Il quarto disco dei Black Mountain è un lavoro visionariamento confuso come un mercatino delle pulci: una camicia di jeans della Standa, il casco di Giacomo Agostini e molta altra carne al fuoco.
18 Dicembre 2016
Stephen McBean e compagni arrivano al quarto capitolo della loro saga revisionista e lo fanno — come ogni manuale di comunicazione del brand consiglia — concentrando gran parte dei loro sforzi sulla scelta del titolo. Grazie un brainstorming collettivo — che lascia tutte le migliori mente coinvolte nel copywriting sfinite al suolo a causa del devastante eccesso di fantasia — la scelta cade su un evocativo quanto generico (ma innegabilmente coerente) IV: abile tentativo di camuffare un evidente vuoto di neuroni con una nemmeno troppo improbabile dichiarazione d'amore per una certa vintageness Seventies dal sapore ledzeppeliniano. Dopo cotanto sforzo creativo, pare evidente che le energie rimaste per la stesura della parte visuale del progetto non fossero poi molte.
Nonostante questo tocca dire che la band canadese fa ancora centro, regalandoci non banali passi in avanti pur rimanendo sempre coerente con la sua storia e il suo percorso. La carriera dei Black Mountain infatti è sempre stata — in fin dei conti, sia in termini più prettamente sonori che genericamente estetici — una corsa alla conquista dello spazio profondo che guarda al futuro partendo dagli anni Settanta e si mangia in un sol boccone Guerra Fredda e corsa alla Luna, Black Sabbath e Arcade Fire, Easy Rider e Star Trek. Così anche questo ultimo album altro non fa che confermare il loro talento in quello che potremmo chiamare un collage revival, gestito in maniera magistrale grazie alla personalità peculiare di cui sono in possesso: una cosa che va al di là della superficiale nostalgia o del freddo manierismo e permette loro non risultare mai sfacciatamente derivativi, pur rimanendo per scelta in equilibrio su quel filo sottile che divide il genio dal ridicolo.
Per questo non sorprende — anzi, fa sorridere fino alle soglie dell'applauso spontaneo — trovarci di fronte a un misterioso personaggio con addosso una camicia di jeans dell'Oviesse (anzi, viste le premesse, dovremmo forse dire della Standa) e in testa il casco di Giacomo Agostini, che ci guarda voltandosi sospettoso come in un poliziottesco dei tempi andati, mentre intorno a lui da un lato è in corso un principio di incendio sulle note del sacro fuoco della rivoluzione, mentre dall'altro una ragazzina gioca da sola incurante del pericolo agghindata con un vestitino svolazzante (qui la nostra memoria malata va subito a Natasha Rischardson ne La polizia incrimina, la legge assolve) e il cielo quasi plumbeo è solcato dalle scie chimiche lasciate da un improbabile aereo da trasporto supersonico (sarà l'anglofrancese Concorde o il sovietico Tupolev? Solo la CIA sa la risposta). Il tutto ambientato in quello che potrebbe essere il parco della Reggia di Caserta, prima che licenziassero il giardiniere. Insomma, un guazzabuglio surreale di immagini sorprendentemente suggestive, messe una accanto all'altra come in un'illustrazione uscita dall'attività pomeridiana dei pazienti di un centro di salute mentale, che potrebbe essere allo stesso tempo pieno di significati reconditi e nascosti, quanto una semplice schifezza senza senso.
Eclettismo a livelli eccelsi e voglia di giocare con tutto quello che capita tra le mani: strumenti, colori, generi musicali, storia passata e recente, idee ponderate e intuizioni un po' così alla cazzo. Un disco visionariamente nostalgico, con molte spunti in testa seppur ben confusi, ma confusi a tal punto che shakerati in un pout-purri imprevedibile, prendono inaspettatamente senso. O qualcosa di simile, almeno.