Fufanu, Pontiak, Oxbow, Formation e Elbow: quattro pezzoni e una bonus track natalizia per non dimenticare quest'annata, che tanto ha dato e ancora ha tanto da dare, in retrospettiva.
29 Dicembre 2017
Che l'slanda non fosse solo geyser, Björk e Sigur Rós lo sapevamo, ma scoprire che avesse anche qualcosa da insegnare al continente in materia di indie-rock, post-punk elettronico e capacità di scopiazzare i grandi del passato con piglio personale e gusto non indifferente, è stata una delle più belle sorprese di questo 2017.
I meriti di averci aperto gli occhi vanno senza ombra di dubbio a una band il cui nome ricorda più uno strumento a fiato sardo che le bianche distese di neve del Nord Europa. I Fufanu hanno iniziato, non molto tempo fa, con le pretese di uno snack da apericena nelle vesti di un duo techno per poi, a forza di aggiungere gradualmente elementi e pezzi di strumentazione live alla ricetta, finire a presentare in sala un pasto completo che va dall'antipasto al dolce, più caffè e ammazzacaffè. Si chiama Sports e probabilmente è una delle migliori uscite dell'anno.
Come portavoce avremmo potuto prendere — anche a caso — uno qualunque dei dieci pezzi che compongono l'album, visto che il livello medio è altissimo e, nel corso della tracklist, non c'è traccia di passaggi a vuoto che possano giustificare cali di ritmo o di attenzione. La scelta è caduta su Liability perché riassume bene il mood del tutto e per il suo video divertente che condensa in quattro minuti tutte le possibili declinazioni del titolo del disco e sarebbe uno spot perfetto nel caso in cui Reykjavík decidesse di candidarsi come sede delle prossime Olimpiadi.
Guardate che carini: in pratica sono i Joy Division biondi e sì, son pure a colori e leggermente più sorridenti e autoironici. Per fortuna, verrebbe da aggiungere, visto che la loro terra d'origine non è che sia messa poi così meglio del Regno Unito nella classifica ufficiale delle nazioni per tasso di suicidio.
Gli Oxbow sono tornati, questa è una delle notizie del 2017. Notizia che, almeno qualche fedele appassionato, ha aspettato con pazienza per dieci anni esatti.
Perché un'attesa così lunga? A quanto parte un po' per scelta, un po' per cause di forza maggiore. Dove, nello specifico, la causa di forza maggiore si chiama Joe Chiccarelli, storico sound engineer della band, che aveva co-prodotto anche il precedente The Narcotic Story, e con il quale Eugene Robinson e soci volevano tornare a tutti i costi a collaborare anche in occasione del nuovo disco. Solo che il buon Joe è un tipo tanto richiesto quanto impegnato e quindi prima ha dato buca perché doveva lavorare con Jack White, poi ha finto di non sentirci perché era bloccato dietro al mixer dell'ultimo album di Morrissey e a un certo punto ha fatto il vago adducendo motivazioni non plausibili come una certa promessa fatta a Alanis Morissette.
And that was a bitter pill to swallow. I don't mind being bumped for Jack White or Morrissey, but Alanis Morissette?
In effetti, come dar loro torto?
Comunque, tutto è bene quel che finisce bene: alla fine Chiccarelli ha trovato un paio di settimane da dedicare ai vecchi amici e ci siamo ritrovati tra le mani questo Thin Black Duke, che già nel titolo cita David Bowie, ma solo per rivoltarlo come un calzino e tirarne fuori il lato oscuro. Il resto, è un film già visto: ogni tentativo di etichettatura va a farsi benedire e nessuna combinazione di qualunque genere vi venga in mente è sufficiente per descrivere il livello di scrittura ormai raggiunto dai quattro di San Francisco.
In questo senso, il primo singolo, Cold & Well-Lit Place — con il suo incedere quasi Mr. Bungle-sco, quel riffettino di chitarra che avrebbe potuto fare la fortuna di almeno un paio di James Bond e la ben nota, inimitabile, voce che ti raschia via ogni sicurezza — mette subito il dito nella piaga e non lascia scampo.
Avremmo voluto sentirlo da dei ventenni incazzati, invece che da gente ormai brizzolata e un po demodé. Ma temo che sarebbe stato chiedere troppo.
I tre fratelli Carney hanno le radici lunghe, solide e ben piantate in un posto dell'anima che sta a metà tra le Blue Ridge Mountains (Virginia) e i Black Sabbath. Un posto che se stesse in Norvegia, dalle parti di Trondheim, si chiamerebbe Motorpsycho.
Arrivati al decimo disco sotto l'ala della Thrill Jockey, hanno ormai maturato — a suon di badilate da tre chili di pesante, profondo e pestato acid-rock — una fanbase così devota e una consapevolezza dal sapore improvvisato e blues che li ha portati a quel punto di non ritorno in cui potrebbero fare più o meno qualunque cosa senza perdere nemmeno un grammo di credibilità di fronte al proprio, fedele pubblico.
Per dire, a sentir loro, avrebbero passato gli ultimi tre anni a produrre birra artigianale fatta in casa, eppure questo non ha minimamente intaccato (sempre di artigianato purissimo si tratta) il loro tocco nel comporre cavalcate psych che fanno il percorso inverso del peyote, la cui assunzione regolare — altro che luppolo! qualcuno maligna — sia l'unica spiegazione plausibile per la naturalezza con cui i loro riff ossessivi ti ampliano, diciamo, le vedute.
Ignorance Makes Me High è solo una pillola del blister da otto uscito quest'anno e battezzato con un titolo meraviglioso come Dialectic of Ignorance: un'esplorazione espansa, pensata e cucinata a fuoco lentissimo, del modo migliore per macinarti prima la pancia, poi il midollo spinale e solo alla fine salire a vedere cosa è rimasto del cervello, nel cui video Van Carney assomiglia in maniera impressionante a Joshua Boyle, o almeno al suo travestimento da hipster, quello che indossava l'11 ottobre scorso, giorno della sua liberazione da parte dell'esercito pakistano. Anche quello spiraglio di luce dall'alto e il modo in cui socchiude gli occhi disturbato, non fanno che confermare questa improbabile teoria, visto che sembrano proprio gli effetti del primo, salvifico raggio a cui il poveraccio non era ormai più abituato — e che probabilmente nemmeno sperava più di poter assaporare di nuovo — dopo quattro anni di prigionia in un bunker sotterraneo in Afghanistan.
In pratica una scommessa stoner con cui fregare una volta per tutte il fantasma dei Pink Floyd, promettendo di regalargli finalmente un distorsore degno di questo nome, a patto che metta da parte tutte quelle menate filosofiche e quelle supercazzole incomprensibilmente anni '70.
Insomma, una buona Pale Ale e vedrete che anche a George A. Reisch gli passa la paura.
Non fatevi ingannare dal loro aspetto di bei giovanotti fighi e rock'n'roll, dalla loro giovane età e dalle loro giacche con le toppe e le spillette: i Formation son ragazzi tutt'altro che superficiali e disinteressati ai problemi della società moderna. Non esattamente quello che chiameremmo un "gruppo politicizzato", ma diciamo che, per sicurezza, meglio non romper loro troppo le scatole o provare a vender fuffa in giro:
If someone's gonna start bringing bullshit, you've got to stand up for yourselves.
Sempre e costantemente sul pezzo, sono presenti e attivi su tutti i social network che vi possono venire in mente (ogni tanto si prendono pure la briga di scrivere dei post su Medium) e quest'anno sono usciti con il loro debutto sulla lunga distanza, quel Look At The Powerful People che, anche in termini musicali, procede spedito sui due binari appena tracciati — sexyness spontanea e impegno sociale — mischiando senza troppe remore, indie-rock, post-punk e elettronica abbastanza danzereccia.
Binari da cui non si allontana nemmeno il video della (quasi) title-track, girato da Mike Skinner (passato ora dietro la macchina da presa dopo la fine dell'avventura di musicista con gli Streets), che vede la speciale partecipazione della UK Bike Life Collective e rappresenta una vera e propria sfida a tutti i manuali di sicurezza stradale su due ruote.
Nonostante un nome che certo non aiuta l'indicizzazione su Google (provate a cercare "formation band" e vedrete quante testimonianze di come è difficile trovare un bassista per un gruppo di liceali vi usciranno sotto gli occhi), anche sul loro sito il messaggio è forte e chiaro: «We are no longer individuals / we are the powerful people / together not apart / inclusive not exclusive / redefined not predefined / music is power / join us!»
Forse è il caso di scendere in campo e rispondere "presente!".
Nel Regno Unito John Lewis è un'istituzione. Non parlo ovviamente del filosofo marxista, ma della catena di centri commerciali che — ironia della sorte — dal 1864 svolge egregiamente il compito di mantenere attivo e in salute lo spirito capitalista degli inglesi. In pratica un paradiso consumista dove non ti manca niente: immaginatevi Ikea, Brico, Unieuro, Leroy Merlin, Media World, Sephora, La Rinascente (e tutto il resto che della lista che non fa dormire il vostro portafogli, soprattutto sotto le feste) in un unico spazio terreno.
Non sarà difficile quindi credere che, al di là della Manica, ogni inverno non è mai ufficialmente Natale finché non compare in TV l'immancabile John Lewis Christmas Advert: tutti i santi anni, da ormai un po' di tempo, un particolare artista interpreta un grande classico del pop con lo scopo di fare da colonna sonora a un meraviglioso micro film ad alto budget (sempre e comunque un infinitesimo dei profitti dell'azienda, ci mancherebbe) e di rendere più propense all'acquisto le borse dei contribuenti.
Quest'anno è toccato agli Elbow di Guy Garvey, che riescono a commuovere anche il cuore del più bieco commercialista con la loro versione di Golden Slumbers dei Beatles, e a Michel Gondry, che porta in scena un mostriciattolo adorabile — Moz The Monster — dal naso gigante e dal cuore tenerissimo e gli dà vita grazie al suo tocco inconfondibile.
Il video della canzone è niente altro che il backstage della pubblicità e, tra pezzi di stop-motion accennata, trucchetti visivi che sanno di magia pura e CGI così perfetta da sembrare reale, tutta l'atmosfera è estremamente "Merry Christmas and Happy New Year", nonostante non compaia mai — nemmeno sullo sfondo, per sbaglio — un camion della Coca-Cola.
E nonostante, soprattutto, quel finale dolce-amaro che ci lascia sempre lo stesso, atavico dubbio: Babbo Natale — o chi per lui, in qualunque versione vogliamo declinarlo — esiste davvero?