BBC, proiezioni visual astratte e una continua altalena tra flussi analogici e digitali che indubbiamente rende bene l'idea di quanto sia difficile andare a isolare il proprio true self, in mezzo a tutto il rumore che — inconsciamente o meno — gli creiamo attorno.
Nella vita tutti indossiamo una maschera. Anche Kurt Vonnegut ce l'aveva già detto a suo tempo, con parole semplici e quel suo tono tipico che fa sembrare ogni cosa come la meno complicata di questo mondo. Cito a memoria:
Noi siamo quello che facciamo finta di essere, quindi dovremmo stare molto attenti a quello che facciamo finta di essere.
Rival Consoles fa finta di essere Jon Hopkins con la faccia furba di Apparat e gli occhi tristi dei Boards of Canada. Lo fa con molta attenzione, quanto basta di sfacciataggine e la necessaria quota di delicatezza. Gli viene benissimo.
Se ci pensate, non è che stupisca più di tanto trovarsi di fronte a una clip piena di bambini: è vero che l'essere didascalici è fuori moda e la coerenza di contenuti al giorno d'oggi ormai un optional, ma stiamo pur sempre parlando di una band che si chiama Ragazzi Padri. Che poi i giovani interpreti in questione siano dei piccoli Trump e Putin alle prese con il famoso "gioco del potere", rende solo lo scenario più inquietante (e divertente) allo stesso tempo. Ma torneremo sull'argomento a breve.
Gli Young Fathers suonano una roba inzuppata di R&B, hip hop e mille componenti black, ma non puoi esattamente definirli dei rapper. Risulterebbe impreciso e fuorviante. Anche tirare in ballo un certo trip hop — per quanto Edimburgo sia forse la cosa più simile a Bristol che c'è in Scozia — non sarebbe abbastanza. Stanno piuttosto sotto il cappello di quella specie di "Dixieland al contrario" — siamo dalle parti dei TV On The Radio con meno chitarre o degli Algiers senza riferimenti alla letteratura southern gothic, alle Black Panthers e agli schiavi dell'Alabama — che ha portato la negritudine a sfondare con meritato successo in campi (rock, post-punk, elettronica) un tempo quasi esclusivamente monopolizzate da un establishment musicale "bianco".
Toy è il terzo estratto dall'ottimo Cocoa Sugar a guadagnarsi l'onore di finire prima dietro una videocamera e poi su YouTube e quindi… il video, dicevamo. Diretto da Salomon Ligthelm e figlio di un concept arrivato come un'epiphany nella testa del regista nel momento in cui ha visto una foto del Leader Supremo nord-coreano Kim Jong Un ritratto accanto ai suoi pupazzetti, dà al tutto una lettura politicizzata che il pezzo (per quanto viscerale e abrasivo) non necessariamente suggeriva.
Bisogna ammettere che non è la prima volta che capi di stato discussi o dittatori sanguinari vengono — almeno idealmente — associati all'immagine di bimbetti viziati che fanno le bizze perché il mondo non va come vorrebbero o gli equilibri internazionali non combaciano al millimetro con quelli che avevano preteso nella loro ultima letterina a Babbo Natale. Qui però si dà alla cosa un tocco di realismo visuale in più, solo per finire a concludere che — come dicevano i buoni, vecchi Bad Religion — questa è uno di quei casi (sempre più frequenti, ultimamente) in cui «truth is stranger than fiction».
L'innamoramento ai tempi dell'indie (e dell'indie-pop in particolare), a parte rare eccezioni, è quasi mai un vero e proprio abbandono felice, un tuffo nella corrente tiepida dell'emozione, quanto piuttosto la brama depressa di un immaginario confinato al colore delle spunte di WhatsApp. Parla di storie problematiche (se non addirittura mai iniziate), magoni intimi e vulnerabilità lunatiche che guardano, da dietro uno status (a)sociale, il teatrino di un'età disagiata, fatta di speranze rilanciate a occhi bassi (se non addirittura a occhi chiusi) e di una quotidianità poco lungimirante, che fa fatica a superare la sua stessa definizione, ovvero a guardare oltre le ventiquattr'ore di vita di una Instagram story.
In questo scenario disarmante, i Peace si sono sempre distinti, presentandosi — fin dagli inizi — come i paladini di un ottimismo sentimentale così sfacciato e controtendenza da apparire quasi fuori luogo. Solo a scorrere i titoli dei loro album (In Love, Happy People e il freschissimo — appena uscito — Kindness Is the New Rock and Roll) ti si riempie la faccia di brufoli, i denti si cariano nel giro di poche tracce e i malati di diabete corrono ad ascoltare Sopor Aeternus per compensare la botta glicemica.
E allora, visto che al dolce non si dice mai di no anche quando arriva dopo una luculliana sgranata a base di cinghiale in umido e pappardelle al ragù d'anatra, ecco il nuovo singolo You Don't Walk Away From Love — un summer pop anthem perfettamente a suo agio sia sulle piste delle discoteche della domenica pomeriggio (ammesso che esistano ancora) sia in sottofondo a una puntata di Gossip Girl — che aggiunge miele allo zucchero, anche grazie (a causa del) suo video tanto colorato quanto melenso. Una roba che diresti low-budget (alla fine son due take in croce: la band che suona, alternata a due adolescenti che pomiciano appassionatamente — chiara citazione della scena nella tenda di wes-andersoniana memoria), ma che in realtà è costata un botto, in quanto girata direttamente in pellicola, visto che — a sentire il regista Jonnie Craig — era l'unico modo per «kind of visualise what it feels like to be in love» evitando così l'innaturale freddezza del digitale.
Pure ecstatic natural love is out there waiting for you to illegally download it.
Afferma — sicuro, sognante e un po' polemico allo stesso tempo — Harry Koisser, frontman della band.
Strano, che nella chat di Soulseek, nessuno abbia ancora detto niente.