Archy Ivan Marshall torna dalla sua gitarella di piacere all'inferno fresco come una rosa appassita e ci lascia con consapevolezza che King Krule è a tutti gli effetti il progetto più innovativo degli ultimi anni.
16 Dicembre 2017
Archy Ivan Marshall ha ventitré anni. Non che sia importante in sede di recensione, ma è bene ribadirlo, perché se senti la sua voce senza averlo visto in faccia, se metti su un suo disco senza leggere le avvertenze e ti fai mangiare l'anima da quelle storture baritonali che sembrano uscite da un contest illegale per freestyler radunati nelle catacombe, pensi di avere a che fare con un vecchio obeso, magari negro, con la gola levigata da cascate di whiskey e incatramata da chili di nicotina.
Invece Archy Ivan Marshall ha ventitré anni, e l'Osatta faccia che ti aspetteresti da un ventitreenne d'Oltremanica: magro come un chiodo, capelli rossi, lentiggini sparse e il colorito cadaverico di un nerd sfigato della periferia di South London.
Ventitré anni a dir poco intensi, questo va detto, perché mentre la maggior parte di quelli della sua età stava a casa a rincitrullirsi con Grand Theft Auto V, cantava a squarciagola durante un concerto di Ed Sheeran, ballava insieme alla sua prima anfetamina sulle note di un DJ set di Martin Garrix, o sbraitava sugli spalti di Selhurst Park a tifare Crystal Palace per poi finire a ubriacarsi al Beer Rebellion di Peckham, lui passava la maggior parte del suo tempo a nascondersi sotto il letto pur di non andare a scuola, a litigare prima con inutili tutor e poi con altrettanto (a suo dire) inetti psichiatri, a giocare a nascondino con depressione e insonnia. A odiare tutti senza particolari rimorsi, come fosse l'unico modo per arrivare a fine giornata, in poche parole.
Non che sia un pregio questo, né tantomeno un misero tentativo — lungi da me — di rivendere come automatico sinonimo di talento la figura stantia dell'artista pazzo, disturbato o quantomeno tormentato. Non che sia importante in sede di recensione nemmeno tutto ciò, insomma, ma ricordarselo credo aiuti a capire — o almeno dà una chiave di lettura che riesco a considerare l'unica plausibile — come è stato possibile che uno, a ventitré anni, sia riuscito già a partorire due dischi come The OOZ e (ancor prima — qui si va nella fantascienza: diciannove anni) 6 Feet Beneath the Moon. Giusto per limitarsi a quelli usciti a nome King Krule.
Il fatto poi che questa condizione sia allo stesso tempo necessaria ma non sufficiente (quanti ragazzini problematici rimangono semplicemente dei ragazzini problematici senza diventare, prima che spariscano loro i brufoli dalla fronte, dei potenziali Tom Waits?) e sufficiente ma non necessaria (il mondo è pieno di adolescenti equilibratissimi che hanno fatto comunque grandi cose, anche senza l'aiuto di Seropram o Valium), porta — in questo ingarbugliato processo di meta-assunzioni e controdeduzioni che sto facendo con me stesso e che potrei definire automaieutica — a ritrovarsi in mano con l'unica intersezione indiscutibile: Archy Ivan Marshall di talento ne ha da vendere. E ne ha in quantità tale che anche se lo facesse davvero (di venderne un po' a qualche suo coetaneo così da mettere da parte un bel gruzzoletto da investire in antidepressivi e creme antiacne, dico), gliene rimarrebbe comunque abbastanza da ricominciare tutto questo discorso da capo, ad libitum.
Se poi pensiamo di nuovo a quella cosa che non è che sia poi così importante in sede di recensione — ovvero che il tizio in questione ha ventitré anni — concludiamo con un margine di errore irrisorio che il talento di Archy Ivan Marshall è praticamente innato.
Q.E.D. — Quod Erat Demostrandum.
Per passarci (finalmente) sul serio, alla sede di recensione, diciamo subito che The OOZ è un disco confuso, poco uniforme, che perde spesso il filo del discorso, anzi, che il filo del discorso lo annoda apposta, lo nasconde sotto il tappeto e finge di non riuscire a ritrovarlo, perché nel labirinto delle sue ossessioni (con buona pace della mitologica Arianna) ci sguazza come un maiale in una pozzanghera: a tratti sperimentale — in termini di armonie, (s)bilanciamento dei suoni, tira e molla tra i generi musicali sfiorati — oltre la soglia media di sopportazione. Tutte cose, queste, che (sempre nella famosa sede di recensione) dovremmo catalogare alla voce "difetti". Brutti difetti. Ma abbiamo appena dimostrato quanto cristallino sia il talento di Archy Ivan Marshall, quindi non stupisce certo (mento sapendo di mentire: in realtà stupisce ogni volta che lo ascolti) scoprire che la bravura del nostro rosso malpelo sta proprio nel rendere l'inferno sonoro appena descritto il vero punto di forza dell'album.
Come una nebbia opaca che si estende a macchia d'olio in maniera inesorabile, The OOZ fa della stream of consciousness improvvisata una nuova narrativa musicale: nessuna delle sue associazioni (a)melodiche più bizzarre — ci sono momenti che sembrano esistere solo in una terra di nessuno che sta tra un improbabile jazz-rock e uno stupefatto garage-punk tanto sexy quanto Sixties — appare forzata. Anzi, mediamente, più il salto è ardito, più dà l'impressione di avvenire spontaneamente, invece che essere diabolicamente pensato a tavolino.
L'atmosfera è spesso stordita, quasi irreale e disorientante: primitive drum machine ticchettano come gocce abbandonate sul lavandino, qualche loop fa intravedere frammenti e approssimazioni di un hip hop sonnambulo, le tonalità di tastiere e chitarre camminano costantemente in bilico sull'orlo del "fuori dal coro", sparuti sassofoni danno colpetti di clacson disperati quasi indistinguibili nel resto del traffico, le progressioni di accordi sembrano (e invece) non avere una direzione precisa come un neo-patentato alla prima rotonda e ogni frase epica compare in superficie per pochi secondi prima di svanire nell'abisso. Qualche verso promette un ritornello memorabile, ma poi collassa due righe dopo.
I testi ti spiazzano: oscillando tra un borbottio raschiato, un crooning strascicato (ma gonfio e rotondo da mettere a dura prova i subwoofer più delle pesanti linee di basso) e qualche urlo agonizzante, si lasciano dietro stracci di flash più lirici di come suonano a una prima, sarcastica lettura. Una relazione che va in pezzi, qualche specie di crollo nervoso, la maledizione del primo blocco dello scrittore e approssimative pennellate di una Londra contemporanea, città di parassiti assunti allo status di santi in un paradiso malsano («parasite, paradise / parasite, paradise»), persa in un limbo a metà tra gentrificazione e criminalità.
Sì, è vero, ci sono frangenti in cui il peso di alleggerisce per un attimo, in cui si inciampa in rime surreali come quella tra "bipolar" e "Gianfranco Zola", ma sono risate che rimbombano in una stanza buia, risate quasi estorte che non sai da quale angolo vengono e lasciano addosso più brividi che sollievo. No, se c'è una cosa su cui non nutrire il minimo dubbio è questa: The OOZ non verrà ricordato come un munifico dispenser di "momenti LOL", ma piuttosto come una zona franca in cui ogni categorizzazione finisce per sfumare i propri contorni, se non addirittura a scomparire senza pietà.
Più che un disco è un prisma con innumerevoli facce da utilizzare come buchi della serrature per sbirciare dentro senza sapere in anticipo se il nostro sguardo verrà riflesso, rifratto o risucchiato una volta per tutte da un buco nero: c'è l'inquietudine del trip hop, la paranoia del dub, quel che resta del tanfo del punk (pur)troppo post da doverne riesumare il cadavere, la dolcezza definitiva della soundtrack di una crime story, l'umidità appiccicosa di un R&B reumatico.
The OOZ è la musica di sottofondo, ammiccante e sudicia, di un night club anni '20, e la sua magia sta nella peculiarità che riesce a esserlo indifferentemente dal fatto che tu stia parlando del 1920 o del 2120: è Micheal Bublé sperduto nella chinatown del primo Blade Runner, in un mondo dove è vietato cantare canzoni di Natale, è la traversata verso l'Ade vista dalla sala da ballo del Titanic mentre Caronte fuma pensieroso appoggiato alla balaustra di prua, è un iceberg molliccio che si scioglierà, ma lo farà sempre e comunque troppo tardi.
Eppure, nonostante questo, ti sputa lo stesso in bocca un retrogusto che ti fa assaporare comunque un qualcosa che assomiglia a una speranza, giusto prima di agglomerarsi in una palla di pelo indistinguibile da un groppo in gola: la speranza di uno che in tutto questo c'ha nuotato dentro con due pietre legate alle caviglie e ne è uscito vivo, a parte un brutto raffreddore che gli ha lasciato in dote questa voce da cinquantenne scafato. Uno che ora si prende la briga di raccontartelo, in maniera splendidamente sconclusionata, ma senza mai avvicinarsi troppo, come se ti sussurrasse all'orecchio dall'altro capo di uno smartphone a gettoni.
Ecco, spero il flashback sia stato abbastanza chiaro, perché Colors è quello che succede quando Beck inizia a starci, al gioco, quando è lui che inizia a voler suonare come la pop music. Solo che lo fa con più di vent'anni di ritardo, quando il gioco è cambiato, così come è cambiata la musica pop. Colors è Beck che da virus diventa contagiato, che da portatore sano passa a un'infezione acuta i cui sintomi rimandano tutti a un ceppo influenzale che quest'anno sembra fare ben pochi prigionieri. Potremmo chiamarla la "sindrome Arcade Fire", ovvero una roba fulminante che in men che non si dica ti porta a funkeggiare in maniera molto Seventies su un dancefloor plasticoso e caleidoscopico, immerso in un'atmosfera ebbra di "su le mani" gridati in falsetto. In molti ne sono usciti con le ossa rotte (vedi gli Shins) qualcuno è sopravvissuto senza particolari ricadute (parlo degli Spoon). Beck partiva già vaccinato, quindi galleggia sulla zattera dell'esperienza e porta a casa almeno un pezzo di pagnotta, grazie soprattutto al suo mestiere nel songwriting (tredici album in studio lasciano il segno — come andare in bicicletta, una volta imparato dicono che non si dimentica più, giusto?) e a un senso per la melodia da cavallo di razza.
Solo che la linea viene e va, e il messaggio di rivincita arriva decostruito, solo a sprazzi. Ma dopotutto, come potrebbe essere diversamente? È risaputo che più sprofondi e meno c'è (s)campo.