Musica e polemichette

Musica e polemichette

30 dischi usciti nel 2017 che ci son piaciuti (a Spineless) parecchio: l'inutile, inconsulta classifica di fine anno a suo insindacabile e non richiesto giudizio. Attenzione: contiene polemichette.

30 Dicembre 2017

Ai tempi del west erano risse da saloon: volavano schiaffoni e a un certo punto qualcuno ti scaraventava fuori dal cancello basculante, finivi nel polverone della strada principale e te la vedevi a duello con la Colt. Poi son diventati discorsi da bar, e nella migliore delle ipotesi qualcuno ti riportava a casa ubriaco e tua moglie ti metteva a letto vestito togliendoti giusto le scarpe. Quindi sono arrivati i flame sui forum della preistoria dell'internet: potevi andarci giù pesante perché era il bello dell'anonimato protetto da un nickname, ma a un certo punto qualcuno dal piano di sotto doveva telefonare, e allora toccava liberare la linea e lasciare il prossimo insulto a metà (un fastidio che non ti dico).

I social network hanno in qualche modo rovinato tutto, prendendo il peggio da tutti gli scenari di cui sopra: sei protetto da uno schermo ma anonimo fino a un certo punto (soprattutto se sei così stupido da aver postato mille screenshot delle tue chat di Whatsapp dove si vede il tuo numero di telefono), ma più che altro è il livello, che è sceso sotto la soglia delle scarpe. Io le chiamo polemichette, e questo è un anno che c'ho le palle abbastanza girate e sufficiente tempo da perdere da buttarne là almeno un paio.

Sergio Leone

Iniziamo con una polemichetta sulle classifiche, ovvero dovuta al fatto che sì, lo so: ora qui ci vorrebbe un'introduzione in cui mi lamento di quale spreco di tempo sia fare una classifica di fine anno, di quanto sia inutile e fine a se stesso come esercizio (soprattutto nel caso in cui scrivi — spoiler alert! — novantamila battute che nessuno leggerà mai), di come ricordi una scena di Per un pugno di dollari il silenzio che subito mi si è creato intorno — con il niente a perdita d'occhio, se non qualche covone di fieno che rotola sospinto da un vento che fischia beffardo — appena ho finito di digitare la parola "novantamila".

Non fosse altro che risulterebbe abbastanza ridicolo — scagliarsi contro l'usanza e il bisogno dei resoconti in occasione della chiusura di una stagione, intendo — visto che solo quest'anno ho già democraticamente partecipato alla compilazione di altre tre classifiche: due per L'Indiependente (qui quella italiana, qui quella internazionale) e una per Humans vs Robots (che, a voler essere pignoli, era una playlist, ma il concetto non cambia).

Perché la verità è che alla fine far questa roba è tremendamente divertente. E, anche in termini di utilità, sempre meno ipocrita che finire a stilar liste di buoni propositi per l'anno nuovo, con il fermo, categorico, (in)volontario obiettivo di non mantenerne nemmeno uno.

Daniel Ek

E allora andiamo di polemichetta sulle playlist. Perché in effetti potrei star qui a piangermi addosso, valutando con occhio critico come nell'era di Spotify le classifiche di fine anno non rappresentino più un momento privilegiato all'interno di una narrazione squisitamente musicale, rito collettivo che oggi sembra invece essere stato sostituito da un flusso continuo e soggettivo, un elenco randomico e annoiato di compilation in streaming.

Il che, a voler essere sinceri, sarebbe anche una sacrosanta verità. Ma anche a questo prova a rispondere con i fatti — mica con le pugnette — lo staff di #HVSR.

Renato Zero

In mancanza infine d'altro su cui far polemica, non mi rimane che ostinarmi a pubblicare questo elenco di sproloqui su alcuni album usciti nell'ultimo anno sempre e rigorosamente in extremis (se non, in casi di particolare disagio, addirittura fuori tempo massimo), perché da un lato i giorni che vanno da Natale a Capodanno sono gli unici in cui posso sputtanare le mie uniche ferie stando 24 ore su 24 a scrivere seduto sul letto con il gatto acciambellato sulla tastiera del portatile, dall'altro non vedo perché discriminare band che escono con un disco a Dicembre presentando il resoconto a metà Novembre, dall'altro ancora — sì, è un triangolo questo concetto, c'ha tre lati, e no, prima di iniziarlo non l'avevo considerato — credo che si debba porre un limite a questa corsa collettiva a chi pubblica prima la sua classifica.

È una questione di matematica, buon senso e sostenibilità, oltre che un trend incosciente e ben poco scalabile che non potrà portare ad altro se non un paradosso spazio-temporale. Nel senso, continuando di questo passo, tra un paio di anni, il primo Best Albums of 2020 uscirà per Pasqua. Pasqua 2019, dico.

E anche questa la archiviamo sotto la voce: polemichetta sulla fretta.

30

King Krule

The OOZ

La lenta decomposizione di un night club anni '20

Archy Ivan Marshall credo possa essere considerato un bambino prodigio. Peccato che a sentirlo senza guardarlo pare un vecchio negro obeso, mentre a guardarlo senza sentirlo un delinquentello anemico appena tornato dal regno dei morti per raccontarci la sua versione. A diciannove anni era riuscito nell'inspiegabile impresa di partorire una roba come 6 Feet Beneath The Moon, oggi — appena ventritreene — alza ancora un po' il livello con questo The OOZ, che non è propriamente un disco, quanto piuttosto un prisma con innumerevoli facce da utilizzare come buchi della serrature per sbirciare dentro senza sapere in anticipo se il nostro sguardo verrà riflesso, rifratto o risucchiato una volta per tutte da un buco nero: c'è l'inquietudine del trip-hop, la paranoia del dub, quel che resta del tanfo del punk (pur)troppo "post" da doverne riesumare il cadavere, la dolcezza definitiva della soundtrack di una crime story, l'umidità appiccicosa di un R&B reumatico.

The OOZ è la musica di sottofondo, ammiccante, sudicia, seducente ma senza capo né coda, di un night club anni '20, e la sua magia sta nella peculiarità che riesce a esserlo indifferentemente dal fatto che tu stia parlando del 1920 o del 2120: è Micheal Bublé sperduto nella chinatown del primo primo Blade Runner, in un mondo dove è vietato cantare canzoni di Natale, è la traversata verso l'Ade vista dalla sala da ballo del Titanic mentre Caronte fuma pensieroso appoggiato alla balaustra di prua, è un iceberg molliccio che si scioglierà, ma lo farà sempre e comunque troppo tardi. Eppure, nonostante questo, ti sputa lo stesso in bocca un retrogusto che ti fa assaporare comunque un qualcosa che assomiglia a una speranza, giusto prima di agglomerarsi in una palla di pelo indistinguibile da un groppo in gola: la speranza di uno che in tutto questo c'ha nuotato dentro con due pietre legate alle caviglie e ne è uscito vivo, a parte un brutto raffreddore che gli ha lasciato in dote questa voce da cinquantenne scafato. Uno che ora si prende la briga di raccontartelo, in maniera splendidamente sconclusionata, ma senza mai avvicinarsi troppo, come se ti sussurrasse all'orecchio dall'altro capo di uno smartphone a gettoni. Solo che la linea viene e va, e il messaggio di rivincita arriva decostruito, recapitato al destinatario a sprazzi, quasi in codice.

Ma dopotutto, come potrebbe essere diversamente? È risaputo che più sprofondi e meno c'è (s)campo.

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Dum Surfer

Emergency Blimp

Vidual

29

St. Vincent

Masseduction

La più brava della classe

Annie Clark non ne sbaglia una. Puntualmente. E potrebbe darsi che la cosa le si ritorca contro. Sì, perché ormai aspettiamo ogni suo nuovo disco senza nessuna particolare suspense, senza un briciolo di batticuore, senza il minimo, ragionevole, salvifico dubbio: sappiamo che sarà un ottimo album, composto bene, suonato bene, prodotto meglio. Ironico e sexy, ma allo stesso tempo impegnato e tagliente: al passo con i tempi, se non avanti. Punto. In pratica ci troviamo di fronte a una di quelle secchioncelle del liceo che prendevano sempre otto anche studiando poco, semplicemente perché erano più intelligenti di noi. Una roba al limite del fastidioso che ti verrebbe voglia — in sede di recensione, quella potentissima arma che nella nostra mente malata siamo sicuri possa cambiare le sorti di una carriera (come no) — di continuare a darle insufficienze in serie finché non si permette di tirar fuori un disco onestamente brutto, banale, deludente: in poche parole, umano. Brutta bestia, l'invidia.

Comunque, questo solo per dire che no: di quel momento — se mai arriverà — per ora non c'è traccia all'orizzonte. Masseduction è l'ennesimo album targato St. Vincent: composto bene, suonato bene, prodotto meglio. Sexy, ironico, tagliente e provocatoriamente impegnato: specchio di questi tempi malati e di quelli ancor più superficiali che verranno. Un misto di angoscia e malizia impacchettate benissimo ed esposte in vetrina come forma d'arte saturata in technicolor. Accessibile ma stimolante, Masseduction punta il dito — con fare accusatorio quanto civettuolo — verso un genere aromatizzato allo zucchero filato (noto al grande pubblico come "pop") e allo stesso tempo ci affonda dentro le radici senza nascondere la goduria che prova nel farlo, rimanendo dolcemente impantanato, ma uscendone comunque tirato a lucido come un completino aderente in latex. È, in fin dei conti, un tentativo più che giustificato, di prendere la Clark, sfilarla senza strappi dal suo bozzolo di culto di nicchia e portarla — il passo è breve, lo sforzo irrisorio — allo stato conclamato di mass seductress.

Insomma, per il nostro ego, come suol dirsi, piove sul bagnato: quella secchioncella di cui sopra, oltre che la più brava della classe, stai a vedere che diventa pure la più figa.

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Hang On Me

Masseduction

Los Ageless

28

Mount Kimbie

Love What Survives

E se non sopravvive niente, meglio

Dominic Maker e Kai Campos hanno iniziato con qualcosa di simile alla dubstep, poi sono stati tra i primi a mandarla in pensione iniziando a inzuppare le zampe nelle sabbie mobili di quella che in molti hanno definito post-dubstep e ora salgono in piedi sulla sua carcassa (della dubstep, dico — e anche della post-dubstep, forse) e ci rimangono sfoggiando un innaturale quanto navigatissimo equilibrio, mentre usano tutte le contaminazioni di genere che vengono loro in mente come specchietto per le allodole che ci impedisca di etichettarli.

Sì, perché andare a rovistare nel cassonetto della ridondanza esponenziale e inventarsi un "post post-dubstep" suona ridicolo a prescindere, ma parlando di Love What Survives, anche il semplice "post-punk with electronics" letto in giro da più parti non rende minimamente l'idea. Da un lato è vero che, sotto un punto di vista sonoro, questo album pare porsi sul serio come la risposta raffinata alla mai sazia (e soprattutto mai davvero morta) costante richiesta di post-punk revival — qualunque sia la forma che passa al convento — dall'altro è innegabile che il terzo lavoro a nome Mount Kimbie non può essere raccontato solo ed esclusivamente in termini derivativi. È troppo spinto per tirar fuori il termine dream-pop, ma allo stesso tempo troppo delicato e malleabile per l'oscurità di una qualche coldwave. Le drum-machine suonano come un batterista motorik autodidatta ma iperattivo, mentre i synth escono dal vecchio recinto Boards of Canada / Four Tet / Caribou per tornare a mischiarsi in una moderna eco campionata di Can / Faust / Cure, pur senza mai scolorire dal tutto il classico marchio Warp. Le voci degli ospiti fanno il resto, ovvero da trait d'union attraverso tutta la lunga lista di nuovi ingredienti (dal post-rock al drone, dall'R&B all'hip-hop) innestati nella ricetta con le dosi — esatte al milligrammo — sufficienti per cambiarne il sapore e uscire dal campo di una generica IDM per, diciamo, eccesso di intelligenza.

Più che semplice incrementalismo, questo è il suono di una progressione musicale programmata ed estremamente promettente, un tuffo molto meno avventato di quello che sembra a una prima occhiata in qualcosa che potrebbe risultare — a lungo andare — completamente nuovo.

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Four Years and One Day

Audition

Delta

27

Grizzly Bear

Painted Ruins

Democraticamente originali

Non tutte le band possono mettere in curriculum un endorsement pubblico da parte dei Radiohead, in particolare poche (ma buonissime) parole del solitamente taciturno Jonny Greenwood, che a suo tempo — introducendo i Grizzly Bear al proprio pubblico durante il tour di In Rainbows — li definì "my favorite band in the world". Motivo in più, questo, per applaudire Painted Ruins, quinto album di Ed Droste e compagni, che sancisce il loro ritorno in pista dopo le non si sa bene quanto fondate voci di scioglimento che nel 2013 avevano seguito il precedente Shields.

Dopo un inizio di carriera che li ha visti essere poco più che un progetto in orbita attorno all'ingombrante figura del frontman impegnato a scrivere album interi nella sua cameretta, oggi i Grizzly Bear suonano perfettamente sincronizzati, finalmente nei panni di una vera e propria band in cui ognuno porta il suo pezzo di pagnotta alla causa. Come se per loro la democrazia (qualunque sia il significato che vogliamo dare al termine) fosse quasi una specie di virus che, partito dalla testa, si è poi espanso su tutto il corpo. Il che li pone come un'entità quantomeno in controtendenza. Se infatti la storia recente ci ha insegnato qualcosa, è che qualunque forma di sovranità popolare è un affare incasinato: nonostante i suoi nobili ideali di rappresentanza e responsabilità, può essere lenta e ingombrate, oppure chiudere il cancello in faccia a buone idee mentre ne lascia altre sciagurate scivolare dalla porta sul retro. Anche la sua tanto celebrata tenuta stagna può essere fregata da qualche mela marcia e quando ce ne accorgiamo è sempre troppo tardi. I Grizzly Bear invece, con gli anni, hanno saputo far fronte alle difficoltà sviluppando una crescente forma di coesione che li ha portati a perfezionare un sound originalissimo e incredibilmente appetibile per i più svariati palati, perché leggibile e apprezzabile su più livelli. Ci sono ritornelli accattivanti da cantare sotto la doccia e complesse armonie studiate a tavolino, accelerazioni di un'immediatezza che diresti dozzinale mischiate a un immaginario lirico quasi barocco, stacchi inaspettati e giochi di parole.

Painted Ruins non si fa particolari problemi a unire la ballabilità dei migliori, vecchi Blur con quella decadenza semi-artefatta à la Divine Comedy, ulteriore testimonianza — ce ne fosse ancora bisogno — del modo "laterale" che i Grizzly Bear hanno di fare indie: prodigiosa (quasi artigianale) attenzione ai piccoli dettagli, mischiata a una specie di devozione per la melodia che garantisce loro la libertà di deviare verso tangenti sbilenche che sanno tanto di pop puro quanto di psichedelia for dummies. Il tutto senza perdere mai né una certa profondità nei testi, né un buona dose di ironia che dà alle loro creazioni un'inimitabile struttura non convenzionale, come puzzle troppo accattivanti per notare che manca — premeditatamente — una buona metà dei pezzi. Che poi, dire “manca” sarebbe ingiusto: semplicemente son nascosti. Dove? Probabilmente in un'altra delle tracce di uno dei loro dischi.

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Wasted Actress

Mourning Sound

Losing All Sense

26

Deerhoof

Mountain Moves

Mettete delle barzellette nei vostri cannoni

«Il disco di protesta dei Deerhoof», dove l'ho letto? Non mi ricordo, ma, sulla carta, è un concetto interessante. Nel corso di più di vent'anni di carriera la band di San Francisco ha dato tutte le prove possibili di essere dotata di un'inventiva singolare e del tutto peculiare. Il loro catalogo svaria come un trequartista d'altri tempi tra le linee di un noise incazzato fino a un power-pop buono per dei cori da stadio, alternando tackle primitivi a virtuosismi astrusi, sudati reportage rock'n'roll in presa diretta a immacolate performance da studio multitraccia. La giocosa spinta a decostruire che li porta a questi esperimenti senza soluzione di continuità è quella che allo stesso tempo ne definisce, oltre che il modus operandi, anche la cifra stilistica: difficilmente troveremo in un loro disco un power-chord pompato e diretto che non sia smontato da una melodia bambinesca da cantilena nel cortile della scuola, o un semplice ritmo charleston/rullante che la strofa dopo non diventi una grandinata di colpi ruggiti a bocca aperta.

Questi viziacci — affascinanti o alla lunga noiosi, dipende dai gusti, dallo stato d'animo o dall'angolazione da cui si guardano — sono un po' all'opposto dell'urgenza e immediatezza espressiva che in genere ci aspettiamo da un certo tipo di "rock politico". Quindi la prospettiva era intrigante: se davvero questi allegri burloni hanno barattato la loro stravaganza in cambio di chili di furore impegnato, cosa ne può essere uscito fuori? Col senno di poi, a domanda ingenua, risposta scontata: "the same old Deerhoof record", ovvero un disco completamente diverso da tutti gli altri dischi dei Deerhoof. In altri termini, Mountain Moves è sì un lavoro più attento di altri all'attualità, ma Greg Saunier e Satomi Matsuzaki hanno saggiamente evitato di sottoporre il loro sound a un pesante make-up serioso, preferendo invece affrontare l'orda degli oppressori usando come arma principale il loro lato più infantile e birichino. Ne è uscito un disco estremamente pop — dove per "pop", giusto per evitare fraintendimenti, si intende sempre e comunque la versione "Deerhoof" dello stesso, ovvero una collezione di melodie fatte di sgambetti, storture e incoerenze formali, che però ti entrano in testa senza volerne sapere di uscire, zoppicando per finta in attesa della ricreazione — che suona ottimista, fresco e sbarazzino.

Proprio questo suo rifiuto a prescindere di capitolare di fronte al pragmatismo imperante figlio della paura e dell'assenza di gioia collettiva, fa di Mountain Moves un disco che è davvero faticoso non amare, un disco che alla fine ti ci fa credere sul serio: chi lo dice che una rivoluzione estatica contro lo staus-quo è impossibile? Chi lo dice che andare alla guerra con i gavettoni non ammazza il nemico a forza di strazianti bronchiti? Chi lo dice che la musica non è più capace di muovere le montagne?

25

Protomartyr

Relatives in Descent

La logorrea di un mostro post-punk

Joe Casey, quando dice di mettersi a scrivere di buzzo buono, sicuramente non ha nulla da imparare da nessuno, ma non si può certo dire abbia il dono della sintesi. Peggio di me, per capirsi. Qua di seguito una lista — non esaustiva, ci mancherebbe — degli argomenti toccati nel suo ultimo pamphlet Relatives in Descent: cavalli parlanti, cactus che fioriscono solo di notte, la crisi idrica della città di Flint (Michigan), la tetra sterilità della gentrificazione dei sobborghi una volta malfamati (genericamente parlando), l'irrilevanza sociale di una certa fazione senza cervello di fan di Bukowski and so on. Potrei continuare. Casey lo farebbe di sicuro. O meglio: lo fa.

Poche band a oggi offrono una media di battute di testo a disco come i Protomartyr. Forse Guccini, ma non è una band, e comunque è un po' che non fa un disco, ancora di più che non fa un disco decente. Non stupisce quindi che anche il quarto album della band di Detroit sia, al solito, una saga logorroica strapiena di allusioni a tutto quello che viene in mente a un tizio abbastanza brillante da riuscire a mettere in musica ogni ragnatela che riesce a raccogliere negli angoli più reconditi del suo cervello. E provare a dargli un senso, ovviamente. Mica poco, in un mondo senza senso come quello che ci è toccato in sorte di viverci dentro. Con tutti i pro e i contro del caso, questo bisogna ammetterlo: nei pezzi dei Protomartyr infatti non sempre è scontato trovare un chiaro inizio, un incontrovertibile sviluppo e una fine annunciata, proprio perché la testaccia dura che comanda la baracca è più interessata alla storia che ai retroscena. E il problema è che nel conto dei retroscena ci mette anche la musica, o quantomeno una spesso troppo trascurata "forma-canzone". Quando funziona, è una figata, quando funziona meno la cosa sconfina nel disorientante e l'orizzonte si fa imperscrutabile, i passaggi sconnessi, la traccia sfortunata una specie di "crush-tin box" in cui stipare troppi concetti-sardina.

Per fortuna Relatives in Descent è uno dei dischi dei Protomartyr che meno si sbilanciano verso quest'ultimo scenario. Questo perché nel frattempo, mentre tutti si concentravano a parlare del frontman — anche a ragione: come non rimanere affascinati dalla storia di un portiere di notte che a un certo punto, più che trentenne e senza il minimo background musicale, decide di iniziare a suonare con gente di dieci anni più giovane di lui in una scalcinata band locale per diventare in un soffio uno dei fenomeni più apprezzati dell'indie degli anni Dieci? — i tre ragazzotti che stavano intorno a lui si sono progressivamente trasformati in una band con i controcoglioni: uno spaventoso mostro post-punk che non sbaglia un colpo. E vi assicuro che Relatives in Descent, di colpi, ne assesta non pochi.

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Caitriona

Don't Go to Anacita

Male Plague

24

Algiers

The Underside of Power

Ballare dietro le barricate

Il secondo album è sempre il più difficile: quante volte l'abbiamo sentito dire? Come in tutte le frasi fatte, nonostante la mancanza di originalità c'è del vero. Ma dopotutto la vita raramente è originale, la verità men che meno. Comunque, il secondo album, dicevamo: da un lato c'è la necessità di continuare a costruire una propria, ben definita identità a partire dalle fondamenta gettate con il primo lavoro, dall'altro qualunque scelta che potrebbe puzzare di "ripetizione" sarebbe subito additata con ribrezzo.

In questo senso, gli Algiers partivano dalla posizione più scomoda possibile: qualcosa di equivalente a un pilota di Formula Uno retrocesso di venti posizioni in griglia, con due ruote bucate e un incazzatissimo virus gastrointestinale che lo avrebbe accompagnato in gara. Sì, perché ripetere qualcosa di qualitativamente simile al loro omonimo debutto era una cosa obiettivamente impossibile: con tutto l'impegno e il talento di questo mondo, sarebbe comunque mancato un ingrediente imprescindibile — l'effetto-sorpresa. A differenza di due anni fa, tutti ci aspettavamo qualcosa mentre li aspettavamo al varco. Loro, in perfetto stile Algiers, non dico se ne siano bellamente fregati — visto che già concorrono per il premio "miglior gruppo politicamente impegnato dell'era-Facebook" — ma hanno comunque tirato dritto per la loro strada, salendo sui cordoli quando necessario e non considerando nemmeno per un attimo l'opzione di lesinare sportellate a chi capitasse in traiettoria. Gli ingredienti della ricetta non cambiano, ma — grazie al cielo — nemmeno la maestria che la band aveva dato prova di avere nel mescolarli: siamo sempre invischiati in un pentolone di manifesti da corteo, spietati striscioni di ferrea risolutezza, rivolte a suon di beat e rabbia dalle radici blueseggianti, e la cosa funziona ancora, invece di sapere già di stantio.

The Underside of Power è il suono di chi pretende di essere ascoltato, di chi, per una volta, vuole essere quello che alza la voce. Insomma, non proprio ritornelli da cantare in coro al campo scout o canzoncine da mettere in sottofondo durante un barbecue in giardino. Riferimenti a La peste di Camus, citazioni di T.S. Eliot, voci campionate di Black Panthers morte ammazzate e cori gospel industriale in cui la negritudine grida la vendetta che gli spetta: nessun dubbio che gli Algiers prendano il mestiere di musicista come una cosa seria. Ma la cosa inaspettata, il vero balzo in avanti, fuori dai binari già tracciati, è constatare come un disco così pesante, riesca a essere così, non dico ballabile, ma quanto meno cinetico, compulsivo, quasi — lo so, non è la parola giusta, ma è la più vicina al concetto che il mio piedino ha in mente, mentre batte il tempo inconsulto contro il pavimento — funky. Le linee di basso si agitano e si scuotono come un serpente a cui hanno tagliato la testa, le chitarre gracchiano qualcosa inaspettatamente comprensibile, mentre un pianoforte, più presente del solito, in parte addolcisce testi tutt'altro che leggeri da digerire, al punto che spesso non distingui se stai muovendo il culo a ritmo o se è il resto che ti sta smuovendo le budella con drammatiche conseguenze. Per il tuo culo, intendo. Potente, schietto, intenso: ancora una volta, non un ascolto facile, ma obbligato e alla lunga gratificante.

23

The Big Moon

Love in the 4th Dimension

Cameratismo pop e quote rosa

I Big Moon — anche se qui tocca dire per forza "le" Big Moon, visto che le quote rosa sono al 100% e non lasciano spazio a equivoci o polemiche di genere — hanno addosso qualcosa di elettrico che va oltre la musica. L'impressione è che abbiano stretto un legame tanto semplice e naturale quanto efficace: fondamentalmente son quattro figliole che si divertono a passare il tempo insieme, stanno bene le une con le altre, si fanno un sacco di risate e occasionalmente debuttano con un album che si piglia seduta stante una candidatura al Mercury Prize.

Deve essere per questo che Love in the 4th Dimension, nel suo essere niente di nuovo sotto il sole, suona così speciale. Che poi, "niente di nuovo sotto il sole": parliamone. L'indie-pop con le chitarre ormai è una cosa così rara che quasi sembra — almeno per chi ha disturbi di memoria a (non così) breve termine — una cosa mai vista e io sinceramente devo risalire alle Elastica — c'è qualcuno che si ricorda le Elastica? — per trovare qualcosa di simile, sotto il sole. Love in the 4th Dimension è, come si dice — c'è qualcuno che lo dice ancora? — un fulmine in una bottiglia. E la cosa interessante (sempre parlando di reazioni tra molecole) è che la bottiglia era piena non dico di benzina o qualunque altro liquido altamente infiammabile, ma almeno di una bella birretta da 7-8°, di quelle che ti imbriacano bene ma non benissimo. Cattura quel sentimento frivolo e liberatorio — c'è qualcuno che ancora rammenta che sapore ha? — che si prova quando ci si imbatte in una band che, al primo ascolto, ti diverte. Una band che lo fa dichiaratamente senza nessuna pretesa: anzi, che abbraccia tutte le sue imperfezioni per renderle parte del suo DNA. Gioca su risate, gridolini, rullate che imitano pernacchie e tutte quelle cose stupide che se fossero state tagliate avrebbero dato all'album un aura di pulizia secchiona che lo avrebbe semplicemente ammazzato.

Poi va da sé: scherzi — mai termine fu più adatto — a parte, se sotto la superficie non ci sono delle fondamenta fatte di buone canzoni, non si va da nessuna parte. Inutile dire che in Love in the 4th Dimension le canzoni buone ci sono, tutte, e le canterete a squarciagola dalle prime file dei prossimi festival estivi, felicemente abbracciati alla vostra migliore amica. Perché ci sono dei momenti in cui l'unica cosa che serve è una via di fuga: un mondo buffo in cui gettarti a capofitto quando hai bisogno di tirarti su. Niente di più facile: qua abbiamo quattro bitches pronte a offrirti un giro di bevute e qualche pacca sulla spalla. E giuro che lo fanno senza secondi fini: dopotutto il cameratismo non può essere simulato, e la puzza di affiatamento si sente da lontano. Se volete, potete chiamarla chimica: vi giuro solennemente, con una mano sul cuore e l'altra sul bancone del pub, che qua di chimica ce n'è più che dentro un laboratorio del MIT.

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Sucker

Pull the Other One

Formidable

22

Blanck Mass

World Eater

Disagio immacolato e appagante

Il lato positivo dei side-project — parlo senza cognizione di causa, non avendone mai avuto uno, anche solo per il semplice fatto che non mi son mai imbarcato seriamente in nessun project — è che ti offrono una specie di scappatoia verso cui incanalare le idee che per qualunque motivo (aspettative dei fan, brand identity, vergogna or whatever) pensi non funzionino per la tua band principale. Parlo senza cognizione di causa, appunto, ma credo di non sbagliare affermando che la cosa quantomeno calza a pennello sulle spalle di Benjamin John Power, la cui musica da solista dietro il moniker Blanck Mass suona sì come la metà dei Fuck Buttons, ma con delle ben evidenti differenze. Differenze che — manco a dirlo — fanno la differenza.

L'intersezione più che ovvia tra i due progetti è il muro di rumore elettrico contro cui vai a sbattere mentre ti avvicini a entrambi: è una cosa inconfondibile, che segna il marchio di fabbrica di BJP e ti permette di capire subito almeno in quale zona del futuro sei capitato. Però, mentre i Fuck Buttons prendono un'idea e ci ricamano lentamente sopra, aggiungendo a ogni passaggio nuovi nodi e fiorellini marciti, Blanck Mass ti sputa addosso tutto in una sola volta. Mentre i Fuck Buttons costruiscono la loro forza a strati, aggiungendo livello su livello fino a raggiungere quelli che qualcuno ha definito "skyscrapers of noise", Blanck Mass scatta subito in avanti, prendendoti prima a schiaffi e poi provando a spiegarti perché l'ha fatto. In questo senso, World Eater, va addirittura oltre qualunque cosa partorita fino a oggi da Ben Power: nel giro di sole sette tracce, vomita più di cinquanta minuti che alternano senza preavviso bastonate a carezze, fragore caustico che va a braccetto con passaggi melanconici quasi ambient e angeliche voci distese che non sempre riescono a compensare i pugni presi, violenti e abrasivi come carta vetrata.

World Eater è — per dirla senza metafore, nel senso quasi metal del termine — un disco brutale, il cui ascolto è un'esperienza che quasi metterebbe a disagio, non fosse così appagante. È la colonna sonora perfetta per questi tempi difficili, e li racconta — a suo modo — in una maniera che definirei immacolata: tonifica ma lascia lividi, si dichiara discordante e nera nei suoi temi principali, nascondendo però nelle ombre una fragilità che suona in fin dei conti confortante. Magari non raggiunge i picchi di danceability dei due precedenti lavori, ma con un paio di cuffie decenti e una notte in cui il vento ulula fuori dalle finestre, può rivelarsi un trip quasi trascendentale: bellissimo, se non considerate i danni — probabilmente permanenti — che quasi per certo vi lascerà in dote.

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The Rat

Silent Treatment

Hive Mind

21

Girls in Hawaii

Nocturne

Il bello di perdere la speranza

Forse dovrei andare a vivere in Belgio. È un po' che ci penso, ma — considerando il rapporto di popolazione con altre nazioni (una a caso, gli Stati Uniti) — una percentuale altissima delle mie band preferite vengono dalla patria di Magritte (dEUS e Soulwax su tutti) e raramente gruppi nati e cresciuti sulle rive della Schelda e della Mosa mi hanno lasciato indifferente, o men che meno deluso in qualche modo (penso ai Millionaire, ai Venus, agli Zita Swoon, ai Vive la Fête, ai Ghinzu, a Sharko, ai Black Box Revelation — potrei continuare, ma diventerei noioso). Tutte, tra l'altro, con caratteristiche diverse e — musicalmente parlando — poco in comune, tranne il Belgio, appunto. Quindi sì, deve essere per via di qualcosa che gli dan da mangiare e da bere da quelle parti (i cavoletti di Bruxelles, o le birre artigianali dei monaci trappisti), oppure son proprio io che sarei dovuto nascere lassù. Diciamo almeno in Lussemburgo (non vorrei chiedere troppo).

I Girls in Hawaii fan parte di questa storia. Forti di un nome che sembra una categoria di PornHub, arrivano nella mia vita ben prima di PornHub con il loro debutto del 2005 From Here to There (so che fate fatica a immaginare un mondo del genere, ma fino al 2007 PornHub non esisteva — così, ci tengo a sottolinearlo per dovere di cronaca), un disco semplicemente perfetto che dovrebbe essere il testo di riferimento per qualunque corso di indie-pop, e invece. Il secondo lavoro della band dei fratelli Wieselman, Plan Your Escape, non delude affatto e io già comincio a pronosticare per questa gente un avvenire di successo e per le mie orecchie un futuro di piacevoli ascolti. Come ogni volta che mi sbilancio in un giudizio, succede immancabilmente il patatrac. Nel caso specifico, il patatrac prende la forma del camion con cui Denis Wieselman fa un frontale nel 2010, rimanendoci secco. Il fratello Antoine — c'era da aspettarselo, direi — non la prende benissimo: come in un'emorragia da stress post-traumatico fa uscire due album nel giro di un anno (nemmeno troppo depressi, ma sicuramente confusi) e poi si chiude in un mutismo buono almeno per leccarsi le ferite. Capirete quindi la commozione con cui accolgo Nocturne, commozione che rimarrebbe confinata nel mio, di mutismo, se non fosse accompagnata dall'emozione con cui lo sento così buono, di nuovo. Il bello di perdere la speranza è che, nei rari casi in cui non c'azzecchi, poi la sorpresa è così indescrivibile che ti riconcilia con l'esistenza.

Odio i cavoletti di Bruxelles anche se so che fanno bene, amo le birre artigianali dei monaci trappisti, anche se so che tanto bene non fanno: la delicatezza della scrittura dei Girls in Hawaii invece mi è sempre servita da appiglio nei momenti più bui, perché fa bene e fa male allo stesso tempo. Ma non importa: la loro sensibilità profonda e corposa è un toccasana a prescindere, è un carillon che riecheggia nel Grand Canyon, quando ormai pensavi di sentirci solo ululati di coyote: non sai dov'è di preciso, ma l'importante è che, da qualche parte, sia.

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Guinea Pig

Overrated

Walk

20

Pile

A Hairshirt of Purpose

Il primo album dopo cinque album

Ci hanno messo dieci anni e cinque dischi, ma finalmente i Pile sono arrivati al loro primo album. Mi spiego meglio, anche se basterebbe una passata veloce attraverso la loro discografia per capire che la boutade è tale solo fino a un certo punto. A oggi, Rick Maguire e compagni si erano limitati (si fa per dire — mica poco) a rimpinzare ogni loro precedente lavoro con canzoncine meravigliose nella loro stortura, ma che spesso avevano non molto da spartire le une con le altre: promesse hit da classifica — se esistesse una classifica del pop inciampato e ben poco commerciabile — di cui innamorarsi all'istante, che però si son sempre rigorosamente (volutamente immagino) ben guardate dal condividere la famosa — spesso sopravvalutata — "visione d'insieme". Erano, insomma, il prototipo di quella che gli americani chiamano "a band of songs".

A Hairshirt of Purpose (titolo dell'anno, per distacco) invece butta nell'umido tutta questa teoria e segna il momento in cui la band di Boston trova l'altrettanto famosa quadratura del cerchio, sperimentando con successo una formula che le permette di regalarci un lavoro compatto, senza perdere un grammo del suo songwriting asimmetrico. Le canzoni sono ordinate secondo un criterio ben preciso, c'è una sorta di narrativa che progredisce di pezzo in pezzo, un'atmosfera che si espande per tutte e tredici le tracce senza però perdersi in aperta campagna e tutto è incorniciato da qualcosa di simile a un'introduzione e un finale: in altri termini, siamo di fronte a un vero e proprio album secondo tutti i crismi, forse per la prima volta nella loro carriera. È vero: i Pile continuano a dare il meglio di sé quando sono alle prese con slittamenti, rallentamenti improvvisi e brusche accelerazioni, momenti programmati con elasticità, indecisioni e incidenti di percorso, ma qui la loro bravura sta proprio nello smussare certi angoli senza perdere quella complessità concettuale che sa ancora di math-rock inzuppato nell'indie più classico. Sembrano a tratti gli Shellac suonati dai Pavement, lì seduti sul fondo degli stretti interstizi che si vengono a creare tra pesanti alternanze di minore/maggiore, felici nella loro sessione di nuoto libero in acque dai colori cangianti, ma sempre impegnati a tenere a bada improvvisi cambi d'umore, lasciandosi comunque un certo margine di diritto all'esuberanza.

Con A Hairshirt of Purpose, i Pile hanno deciso di dire basta al giochetto — in cui erano maestri — di smontare le canzoni solo per il gusto di farlo e sono arrivati con naturalezza alla morale della favola. Niente di epifanico, ci mancherebbe: solo un po' di buon senso senza costrizioni. Nel senso: viva l'improvvisazione, massimo rispetto per l'effetto sorpresa e guai a imbavagliare il libero arbitrio, ma anche dare un senso alle cose, nella vita, a volte, non fa mica così schifo.

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Ropes Length

No Bone

Dogs

19

Blaenavon

That's Your Lot

Una su dieci ce la fa

I Blaenavon hanno sempre avuto il tempo dalla loro parte. O almeno hanno sempre avuto il lusso di prenderselo — tutto il tempo di cui avevano bisogno — e di metterselo da parte. Non una fortuna da poco, nel macrocosmo che nostro malgrado ci circonda (per non parlare di quel suo sottoinsieme chiamato music business), dove la pretesa più innocua implica un semplicissimo (si fa per dire) "tutto e subito" e una buona percentuale di nuove band attraversa tutte la fasi del ciclo di vita di una star (protostella, gigante rossa, supernova, nana bianca, buco nero — ovvero una roba che il buon Dio a suo tempo aveva previsto durasse almeno qualche miliardo di anni) nel giro di quattro stagioni, non riuscendo a uscire viva dal trittico fatale "primo album + primo tour + cosa ci metto nel secondo album?".

Affacciatasi — nemmeno troppo timidamente — nella galassia dell'alt-indie britannico ormai più di cinque anni fa, la band dell'Hampshire se l'è infatti presa comoda e ha sfornato ben tre piccoli EP prima di arrivare — solo oggi — all'effettivo debutto sulla lunga distanza. Un modo un po' bislacco e del tutto personale di prendere le misure a se stessi che però — visto il risultato — mi sento di consigliare a tanti altri gruppi, prima che facciano la fine del 90% delle startup (che, si sa, fallisce entro il primo anno di età, in quella specie di infanticidio socio-economico di cui tutti parlano).

That's Your Lot è un disco innegabilmente vario e non del tutto focalizzato (come potrebbe essere diversamente? In fin dei conti è il frutto di della mente iperattiva di tre ragazzini inglesi che hanno passato sacrificato la loro adolescenza a pensare come realizzarlo), ma i cui pezzi — presi singolarmente — dimostrano da un lato una maturità compositiva che solo tempo (vedi sopra) poteva garantire, dall'altro una freschezza melodica così innata che nemmeno il tempo (vedi sotto) avrebbe mai potuto cancellare. A tratti pare quasi un post-rock cantato e suonato al doppio della velocità (che tecnicamente non sarebbe più post-rock, diranno i miei cari party pooper — ok, anche chissenefrega, direi io): le chitarre si alternano in flussi e riflussi che scivolano l'uno sull'altro toccandosi senza mai stridere e creando così un tappeto stratificato che raramente perde un vago senso di magnificenza. C'è il fatalismo pop degli Smiths che rimbalza sul rock giocoso dei Maccabees o dei Bombay Bicycle Club, aperture ariose di sei/sette minuti e secchi ganci al mento di due/tre: è come se Manchester si ritrovasse in Scozia, con tutti i disorientamenti del caso. Un'oretta di ottima musica che è una voce candida e confortante indirizzata verso il futuro. Un futuro imprecisato, che non sappiamo bene dove porterà. Ma non è lì il punto. Il punto — per una volta — è qui: right here, right now.

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My Bark Is Your Bite

Alice Come Home

Swans

18

Wire

Silver / Lead

Essere pop senza essere pop

Ogni volta che esce un nuovo disco degli Wire due reazioni simultanee e contraddittorie lo accompagnano a braccetto come una coppia di vecchine che di giorno vanno a far la spesa insieme e la sera se ne dicono di tutti i colori alle spalle: da un lato sai esattamente cosa aspettarti, dall'altro non hai la più pallida idea di cosa aspettarti.

Se non mi avete già candidato per il primo TSO disponibile nel reparto di psichiatria, provo a spiegarmi meglio: in quarant'anni di carriera la band londinese ha sviluppato e perfezionato un sound inconfondibile, ma è sempre riuscita a dare a quel sound forme continuamente diverse, declinarlo secondo schemi mai convenzionali, nutrirlo di idee innovative. Sono passati da colpi di frusta punk affilati come rasoi a definire la loro versione di post-punk (o come preferite chiamare quello che è venuto dopo il punk — ammesso che il punk sia mai esistito), da corteggiare le macchine con sperimentazioni industriali a un luccicante indie-pop che i giovanotti con Pro Tools craccato se lo sognano. Il tutto spesso all'interno dello stesso album.

Sento già le sirene in lontananza, quindi cambiamo argomento. Sì, ho detto "quarant'anni", non è stato un errore di battitura: pochi giorni fa il loro debutto Pink Flag ha festeggiato le quattro decadi e, per quel che mi riguarda, i discorsi potrebbero anche concludersi qui. Sentite Silver/Lead, paragonatelo — che ne so — all'ultimo dei Rolling Stones e traete le vostre conclusioni. Anticipo solo una domande scontata, anche se mai quanto la risposta. C'è qualcosa in questo album che suona come rivoluzionario? No, e non deve esserci. Però sfido chiunque, dopo quindici dischi, a sembrare ancora così genuinamente naturale qualunque sia la cosa che gli viene in mente di mettere su uno spartito: anche se nella vostra cieca ingratitudine vorrete considerare questo non come un album, ma piuttosto come una casa infestata dai fantasmi di ogni disco passato, sono sicuro che non avrete mai il cuore di mentire fino al punto di sostenere che non sia infestata con una precisione assoluta e un gusto da fare invidia a chiunque.

In un mondo — e in un mercato, quello musicale — a dir poco dominato da un impulso bulimico al cambiamento ad ogni costo, c'è qualcosa di estremamente confortante nel saper che una band come gli Wire esiste ancora, e ancora fa dischi di questo livello. Bisogna farsene una ragione e metterlo nero su bianco una volta per tutte: questo è uno dei gruppi inglesi (se non vogliamo addirittura allargare la visuale) più grandi di sempre. Nello specifico, il più grande gruppo pop che è riuscito a non essere mai, nemmeno per un attimo, pop sul serio.

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Forever & a Day

This Time

Sleep on the Wing

17

Formation

Look at the Powerful People

Pronti per la festa quando non è ancora cominciata

Non fatevi ingannare dal loro aspetto di bei giovanotti fighi e rock'n'roll, dalla loro giovane età e dalle loro giacche con le toppe e le spillette: i Formation son ragazzi tutt'altro che superficiali e disinteressati ai problemi della società moderna. Non esattamente quello che chiameremmo un "gruppo politicizzato", ma diciamo che, per sicurezza, meglio non romper loro troppo le scatole o provare a vender fuffa in giro. Sempre e costantemente sul pezzo, sono presenti e attivi su tutti i social network che vi possono venire in mente (ogni tanto si prendono pure la briga di scrivere dei post su Medium sotto le mentite spoglie di un codice fiscale — FRMTN — andando così a rimpinguare quel piccolo branco, sempre più sparuto tra i millennials ai tempi dei social, di militanti che sente il dovere di tramandare ai propri coetanei l'ormai quasi estinta arte del blogging — il che, ai miei occhi di vecchio, non fa che renderli più simpatici) e quest'anno sono usciti con il loro debutto sulla lunga distanza, quel Look at the Powerful People che, anche in termini musicali, procede spedito sui due binari appena tracciati — sexyness spontanea e impegno sociale — mischiando senza troppe remore, indie-rock, post-punk e elettronica abbastanza danzereccia.

In pratica è la cosa più "2003" che poteva uscire nel 2017, dove per "2003" intendo — generalizzando e sapendo di generalizzare — dance-punk, ovvero quel virus collettivo che attaccò i nostri centri motori quando la DFA iniziò a dettare le regole dell'essere cool e gli LCD Soundsystem si atteggiavano a rivoluzionari prendendo per il culo il classic rock, prima di — vedi il chiaroscuro ritorno di quest'anno — diventarlo. Comunque, senza cadere preda di facili sospiri retrò e pedisseque imitazioni, Look at the Powerful People ci ricorda che difficilmente, quando una guitar-band inizia a fare la corte al dancefloor, ne esce qualcosa di completamente da buttare.

Capisco che, a pensare a tutto quello che è successo nella storia della musica (dai canti gregoriani a Elvis, dalla psichedelia degli anni '70 al pop becero e sintetico degli anni '80, dal grunge al crossover, senza tralasciare splendide suite per clavicembalo e malsani tritacarne black metal), parlare di nostalgia nel caso di qualcuno che si rifà a un sound di inizio millennio suona quasi ridicolo, ma tant'è: i corsi e i ricorsi storici sono quasi un dato di fatto e la regola del ritorno delle mode passate ogni venti anni esatti praticamente una certezza. In questo senso i Formation rischiano di essere arrivati sul luogo della festa in leggero anticipo, e la cosa non è detto sia necessariamente un male: bisogna esser pionieri anche sulle onde del riflusso e non è da escludere che sia proprio per questo che, piantati nell'attuale momento storico in cui la maggior parte delle band indie-rock sembra fare poco più del classico "compitino", risultino, paradossalmente, così unici.

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Drugs

Powerful People

Buy and Sell

16

Cigarettes After Sex

Cigarettes After Sex

Elogio della monotonia

Visto che siamo in tema di classifiche, resoconti e contest inutili, diamo subito a Cesare quel che è di Cesare: i Cigarettes After Sex possono piacere o non piacere, possono far commuovere o gonfiare i maroni fino all'orchite, ma una cosa su cui è difficile non essere d'accordo è che band di Greg Gonzalez partirebbe senz'altro favorita in un ipotetico concorso a tema "Miglior nome per un gruppo indie". Hanno quel certo non so che indimenticabile e malinconico che ti scende addosso quando realizzi che una cosa bella è appena finita, ma mischiato con una malizia un po' paraculo che non manca di sottolineare che quella cosa bella non è che fosse proprio una roba platonica ma anzi, piuttosto naughty e piccante. Vanno a nozze con quell'atmosfera di cose non dette che rimane sotto le lenzuola, il piacere delle coccole e il paradosso che per completarle devi chiamare in causa un surrogato che se non ti fa venire il cancro ai polmoni, nella migliore delle ipotesi ti peggiora l'alito.

Sempre per continuare a dare a Greg quel che è di Gonzalez dobbiamo dire, a onor del vero, che coerentemente tutto questo si riflette nella musica che propongono: timide ballate lentissime che, come ogni relazione sentimentale, sono piene di contraddizioni, pur seguendo tutte le stesse dinamiche. Diciamo dream-pop perché in effetti di pop sognate si tratta, anche se a volte sconfina nello slowcore (lasciando all'hardcore, solo il ricordo di quello che era stato prima della fantomatica sigaretta) se non addirittura nella chillwave. Ho sentito qualcuno sbilanciarsi dicendo sprezzante: è un disco fatto ripetendo dieci volte la stessa canzone. Il che, a conti fatti, non è molto lontano dalla realtà. Il problema di un metro di giudizio così tranchant però, si inceppa quando la canzone in questione, quell'archè da cui tutto ha preso inizio — qualunque esso sia — è indiscutibilmente bello. In altri termini: quante volte, di un disco, vi siete trovati a riascoltare ripetutamente lo stesso pezzo, il vostro preferito? Quante volte di un libro avete riletto solo quella frase che avevate sottolineato col pennarello rosa? Quante volte avete rivisto un'unica scena di un film in loop fino a impararla a memoria? Ve lo dico io: mille volte almeno. Perché quell'impulso che vorrebbero farci credere necessario, quello che ci spinge a cercare sempre qualcosa di diverso, è in realtà intrinsecamente sopravvalutato, e una cosa che funziona dà più conforto di infinite sperimentazioni senza criterio.

Ci sono band sponsorizzate come i nuovi alfieri del glam rock che hanno ascoltato troppo David Bowie, altre che ci vengono vendute come una magia dell'indie-pop eppure hanno semplicemente sbavato tutta la saliva dietro agli Smiths, altre ancora che si annunciano come il ritorno del grunge ma in realtà devono ancora togliere Nevermind dal lettore CD. I Cigarettes After Sex, molto banalmente, prima di registrare il loro omonimo debutto hanno forse ascoltato troppo — ammesso che sia mai abbastanza — il loro primo EP. Un peccato di gioventù, indubbiamente, ma comunque già un passo avanti, nella vecchia querelle tra musica creativa e musica derivativa. Whatever that means.

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K.

Each Time You Fall in Love

John Wayne

15

London Grammar

Truth Is a Beautiful Thing

No news is fake news

Quella cosa del secondo album l'ho già detta, vero? Bene, capirete comunque da soli che può assumere diverse sfumature ed essere valutata da più punti di vista. Se nel caso degli Algiers parlavamo di un debutto con tutti i crismi del capolavoro — e quindi, come avrebbe detto Giovanni Lindo quando ancora batteva pari, di una "questione di qualità" — il discorso non è poi diverso quando andiamo sul piano più futile — ma non meno importante, inutile essere ipocriti — del successo commerciale. Quindi non è che la situazione di stallo già descritta assumesse contorni meno tragici per i London Grammar, perché in genere vale anche la regola aurea che la difficoltà del secondo album aumenta esponenzialmente in base alle vendite del primo, e non dimentichiamoci che i tre di Nottingham avevano debuttato con un LP che era stato nominato ai Brit-Award e in men che non si dica si era preso un doppio disco di platino. Quindi, riassumendo: ridefinire completamente il loro sound sarebbe stata un'idiozia a priori, ma allo stesso tempo già qualcuno storceva la bocca sostenendo che già i loro undici pezzi precedenti suonavano un po' tutti alla stessa maniera.

Sprechiamo dunque subito un paio di applausi per la loro scelta di prendersi una piccola pausa (quattro anni) per pensarci su, senza mettersi fretta e obbligarsi ad approfittare dell'innegabile quanto effimero hype commerciale che attorno a loro si era creato. Come era prevedibile, il tempo ha dato i suoi frutti e il risultato è un lavoro più maturo e sicuro dei propri mezzi, che sviluppa e approfondisce il precedente, invece che sedersi con un culo pesante e svogliato sui suoi allori. Non fraintendetemi: sempre di relazioni sentimentali andate a puttane e conseguenti incazzature e depressioni si parla, ma lo si fa con l'obiettività di chi è cresciuto e ha messo su un paio di chili di saggezza e una scorza un po' più resistente, che sia fatta di metallo o di cicatrici non importa. Più facile a dirsi che a farsi, perché sfido chiunque a essere obiettivo quando il focus è su quella brutta bestia chiamata fiducia. Che si parli di scrivere o leggere fake news su un giornale, così come di mettere o carezzarsi un bel paio di corna tra amanti, le sfumature sono innumerevoli quanto i livelli della scala del sentirsi traditi.

La verità è una cosa bellissima, sì. O forse dovremmo dire sarebbe, visto che ormai è diventata un personaggio mitologico. Truth Is a Beautiful Thing mette il dito nella piaga e prova a farlo più delicatamente possibile. La voce di Hannah Reid aiuta, il resto dipende da quanto le vostre ferite sono ancora fresche.

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Big Picture

Oh Woman Oh Man

Non Believer

14

Clap Your Hands Say Yeah

The Tourist

Una storia a lieto fine

Era il 2005, MySpace non era ancora diventato un simulacro glitterato di personal page di ragazzine in Comic Sans e il passaparola sui blog musicali ancora poteva cambiare le carte in tavola. A dirla tutta il concetto stesso di "blog musicale" poteva avere senso solo nel 2005, e i Clap Your Hands Say Yeah ne approfittarono, nessuno sa quanto premeditatamente. Con un nome che poteva risultare catchy solo nel 2005 e un disco di esordio registrato in casa fecero il botto entrando di diritto a far parte della scuderia di figliocci di Pitchfork che li onorò dei galloni di "grande band indie no matter what". Al tempo i CYHSY — un acronimo che poteva risultare catchy solo nel 2005 — erano a tutti gli effetti una band: cinque galli in un pollaio messo su da un gallo con la cresta più dritta degli altri. Poi è andata che di anno in anno, i tasselli si sono staccati a uno a uno: è andata che da quintetto son diventati un quartetto, poi da quartetto a trio, poi da trio a duo e infine è rimasto solo il gallo cedrone, che all'anagrafe è registrato come Alec Ounsworth. Il rischio di lasciarsi andare all'ultimo step del degrado progressivo — ovvero passare da one-man-band a una semplice idea o, peggio ancora, ricordo — immagino sia stato altissimo, ma Alec Ounsworth ha dalla sua un talento immenso e una caparbietà unica e, per invertire questo trend emorragico da crisi di Wall Street, ha optato per la soluzione più complicata: far uscire, da solo, nel 2017 quello che forse è il miglior disco dei Clap Your Hands Say Yeah dall'inizio dei tempi.

The Tourist è il colpo di coda di una mente creativa ancora in splendida forma, un "io non ci sto" di scalfariana memoria in versione DIY: una foschia di fondo fatta di chitarre, tastiere e piccole fregnacce elettroniche viene frullata da ritmi curiosi e gira attorno a delle linee vocali tipicamente "Ounsworth" per dare vita a minuscoli miracoli di pop non convenzionale, accennate rapsodie indie che scaldano il cuore e stimolano l'intelletto. Di ascolto in ascolto il substrato caliginoso si lascia guardare attraverso e rivela melodie grandiose nel loro essere emotivamente surreali, che lentamente crescono solide e sicure e che avrebbero fatto la loro porca figura in un disco degli Arcade Fire. Se gli Arcade Fire, quest'anno, non avessero invece optato per andare a pescare in un sacco diverso dello spettro delle figure possibili: quello delle brutte figure, intendo.

Una decina di anni fa i Clap Your Hands Say Yeah erano una modesta, traballante band che provava a cavalcare il cavallo imbizzarrito di un hype inaspettato senza aver preso nemmeno una lezione di trotto: oggi sono un'entità musicale forse amorfa ma splendidamente avventurosa, che si gode quella libertà unica che riesce a darti solo il sapere che nessuno ha aspettative di sorta nei tuoi confronti. A modo suo, una storia a lieto fine.

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The Pilot

Loose Ends

Ambulance Chaser

13

Spoon

Hot Thoughts

Come Nanni Moretti

Gli Spoon hanno sempre avuto questo grande pregio: sono fighi ma non te lo fanno pesare. In fin dei conti, credo sia quello che li ha salvati e che ha permesso loro di mantenere un livello impressionante di qualità nel corso di nove album infilati in serie senza sbagliarne uno con la monotonia di un campione di tiro a segno. In più di venti anni di carriera sono riusciti — non si sa bene grazie a quale incantesimo — a continuare a operare in un mondo tutto loro, godendosi un'acclamazione critica pressoché unanime, ma rimanendo sempre a chilometri di prudente distanza dal pericolosissimo, reale stardom. In pratica, in tutti questi anni, sono sempre stati nella stanza di quelli che contano ma si son ben guardati dall'essere i protagonisti della conversazione: il che, a conti fatti, è quello che ha permesso loro di essere l'argomento, della conversazione. Un po' come Nanni Moretti in Ecce Bombo, ma senza baffi.

Dopotutto, non è un caso se sono la band con la media più alta di questi cazzo di anni zero, in termini di recensioni, su Metacritic (sì, meglio di gente come Radiohead e White Stripes — buffa la matematica quando si fa opinione eh?). Credo sia per questo che, grazie a Hot Thoughts, sono stati gli unici che hanno superato senza particolari ricadute un'infezione acuta i cui sintomi rimandano tutti a un ceppo influenzale che quest'anno sembra fare ben pochi prigionieri. Potremmo chiamarla la "sindrome Arcade Fire", ovvero una roba fulminante che in men che non si dica ti porta a funkeggiare in maniera molto "Seventies" su una pista da ballo plasticosa e caleidoscopica, immersa un'atmosfera ebbra di discorsi stroboscopici gridati in falsetto. In molti ne sono usciti con le ossa rotte (vedi gli Shins), mentre Britt Daniels e compagni hanno preso il virus per le corna e l'hanno piegato, anche senza antibiotici, al loro bisogno, rigirando la frittata a loro favore con risultati eccellenti. Mi verrebbe da dire che è una questione di sincerità, principalmente: è quella che ti fa sviluppare solidi anticorpi. Non dico "pochi fronzoli e via andare", ma fronzoli quando servono e mai caso: nessuna mitologia da costruirsi attorno né calvario da sudare per finta, nessun obiettivo nobile o idealista se non divertirsi a suonare e a fare buoni dischi. Pare una banalità, ma fare dischi buoni aiuta a fare buoni dischi, nel senso che dà fiducia nei propri mezzi, ci prendi gusto e ti viene sempre più facile. Anche — e soprattutto — senza grandi salti carpiati o bisogno di dimostrare niente a nessuno: basta qualche piccola variazione sul tema quando ti pare ci stia bene, o qualche virtuosismo sotto banco senza doverlo per forza sbandierare ai quattro venti.

Hot Thoughts prende questo mantra di base e lo spinge in una direzione più funk e freestyle, ma la prima cosa che percepisci è sempre e comunque una ben definita impronta digitale: un marchio con scritto "Spoon" grosso così. Sì, c'è una paccata di campioni di batteria che pagano dazio all'hip-hop, un po' di elettronica downbeat, addirittura due pezzi strumentali di cinque minuti e una coda che dir jazz è poco. Ma alla fine la storia vera la raccontano ancora chitarre, basso e batteria. Alla fine, grazie a Dio, quello che rimane sul fondo della tazzina è sano, onesto, ottimo rock'n'roll.

12

Lana Del Rey

Lust For Life

Lo scheletro nell'armadio

Sì, avete letto bene: Lana Del Rey. Ognuno ha i suoi scheletri nell'armadio, si sa. Io, per esser precisi, nel mio armadio ho così tanti scheletri che li uso al posto delle grucce per appenderci pantaloni e camice: bellissimi scheletri vestiti di tutto punto messi in fila uno dietro l'altro come fossero manichini di H&M per la vetrina della sera di Halloween. Lo scheletro con il cappello da cowboy è Madonna, quello con i capelli colorati è Pink, questo qua subito accanto alla busta della naftalina, vestito come una Marilyn Monroe dei poveri, è Lana Del Rey. Ammetto, la pop-culture non è proprio cosa mia, ma ogni disco di Elizabeth Grant ha qualcosa che mi frega, che mi schiaccia un punto debole o che si infila in qualche breccia che mi ero dimenticato di sorvegliare: in primis lo scollamento totale che percepisco tra il mio sentire personale e tutta una batteria di critica indie che la vede come un prodotto commerciale artefatto e abilmente creato a tavolino.

Ecco, io invece ogni volta che sento un suo disco faccio una fatica del cristo a non percepire una sorta di (quasi ingenua) autenticità: non che il messaggio sia particolarmente profondo o messianico, ma diciamo che se devo scegliere tra il "ci è" o "ci fa", butto tutto il montepremi sul "ci è" senza pensarci un attimo. Come una popstar d'altri tempi intrappolata in una navicella spaziale atterrata per sbaglio sulle colline di Hollywood nell'era della musica in streaming e degli afterparty sponsorizzati, fin dai tempi di Born To Die — schietto ma disinteressato, artificiosamente fatto in casa, spettrale nell'atmosfera ma irresistibile come un messaggio in una bottiglia comparsa a riva per ragioni ancora ignote — non ha dimostrato la minima incertezza, né la tentazione di sedersi sulla poltrona massaggiante del successo ottenuto. Al contrario: moltiplicando il suo campionario di sfumature blues e black, ha partorito un trio di dischi ombrosi, densi, quasi radio-agnostici direi, che prendono senza indugi le distanze — nel senso che balzano un paio di spanne sopra — da qualunque suo collega nel settore del pop mainstream e confermano la mia impressione iniziale: è tutto vero. Ogni parola, ogni sospiro languido, ogni crescendo di archi, ogni citazione di Whitman da un lato, ogni rima tra "Salvatore", "calciatore" e "ciao amore" dall'altro. Rimango convinto che Lana Del Rey abbia una capacità tutta sua di raccontare storie, il che, per una cantautrice, non è cosa da poco.

Che ci piaccia o no, attualmente è l'unica vera, grande American Storyteller in grado di raggiungere un pubblico praticamente universale senza dover per forza twerkare il suo messaggio. Lo fa con quel sorriso narcotizzato figlio dello Xanax, quel suo culto quasi mitologico dell'iconografia USA e quell'aura di favola tormentata che solo lei riesce a spruzzare sopra gli argomenti che affronta. Il fatto che sia capace di farlo sia quando dipinge le contraddizioni della società attuale che quando sembra rubare i versi a una bambina di tredici anni che scrive alla posta di Cioè, va soltanto ad accumulare il mucchio degli indizi che portano alla conclusione che non mi vergognerò mai — qui lo dico e qui lo nego — di ribadire: questa è brava. Brava sul serio.

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Love

Lust For Life

Heroin

11

The New Year

Snow

Fuori tempo e fuori luogo

Benché nessuno se li ricordi, i Bedhead sono stati un quintetto di Dallas che dal 1991 al 1998 ha speso la sua esistenza a scavare con lentezza e ostinazione la sua piccola nicchia nel cuore di pochi appassionati. Mentre gruppi potenzialmente similari come Pavement, Sebadoh e Yo La Tengo facevano da headliner nei maggiori festival americani e si garantivano una nomination nei libri che raccontano la storia dell'indie-rock, la band dei fratelli Kadane rimaneva nell'ombra, come un seme che, sotto una spessa coltre di neve, non aveva nessuna voglia di sbocciare, con le sue atmosfere malinconiche e posate, quasi in bianco e nero, sempre un passo indietro rispetto alle tonalità colorate del tempo.

Oggi, a venti anni di distanza, non si può certo dire che il cambiamento sia una cosa che viene facile a Matt e Bubba Kadane, visto che i New Year, più o meno — non che la cosa dispiaccia, sia chiaro, anzi — altro non sembrano che i Bedhead con una nuova sezione ritmica. Anche la fretta non è una cosa che propriamente caratterizza l'animo dei due texani, visto che Snow arriva quasi dieci anni dopo l'omonimo debutto del 2008. Registrato a pezzi nei ritagli di tempo, rilavorato e rifinito innumerevoli volte, è — esattamente come qualunque altro disco su cui hanno messo la mano i Kadane in precedenza — un lavoro spartano, ponderato, progettato con calma e smussato artigianalmente. Un racconto espanso e arioso, che mai ti mette (né si mette) fretta, che lascia a ogni nota lo spazio dovuto e considera attentamente ogni sillaba. Con le mode che cambiano a un ritmo forsennato e il progressivo disinteresse collettivo per un certo genere di sonorità è difficile dire quale impatto possa avere un'opera del genere sulla scena attuale: probabilmente nessuno. Questo è un disco fuori tempo e fuori luogo ed è un dato inconfutabile il fatto che i New Year ci abbiano regalato il loro lavoro migliore con almeno quindici anni di ritardo. Rimane il piacere di essere qui presenti ad accoglierlo e a riconoscergli il merito che gli sarebbe dovuto.

Perché alla fine, poco importa: non c'è niente di sbagliato nel ventunesimo secolo che non lo fosse già nel ventesimo, quindi è difficile trovare un motivo valido per preoccuparsi di un aspetto sovrastimato come il tempismo. Ringraziamolo e teniamocelo stretto, allora, un album così, che sa quanto tirare la corda prima che si spezzi e che soprattutto sa quando tirarla quel tanto in più per farla spezzare sul serio. Lo sa e non ha paura a farlo, visto che la sua bellezza sta proprio nel fatto che quel momento lo trova praticamente in ogni canzone: un singolo perfetto istante in cui perdere il filo e lasciarlo a fluttuare nell'aria controluce, con il cielo sullo sfondo. È esattamente lì, in quell'ondeggiare languido ma tutt'altro che liberatorio, vecchio come il mondo, che Snow trova la sua ragione di essere. Come noi tutti, del resto.

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Recent History

Amnesia

Dead and Alive

10

Courtney Barnett & Kurt Vile

Lotta Sea Lice

Io, lei e quell'altro

Kurt & Courtney l'avete già detto, vero? E anche tutta la serie di sagaci paralleli tra la peggior accoppiata degli anni Novanta e la miglior liaison di questi ultimi tempi, tutti i ringraziamenti al cielo per questa nuova versione sana di Sid & Nancy, tutta la sfilza di senni di poi su quanto fosse inevitabile questa corrispondenza d'amorosi sensi slacker: arriverei già secondo su tutta la linea, giusto?

Bene, allora, per dispetto, contro ogni legge dei grandi numeri, mi concentrerò solo su una faccia della medaglia. Tanto è ben noto che ho un debole per Courtney Barnett, e quindi sarà altrettanto semplice capire quanto avrò rosicato a vedere il suo talento unico — quello di buttar giù canzoni pressoché perfette travestendole da conversazioni di tutti i giorni che sembrano registrate per caso, inserendo una quantità inverosimile di dettagli narrativi nel giro di due strofe — al servizio di un altro, scoprirla a condividere con un altro la sua passione per le chitarre Fender, il suo intercalare languidamente svogliato e strascicato, il suo umorismo nero e tagliente. Un altro che è sempre lo stesso, tra l'altro. Un altro con quel naso lì, poi. Brutta bestia, l'invidia. Fortuna che qui — a differenza della maggior parte delle accoppiate musicali uomo/donna — non c'è traccia di romantici giochi delle parti, sfacciati doppi sensi, rime a due voci alternate ma sempre cheek-to-cheek, falsi brividi svenduti per tensione drammatica da playlist hipster durante una serata karaoke al bar dietro l'angolo. Lotta Sea Lice è una roba che conquista e lo fa con quell'atteggiamento tipico di Courtney, ovvero con la faccia non tanto di chi sa e vuole vincere facile, quanto piuttosto quella di chi si ritrova addosso un'innata facilità a vincere con il minimo sforzo. Dove per "vincere" non intendo qualcosa che ha a che fare con classifiche e trofei, ma un caracollare obliquo e intenso che alla lunga crea il vuoto alle sue spalle e genera cascate di cuoricini, per distacco. Come quegli animali buffi che vedi su internet (che ne so — il procione, o il vombato): è strano, a tratti impacciato, spontaneamente accattivante e semplicissimo da amare fin dal primo ascolto.

Tocca poi ammettere a malincuore che anche quell'altro (quello con il naso di Pippo Franco, dico) nel ruolo di pezzo mancante per eccellenza — ovvero il pezzo che si va incastrare alla perfezione in questo puzzle for dummies, fatto di due sole parti — ci sguazza alla grande e calza a pennello dal lato giusto della (mica tanto) strana coppia, come la scarpina di cristallo di Cenerentola, ma in versione Converse All-Stars. Perché sì, nonostante la botta di sangue al cervello causata dalla gelosia, sono ancora capace di rendermi conto che in tutta questa sviolinata non ho ancora detto una parola su Kurt Vile. Il che, per un disco licenziato a nome "Courtney Barnett & Kurt Vile", immagino possa risultare un po' bizzarro. Quindi ok, va bene: bravino anche lui.

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Over Everything

Fear Is Like A Forest

Blue Cheese

9

Mark Eitzel

Hey Mr Ferryman

Il vero ottimismo è non esagerare con l'ottimismo

Credo ci sia un momento particolare, nella carriera di un artista solista, una specie di turning point che non tutti raggiungono, ma che in qualche modo segna uno shift in avanti improvviso, non importa quanto graduale sia stata la tua crescita. Me lo immagino come quell'istante in cui stai seguendo qualcuno in macchina: non sai la strada e quel qualcuno si è offerto di accompagnarti fino a un incrocio oltre il quale poi saprai orientarti meglio. Parlo di quell'istante, all'altezza di quell'incrocio, in cui lo affianchi, fai un cenno di saluto, magari una sfanalata allegra con gli abbaglianti se è notte, e poi schiacci il gas e lo superi: grazie mille, ora posso proseguire da solo. È quel momento, nella vita di un artista, in cui ti rendi conto che la tua carriera solista è ormai più lunga di quella che hai dedicato alla tua ex-band.

Gli American Music Club sono stati attivi dal 1983 al 1994, per poi sciogliersi e riformarsi nel 2003, e infine chiuderla definitivamente due anni dopo: nemmeno quindici anni effettivi, diciamo pure venti lordi. Ecco, Mark Eitzel quel ventennale — nelle vesti di Mark Eitzel, dico, non in quelle del cantante degli AMC — l'ha superato da un po', eppure non tradisce emozioni particolari, non fosse per quel «I love you, but you're dead», buttato là così come stesse dicendo «Cara, cosa c'è per cena stasera?». Perché ok, puoi metter su tutte le poker face che i tuoi sessant'anni ti hanno lasciato in dote, ma è innegabile che in quel momento preciso qualche pensierino al fatto che ti rimangono meno giorni di quelli ormai hai speso ce lo fai per forza. Ma Mark Eitzel non è il tipo che si scompone di fronte alla fine: col suo registro rauco a metà tra un sussurro e un crooning, riempie — quasi scaramanticamente — le sue canzoni con personaggi in bilico sul filo della trasparenza, desiderosi di scomparire, indecisi tra un esistere per sentito dire e il niente. Mark Eitzel, con la sua poetica, non fronteggia la morte: ci inzuppa i piedi e poi si immerge e torna in superficie come se nulla fosse. Così, quando all'inizio di questo album, il triste mietitore viene a prenderlo, non si mostra particolarmente turbato: chiede solo di finire il drink che ha cominciato e si informa preventivamente se anche dove lo stanno portando ci sarà qualche festa.

Sarà questo atteggiamento disincantato, sarà quel messaggio nemmeno troppo nascosto che ci dice che essere ottimisti non necessariamente significa credere che tutto andrà per il verso giusto, sarà — come cantava la buona Tiziana Rivale, un'altra che per come è scomparsa senza dire niente poteva tranquillamente essere uscita dalla penna del cantautore di San Francisco — «quel che sarà», ma Hey Mr Ferryman ti prende piano piano alla sprovvista, in maniera subdola, come un amo che annusi per ore prima di decidere ti addentare, consapevole dei pro e dei contro. Tu sei il pesce, l'esca è quell'idea assurda che Eitzel ti insinua in testa, ovvero che riuscire a vedere sempre e comunque la luce alla fine del tunnel non porta automaticamente a vedere il lato positivo della cosa. Soprattutto se ti fermi un attimo a realizzare che tu, del tunnel, sei solo all'inizio.

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The Last Ten Years

An Answer

La Llorona

8

Mogwai

Every Country's Sun

Il miglior disco dei Mogwai

Coolverine la più bella canzone dei Mogwai. Dico sul serio: non è una provocazione. E lo dico a cuor leggero, senza impegno, con la self-confidence di chi è sicuro di non sbagliare. Lo dico con quello sguardo allo stesso tempo ingenuo e sornione di chi ha trovato il trucco buono per non scegliere e non si vergogna di ammetterlo, di chi ha capito che il valore che diamo all'unicità di una cosa (di qualunque cosa) è un investimento a perdere, di chi sa che l'esclusività di una definizione (una qualunque definizione) è un plus che ormai fanno fatica a considerare tale anche i collezionisti più sgamati. Coolverine è la più bella canzone dei Mogwai. La più bella canzone dei Mogwai sono almeno cinquanta canzoni. Forse qualcuna in più. I Mogwai, Coolverine, la loro canzone più bella, la sprecano subito in apertura del nuovo Every Country's Sun, così, a cuor leggero, senza impegno, con la self-confidence di chi è sicuro di avere sul piatto un disco fatto di almeno una decina delle più belle canzoni dei Mogwai.

Non c'è molto altro da dire che non suoni stupido di fronte a questi dati di fatto. Negli ultimi dieci anni, attorno ai Mogwai son ronzate ripetutamente le stesse, filosofiche domande: riusciranno a andare oltre un genere che hanno contribuito a creare (il cosiddetto guitarmageddon dei primi dischi)? E se sì, lo faranno contribuendo alla causa con qualcosa di genuinamente interessante? La risposta a entrambe le domande è un monolitico "chissenefrega". Cioè, tecnicamente parlando, la risposta a entrambe le domande è un granitico "sì", ma il concetto è che — soprattutto per una band con venti anni di carriera sul groppone, soprattutto per una band associata a un sound così particolare, che ha più emulatori che muse ispiratrici — la vera domanda dovrebbe andare a indagare non tanto cosa si suona, ma come lo si suona. Ecco, nell'ultimo album dei Mogwai (ri)suona la stessa convinzione impertinente che troviamo in tutti i loro dischi precedenti, la stessa sfacciata, cruda, sincera claustrofobia di un volume magistralmente compresso per anni in spazi strettissimi, la stessa inguaribile necessità di prendere la cosa estremamente sul serio, come fosse una questione di vita o di morte. Non importa quanta distorsione ci metti dentro, se il muro di suono che ti colpisce è di cemento armato o di gomma piuma, se la tua palette di colori ha visto aggiungersi sfumature diverse, se la religione delle suite strumentali vede eccezioni che confermano la regola o la ribaltano piacevolmente: Every Country's Sun il nono album dei Mogwai, è — senza ombra di dubbio — l'album più bello dei Mogwai. Va da sé che l'album più bello dei Mogwai sono, allo stato attuale — almeno fino al prossimo diciamo — nove album, né uno più né uno meno. Ma che ve lo dico a fare.

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Coolverine

Brain Sweeties

Old Poisons

7

UNKLE

The Road: Part 1

Meglio soli che ben accompagnati

James Lavelle è un po' l'Elizabeth Taylor del trip-hop: la sua creatura UNKLE è passata, nel corso di 25 anni, attraverso almeno quattro matrimoni iniziati con grande entusiasmo e finiti male, lasciandoci in dono altrettanti album che, ascoltati oggi, uno dopo l'altro, suonano belli e dannati come dei fratellastri che si assomigliano quel poco che basta per dire che sì, la mamma è la stessa ma — come si usa malignare — sul papà meglio non sbilanciarsi troppo. Ogni volta, stagione dopo stagione, con caparbietà invidiabile, l'idea UNKLE si è reincarnata in qualcosa di diverso, anche se mai a caso e costantemente al passo con i tempi, trasformando così un potenziale punto debole in tratto caratteristico e diventando ufficialmente l'esempio più eclatante di "progetto collaborativo" o, come fa più fico definirlo, "collettivo musicale".

Questo fino a ieri, perché negli ultimi tempi possiamo dire che il collettivo ha esaurito il collante e perso un po' di pezzi fino a collassare nel nucleo originale. Cosa, questa, che può avere i suoi lati positivi e negativi. Tra i primi sta sicuramente l'occasione di poter iniziare a guardare al futuro con una certa uniformità di visione, invece che progredire campionando quello che siamo stati, seppur con innegabile perizia.

Qualcuno ha argutamente scritto:

1998's hip hop watermark Psyence Fiction left UNKLE living in a certain DJ's shadow.

Mac McNaugthon

Ecco, con The Road: Part 1 James Lavelle esce definitivamente dall'ombra di quel fenomenale debutto e inizia a proiettare la propria, riuscendo finalmente a partorire un vero e proprio "UNKLE record" e non la versione di qualcun altro di un disco degli UNKLE. Non dico che possiamo riassumere il tutto con drastico "meglio soli che male accompagnati" e lungi da me il pensiero di negare l'importanza di Joshua Davis e dei vari Tim Goldsworthy, Richard File e Pablo Clements nelle produzioni passate, però la sensazione di sollievo e liberazione qui è presente fin da subito, ancor prima di essere sicuri di aver davvero chiuso tutti i conti con quel che è stato, ma solo per il fatto di aver deciso di iniziare a farlo. Non che manchi una nutrita schiera di ospiti, ma sarebbe stato un errore madornale pretendere il contrario: la raffinatezza dei dischi degli UNKLE sta proprio nel modo, nella perfezione e nella naturalezza con cui ogni pezzo risulta vero (quasi fosse proprio scritto da lui) se associato al relativo guest, ma allo stesso tempo sempre palesemente attorcigliato attorno allo scheletro di un ben preciso e riconoscibile "UNKLE sound". Ovvero nel lavoro di orchestrazione e rifinitura sartoriale che Lavelle stesso riesce a fare, non si sa bene in quale ordine: sceglie l'artista e gli cuce addosso il vestito oppure compone la musica e poi ne trova il perfetto interprete? Vista la qualità del risultato, direi che la risposta può passare in secondo piano.

6

Oxbow

Thin Black Duke

La voglia di non darsi per scontati

La bella notizia è che gli Oxbow son tornati, quella brutta è che ci han fatto aspettare dieci anni. Per la prima ringraziamo il cielo, per quest'ultima invece mandiamo due accidenti a Joe Chiccarelli, storico produttore della band che se l'è tirata tantissimo prima di trovare due settimane libere per tornare dietro il vetro dello studio di registrazione dei vecchi amici e dare alla luce questo Thin Black Duke, che sì cita David Bowie nel titolo, ma solo per rivoltarlo come un calzino e tirarne fuori il lato oscuro. Come al solito ogni tentativo di etichettatura va a farsi benedire: chiamatelo noise, chiamatelo avant-garde, tirate in ballo un generico experimental o mettete tutto sotto i soliti cappelli a larghe tese del rock o del punk. Metteteci pure un pizzico di quell'antagonismo free-jazz degli ultimi Black Flag, o fate la faccia dei sommelier navigati che aspettano un cenno di retrogusto per poi esclamare soddisfatti: «Mr. Bungle!» (aggrapparsi al ricordo di uno degli apparentemente sconclusionati progetti solista di Mike Patton para sempre il culo quando non sai come categorizzare qualcosa), tanto finirete comunque per gettare la spugna: niente funziona a pieno ed è sufficiente per descrivere il livello di scrittura ormai raggiunto dai quattro di San Francisco.

Thin Black Duke è questo e altro, e per l'ennesima volta non si fa remore ad alzare ulteriormente l'asticella, essendo dichiaratamente ispirato — in termini di metodo compositivo — niente meno che alle Variazioni Goldberg di Bach, facendo propria quella tecnica formale della musica classica che prevede di prendere il briciolo di un'idea, un kernel armonico, e reiterarlo, ogni volta cambiandolo di un niente, espanderlo e troncarlo, fino a creare una frase musicale completamente permeata del profumo di quel piccolo seme iniziale. Un processo complicato e fuorviante, così come fuorviante e complicato può essere l'approccio a un disco del genere, che a un primo ascolto pare buttato giù senza una minima idea di "strofa-ritornello" in testa, quasi come un gesto di sfida nei confronti dell'ordine rigoroso che dovrebbe stare alla base della materia di cui stiamo parlando. Ma si sa, il primo ascolto raramente ce la conta giusta, soprattutto in casi come questo, dove quell'impressione tanto affrettata quando infelice è niente altro che l'esatta testimonianza di quanto si è spinto avanti il marchio di fabbrica degli Oxbow, ovvero quel bilanciamento studiatissimo di tensione e rilascio, armonia e dissonanza, astrazione e melodia.

Thin Black Duke suona allo stesso tempo come una band che ha discusso e concordato ogni singolo dettaglio di ogni singola canzone, così come una che non ha idea di quale sarà la prossima nota: ogni strofa fa breccia in un nuovo territorio, ogni passo calpesta foglie ignote che non sai come scricchioleranno. Solo i grandi riescono a confezionare tutto ciò in qualcosa che ti lascia a bocca aperta, perché c'è bisogno di andare a pescare in uno stagno che sta a metà tra il talento e la voglia di non darsi per scontati. Avremmo voluto sentirlo da dei ventenni incazzati e cazzuti, invece che da gente ormai brizzolata e un po' demodé, costretta per forza di cose a tirare ancora la carretta. Ma temo che sarebbe stato chiedere troppo. Sarebbe stato come chiedere a qualcuno che ancora non è arrivato a studiare il teorema di Pitagora, di disegnare uno splendido frattale.

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Cold & Well-lit Place

Ecce Homo

Host

5

Pontiak

Dialectic of Ignorance

Homebrewing

I tre fratelli Carney hanno le radici lunghe, solide e ben piantate in un posto dell'anima che sta a metà tra le Blue Ridge Mountains (Virginia) e i Black Sabbath. Un posto che se stesse in Norvegia, dalle parti di Trondheim, si chiamerebbe Motorpsycho. Arrivati al decimo disco sotto l'ala della Thrill Jockey, hanno ormai maturato — a suon di badilate da tre chili di pesante, profondo e pestato acid-rock — una fanbase così devota e una consapevolezza dal piglio improvvisato e blues che li ha portati a quel punto di non ritorno in cui potrebbero fare più o meno qualunque cosa senza perdere nemmeno un punto percentuale di credibilità di fronte al proprio, fedele pubblico. Per dire, a sentir loro, avrebbero passato gli ultimi tre anni a produrre birra artigianale fatta in casa, eppure questo non ha minimamente intaccato (sempre di artigianato purissimo si tratta) il loro tocco nel comporre cavalcate psych che fanno il percorso inverso del peyote, la cui assunzione regolare — qualcuno sostiene — sia l'unica spiegazione plausibile per la naturalezza con cui i loro riff ossessivi ti ampliano, diciamo, le vedute.

Dialectic of Ignorance (che già di per sé starebbe sul podio di un'ipotetica classifica dei migliori titoli possibili da dare a un album) è un'esplorazione espansa, pensata e cucinata a fuoco lentissimo, del modo migliore per macinarti prima la pancia, poi il midollo spinale e solo alla fine salire a vedere cosa è rimasto del cervello. In pratica una scommessa stoner con cui fregare una volta per tutte il fantasma dei Pink Floyd, promettendo di regalargli finalmente un distorsore degno di questo nome, a patto che lasci da parte tutte quelle menate filosofiche e quelle supercazzole incomprensibilmente anni '70. Gli otto pezzi che lo compongono ti mettono KO sin dal primo ascolto, confondendosi l'uno con l'altro e rincorrendosi in un'unica, continua, sferragliante, epica marcia: come se fossero stati registrati tutti di fila in una sola, lunga, notte buia. I Pontiak giurano che non è così, che anzi, questa volta, i tasselli sono andati a incastrarsi uno dopo l'altro — uno dentro l'altro — in perfetta sequenza, equamente spalmati nel corso di un anno e mezzo, nei tempi morti tra la fermentazione del malto e l'imbottigliamento in serie della Pale Ale.

Eppure il sospetto rimane: «Ehi ragazzi, che fate stasera? Vi va se strimpelliamo qualcosa un paio di orette prima di andare a letto?». E giù a cagar fuori uno dei dischi più belli dell'anno, come se nulla fosse.

4

The National

Sleep Well Beast

Il vero miracolo di un matrimonio (im)perfetto

C'è un motivo se tutti i più stupidi bigliettini preconfezionati da allegare a un regalo di anniversario recitano — più o meno, poche variazioni sul tema sono consentite — «Dopo tutti questi anni insieme, il vero miracolo è che sono ancora innamorato di te». Il vero miracolo ovviamente non sta nella parola "innamorato" quanto piuttosto in quell'apparentemente innocuo "ancora". Non è un caso che spesso Matt Berninger abbia paragonato le dinamiche intime della sua band a quelle di un matrimonio di lungo corso e d'altro canto, il fatto che il nostro innamoramento nei loro confronti non perda colpi nonostante l'abitudine sa di qualcosa di eccezionale. Il vero miracolo è che è merito loro, non nostro: continuano a scrivere canzoni meravigliose come fosse il primo appuntamento, e abituarsi alla meraviglia è un controsenso in termini, per definizione di "meraviglia", diciamo.

Sleep Well Beast è il settimo, vero miracolo della band di Cincinnati, scaccia ogni paura che, ormai anni dopo il primo "sì", i National possano correre il rischio — anche solo accidentalmente — di trasformarsi nella parodia di loro stessi e il vero miracolo è che lo fa raccontando tutte le minuzie di una crisi di mezza età senza però dare nessun segno della minima crisi di mezza età. Saltandola a piè pari, anzi. Come se la dipingesse per sentito dire, ma con il dettaglio di chi l'ha vissuta sul serio: come un esorcismo a posteriori, per non lasciare nulla di intentato. Senza farne particolari drammi, prende in mano — anzi, direi prende per mano — tematiche sviscerate in innumerevoli romanzi ma in ben poche canzoni rock o pop. E non è difficile capire perché: le emozioni coinvolte sono pressoché universali e fortissime, ma nella loro banalità quotidiana anche estremamente complesse e dai contorni sfumati e non così ben definibili, difficili da distillare in quattro minuti e una manciata di versi senza apparire sconclusionati o autoindulgenti. In questo senso, se chi ascolta riesce a non sentirsi come messo in un angolo durante una festa in cui tutti non fanno altro che parlare di loro stessi e dei loro casini, il merito va tutto al frontman della band e alla sua co-writer Carin Besser (che, guarda caso, tanto per tornare al concetto iniziale, è pure sua moglie), che riescono a far apparire chi racconta (diciamo "canta", diciamo rac-canta) un narratore inaffidabile, ben lontano dagli status di sciupafemmine o di oracolo della saggezza in cui si crogiolano i suoi personaggi.

Sleep Well Beast così suona splendidamente falso come tutti i dischi dei National, perché riesce a mantenere le distanze dalla mera cronaca quotidiana senza perdere niente della sua tragedia, a mettere un'energia tutta nuova nel dire quanto è stanco della vita, a rompere un bicchiere di vino rosso lanciandolo contro un muro di gomma. A lanciare un grido felicemente liberatorio senza disturbare i vicini che dormono. A suonar loro il campanello la mattina dopo, e chiedere gentilmente se per caso hanno ancora del sale avanzato. Per conservare le ferite al meglio, s'intende. E non dimenticare, mai.

3

At The Drive-In

In•ter a•li•a

Gente che doveva finire un certo lavoretto

Nessun disco sarà mai più come Relationship of Command. Questa certezza mi ha sempre accompagnato negli ultimi diciassette anni. Anzi, peggio: questa certezza mi accompagnava costantemente anche diciassette anni fa, mentre ascoltavo il capolavoro assoluto degli At The Drive-In senza riuscire mai a godermelo al 100% (diciamo che me lo son goduto al 99%), proprio perché continuavo a pensare in tempo reale che nessun disco sarà mai più come Relationship of Command. Relationship of Command era una grandinata che metteva d'accordo sotto lo stesso, inutile ombrello i Fugazi e i Pink Floyd, era il sacchetto della monnezza abbandonato in qualche vicolo sudicio a metà tra la mitragliatrice funk-metal dei Rage Against The Machine e le bizzarrie sarcastiche dell'hardcore periferico di quei predicatori pazzi dei Refused. Rimanendo a dovuta distanza dalle borchie dell'establishment punk, la band di El Paso era riuscita a portare un genere storicamente rigido nella sua brutalità ribelle verso una forma più libera e "maraca-friendly". Un'azzardo su tutta la linea, ma la storia ha dimostrato che la loro esperienza poteva essere archiviata alla voce "esperimento di uno scienziato pazzo andato a buon fine". Anche se, come tutte le scommesse di chimica, il rischio che ti scoppiasse in faccia era dietro l'angolo.

Agli At The Drive-In, Relationship of Command gli è scoppiato in faccia poco meno di un anno dopo la sua uscita, con lo scioglimento del 2001 e i dodici anni di silenzio successivo che hanno fatto male agli orecchi quanto al cuore. Dopo quella buffonata di reunion per il Coachella del 2012, le speranze di grattugiarsi le mani sopra un loro nuovo disco si erano ulteriormente affievolite, quindi scoprire, all'inizio di quest'anno, che "the station" era di nuovo a tutti gli effetti operational è stata una di quelle sorprese che ti chiedi: ok, ora ditemi dove sta la fregatura. La notizia ufficiale è che di fregatura non c'è traccia: In•ter a•li•a non solo esiste sul serio, ma riesce anche nella mission impossible di riprendere esattamente da dove Relationship of Command aveva lasciato. Come tutti i prodotti dell'algoritmo ATDI, è un disco denso e complesso, che non fa prigionieri ma allo stesso tempo sembra stanco di contare i cadaveri, il disco di una band che è tornata non solo per finire quello che aveva cominciato, ma anche e soprattutto per provare a non finire di nuovo dove aveva cominciato, ovvero a sopravvivere nonostante se stessa. Un po' più anziana, un po' più saggia e — si spera — anche un po' più furba.

No, nessun disco sarà mai più come Relationship of Command, ma se anche voi, quando lo avete ascoltato, avete pensato «Ecco, questo è il futuro», sappiate che il futuro è ora, si chiama In•ter a•li•a ed è tremendamente vicino alle vostre più rosee aspettative.

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Incurably Innocent

Call Broken Arrow

Ghost Tape N°9

2

Ulver

The Assassination of Julius Caesar

La passione di Kristoffer

Kristoffer Rygg è un po' il Mike Patton del black metal, ma meno autoreferenziale: uno che nella vita ha fatto — musicalmente parlando — di tutto, ma che se poi gli chiedi qual è la cosa di cui va maggiormente orgoglioso in un percorso più che ventennale ti risponde «il nostro disco di cover del 2012». La sua creatura Ulver — più che una band, un experimental collective o, come preferiscono definirsi, "a pack of wolves" — arriva in scioltezza al tredicesimo album (il terzo negli ultimi due anni) e si rivela così — almeno in termini di prolificità — più simile a una colonia di conigli che a un effettivo branco di lupi, senza per questo abbassare di un millimetro il livello compositivo e rifiutandosi categoricamente di allinearsi al luogo comune che vuole i concetti di qualità e quantità sempre e comunque bilanciati secondo un criterio di proporzionalità inversa.

Negli anni, il collettivo norvegese ha vestito i panni — sempre con successo, tra l'altro — di un'orchestra di oscuro folk scandinavo, di un combo di jazz-techno avant-garde, di un progetto estemporaneo per la colonna sonora di film minimalista, di una cover-band di pezzi garage anni Sessanta, di un ensemble specializzato in ambient-drone e di qualche altra cosa che mi sono perso nei rari momenti in cui ero distratto. The Assassination of Julius Caesar non poteva quindi sottrarsi a questo prevedibilmente imprevedibile pattern, anche se liquidarlo con un semplice "Ulver goes pop" pare in tutta onestà riduttivo. L'esercizio è — va detto — molto più complesso e tremendamente affascinante: prendere un ipotetico ambiente sonoro in cui i Nine Inch Nails più cupi si rarefanno fino a confondersi con i Tears For Fears, popolarlo di personaggi storici ingombranti e lasciarli lì a cospargere di sale le ferite ancora aperte della società contemporanea. Un'operazione romantica, a modo suo. Romantica nel senso di Byron. Un giochetto — se vogliamo avere l'incoscienza di chiamarlo così — che rischia pure di prenderti prende la mano: dare alla tragedia moderna il peso del mito antico per far risuonare nei secoli dei secoli un'unica costante armonica — la follia umana — e lasciarci sfiniti dal dubbio che la Storia — quella con la "S" maiuscola — altro non si riveli che lo spoiler di una nuova stagione di True Detective popolata da dei replicanti tipo Westworld. Fico.

Comunque sia, senza mezzi termini, possiamo dire che, con venticinque anni di carriera sulle spalle, gli Ulver si prendono il lusso di confezionare quello che forse è il miglior capitolo del loro catalogo: una drammatica "saga pop malata" che potrebbe diventare il perfetto surrogato del disco che in tanti avrebbero voluto ascoltare mettendo sul piatto il nuovo dei Depeche Mode, invece di trovarsi a fare i conti con un innocuo «Where's the revolution? / Come on, people / You're letting me down».

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Nemoralia

Rolling Stone

Transverberation

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Fufanu

Sports

La candidatura ufficiale di Reykjavík alle prossime Olimpiadi

Che l'Islanda non fosse solo geyser, Björk e Sigur Rós lo sapevamo, ma scoprire che avesse anche qualcosa da insegnare al continente in materia di indie-rock, post-punk elettronico e capacità di scopiazzare i grandi del passato con spiccata personalità, gusto non indifferente e obiettivamente niente da invidiare, è stata una delle più belle sorprese di questo 2017. I meriti di averci aperto gli occhi vanno senza ombra di dubbio a una band il cui nome ricorda più uno strumento a fiato sardo che le bianche distese di neve del Nord Europa.

I Fufanu hanno iniziato, non molto tempo fa, con le pretese di uno snack da apericena nelle vesti di un duo techno per poi, a forza di aggiungere gradualmente elementi e pezzi di strumentazione live alla ricetta, finire a presentare in sala un pasto completo che va dall'antipasto al dolce, più caffè e ammazzacaffè. Si chiama Sports e probabilmente è una delle migliori uscite dell'anno. Album pressoché perfetto, nella sua durata limitata (poco più di quaranta minuti), non registra passaggi a vuoto che possano giustificare cali di ritmo o di attenzione e infila dieci potenziali singoli uno dietro all'altro come fosse l'esercizio più semplice sulla faccia della terra. La cosa assurda è che lo fa senza puntare tutte le fiches su un mood ben definito o vincente, ma rimanendo in pericolosissimo — incredibile quanto efficace — bilico tra un senso di angoscia strisciante ma confuso (sarà davvero angoscia o è solo voglia di ballare?) e una spinta a scatenarsi che prude come la varicella ma che (proprio come l'impulso a grattarti quando hai la varicella) sai che è meglio trattenere ancora un po'. È come se l'essenza del sound dei Fufanu fosse la costante sensazione che c'è qualcosa che non va, che quello che stai per fare è in realtà un grosso errore, che è meglio aspettare un attimo altrimenti va tutto in vacca. È la pelle d'oca che ti corre sotto pelle quando senti un rumore a cui non sai dare un nome, lo sguardo che butti dietro le spalle dal sedile posteriore di un taxi nella notte preso dalla paranoia che qualcuno ti stia seguendo. In ogni pezzo le linee di basso e di chitarra si allineano con la batteria secca e i campioni elettronici in un modo subdolo, astuto, come se volessero compensare una mancata esplosione: i Fufanu non sono né potenti né mosci, sono entrambe le cose e questo ti manda fuori di cervello. Giocano con maestria, scalzi sul filo spinato di confine tra l'ebbrezza di una night life urlata in playback e il ticchettio delle dita sulla gamba mentre durante un funerale non riesci proprio a toglierti dalla testa quella canzoncina sentita alla radio, tra il "su le mani" di un dancefloor fatto di zombie e l'ondeggiare ubriaco nella solitudine del post-party, quando la velocità con cui le sinapsi iniziano a reagire torna ad aumentare progressivamente.

Se Sports fosse il personaggio di un film sarebbe l'autista di Drive: silenzioso, impassibile, eppure emozionalmente devastante nella sua caparbietà (in)controllata.

Tracce caldamente consigliate

Tokyo

Just Me

White Pebbles

Gli avanzi del cenone

Che poi io alla fine non son mica tanto d'accordo con chi sostiene che questo è stato un anno che si è chiuso un po' in sordina rispetto al precedente, in cui abbiamo avuto meno uscite importanti (chi decide cosa è importante? Dove sta un ranking ufficiale di importanza? La cosa viene valutata in base a quanta gente importante è andata al Creatore nel corso degli ultimi 365 giorni? attendo delucidazioni al riguardo) o poca qualità in generale.

Io, sarà che son troppo buono, ma anche a questo giro ho fatto fatica a selezionare solo una Top 30, e mi è sinceramente dispiaciuto lasciar fuori qualcuno. So benissimo che questi questi "qualcuno" non ci dormono la notte, al pensiero di essere stati esclusi da questa classifica, quindi, per fare ammenda, aggiungo qua di seguito un'ultima lista di band / artisti i cui dischi usciti quest'anno ci son piaciuti comunque, ma meno. Meno di questi trenta qua sopra, dico.

L'ordine è rigorosamente sparso, e lo dico tirando un sospiro di sollievo, visto che anche i numeretti che ho messo in precedenza sono solo il frutto di una strenua lotta con me stesso e — se non mi fossi obiettivamente rotto le palle della cosa — forse li cambierei di nuovo a uno a uno per l'ennesima volta.

Tipo gli avanzi del cenone, insomma. Ovvero una roba che non è da escludere che, riscaldata in forno il giorno dopo, sia addirittura più buona che appena preparata.

Soulwax, Slowdive, Vessels, INVSN, The Afghan Whigs, Alvvays, Broken Social Scene, Big Thief, Chrysta Bell, Four Tet, Fever Ray, Public Service Broadcasting, Filthy Friends, Daughter, Charlotte Gainsbourg, LCD Soundsystem, Melvins, Torres, Elder, Ride, Spiral Stairs, Grandaddy, The Jesus & Mary Chain, Arca, Death From Above, Boss Hog, Sneaks, The Flaming Lips, Crystal Fairy, Pond, PVT, The XX, Sohn, Piano Magic, Arboretum, Vagabon, Xiu Xiu, Desperate Journalist, Rose Elinor Dougall, Priests, Samsara Blues Experiment, Porcelain Raft, Austra, Bonobo, Cloud Nothing, Ghost Against Ghost, Elbow, Clan of Xymox, Goldfrapp, Feist, Gorillaz, Perfum Genius, White Hills, Alex G, Alt-J, The Drums, Lorde, Six Organ of Admittance, Foxygen, Sleaford Mods, Queens of the Stone Age, Ben Frost, EMA, Everything Everything, Nosaj Thing, Godspeed You! Black Emperor, Chelsea Wolfe, Tricky, Unsane, Iglooghost, Arcane Roots, Wolf Parade, A. Savage, Wy, The Horrors, Johann Sebastian Punk, Destoryer, Oh Sees, Matt Cameron.

70 canzoni che ci son piaciute quest'anno

Molti di questi li trovate — puntuali come il cotechino e le lenticchie — in questa follia di mixtape: quasi 5 ore di musica ininterrotta. Una roba che se ne ascoltate mezz'ora al giorno, quando arriva la Befana ne è rimasta ancora a sufficienza per far ballare anche lei.

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