Dalla traduzione di un saggio di Suki Finn, l'incredibile teoria secondo la quale conoscere effettivamente cosa è un buco potrebbe salvare il genere umano.
15 Agosto 2018
Che in giro ci siano un sacco di buchi sembra una cosa indiscutibile. Credo che, su questo, possiamo essere tutti d'accordo.
Per dire: ci sono i buchi delle serrature, i buchi neri e le buche nelle strade. Così come troviamo buchi in tantissime cose, tipo i calzini troppo usati, gli imbuti, i campi da golf e le ciambelle. Arriviamo in questo mondo attraverso un buco (ok, suona male, messa così, ma qualcuno doveva pur dirlo) e, quando crepiamo, la maggior parte di noi viene accuratamente sistemata in certe buche speciali scavate apposta nel terreno.
Eppure, vi siete mai chiesti cosa effettivamente siano, questi buchi, e soprattutto di cosa siano effettivamente costituiti? Qualcuno l'ha fatto. Anzi, la questione se i buchi siano in concreto qualcosa di per sé oppure — come suggeriva lo scrittore tedesco, di origine ebrea, Kurt Tucholsky nel suo The Social Psychology of Holes (1931) — piuttosto semplicemente una roba dove qualcosa non c'è, è storicamente uno dei grandi dilemmi filosofici.
Ma andiamo con ordine e, innanzitutto, come primo passo in un'analisi più o meno scientifica della faccenda, partiamo dal dissezionare l'anatomia di un buco e degli elementi che vanno a comporlo.
Allora, immaginatevi una ciambella: quella classica, rotonda con un buco nel mezzo, non quella intera ripiena di crema o di marmellata (insomma, i Simpson li avete visti tutti, no? Bene, stiamo parlando dei doughnut che piacciono tanto a Homer). La circonferenza della ciambella (quella che, alla fine, si mangia) è un esempio di quello che si chiama l'host del buco: in altri termini, sarebbe la cosa che circonda il buco. Ora pensate di infilarci un dito, in modo da "indossare" la ciambella come fosse un anello. Ecco, il vostro dito diventa così il cosiddetto guest del buco, ovvero una roba che sta dentro il buco.
Facciamo però un passo indietro e saltiamo alle fasi iniziali della creazione della ciambella, quando, in pasticceria, qualcuno taglia via una parte dall'impasto intero in modo da lasciare, appunto, un buco. Come lo chiamiamo quel pezzo lì? Un ospite di lunga data — un residente, diciamo — che all'improvviso viene sfrattato? Buona questa, ma stiamo cercando di essere seri, per favore.
In Nord America (Canada e USA — dove le ciambelle son come il maiale, nel senso che non si butta via nulla) hanno brandizzato anche quei potenziali scarti: li hanno ribattezzati TimBit o Munchkin, che altro non sono che due nomi fichi, buoni per tirar su lo script di uno spot pubblicitario che commercializzi quelli che la gente comune chiamerebbe invece "buchi di ciambella", anche se — mi pare evidente — non c'è dubbio che siano tutto meno che quello, visto che il buco effettivo è creato dalla rimozione del TimBit o del Munchkin e questo dato di fatto rende abbastanza ingiustificabile la sua identificazione con ciò che invece viene eliminato.
In ogni caso, qualunque cosa siano, i TimBit — ovvero i buchi di ciambella nel senso populista del termine — hanno appena compiuto 35 anni:
Bene.
Se escludiamo il pezzo rimosso, cos'è che dobbiamo considerare buco? Son cose materiali, i buchi — dove per "cose materiali" intendiamo corpi fisici (come sedie e tavoli) — o sono invece qualcosa di immateriale (come, che ne so, l'anima, il tempo e altre entità astratte del genere)? Oppure dobbiamo considerare addirittura l'ipotesi che non siano affatto qualcosa?
Il dilemma è affrontato nel saggio — dal titolo a dir poco autoesplicativo — Holes (1970), a cura dei filosofi americani Stephanie e David Lewis, che contiene un dialogo di stampo platonico tra due personaggi: Argle e Bargle.
Argle è una materialista, ovvero una che nega l'esistenza di qualunque cosa che possa essere definito immateriale. Per lei, il materialismo è la posizione più sensata, visto che le consente di non immischiarsi in questioni che anche lontanamente considerano la possibilità di presunte fantasie che vanno al di là del tangibile: in altre parole è una scelta un po' paracula, diciamo — per essere politically correct — ontologicamente parsimoniosa. Come Madonna, Argle è una "material girl living in a material world", dove tutte le cose esistenti sono oggetti fisici e materialissimi.
Il dibattito tra Argle e Bargle quindi, in ultima analisi, può essere fondamentalmente schematizzato nel tentativo di decidere quale, tra queste tre affermazioni — ognuna singolarmente plausibile, ma inconsistenti se prese tutte insieme — è da considerarsi non vera:
Dibattito platonico che, tra l'altro, sarà destinato a degenerare nella goliardia della società moderna in quello che a tutti gli effetti è (cit. con tanto di trademark ™) "il gioco in cui insulti i tuoi amici":
Secondo le leggi della logica — che supponiamo regolare il mondo in cui viviamo — solo due di queste asserzioni possono appunto verificarsi contemporaneamente, dato che se prendiamo per buona la (1), che nega l'esistenza di oggetti immateriali, possiamo ammettere che esistano i buchi (2) solo se li consideriamo oggetti materiali (andando quindi contro la terza ipotesi). Al contrario, se accettiamo la presenza dei buchi (2) e li consideriamo oggetti immateriali (3), allora significa — perdonate la banalità, ma si sa, giocar con i sillogismi è come spiegar le cose ai bambini ed è sempre stato così, nei secoli dei secoli — che la (1) è errata, visto che almeno un oggetto immateriale esiste: i buchi, appunto.
Quindi, come ne usciamo? Bargle sostiene che dovremmo eliminare la prima affermazione e mettersela via che esista qualcosa di immateriale, per esempio i buchi. Ma tutto ciò non va per niente già ad Argle che, come abbiamo detto, è una convinta materialista e nemmeno sotto tortura ammetterà l'idea che possa sussistere anche solo un'area grigia oltre lo spettro del tangibile.
In realtà una soluzione ci sarebbe, un po' vigliacca e di cui sicuramente non andare orgogliosi ma che indubbiamente ci toglierebbe le castagne dal fuoco. Sto parlando di quella piccola strategia umana che mettiamo in pratica, sin dalla notte dei tempi, nei momenti di maggiore difficoltà, quando proprio non riusciamo a cavare un ragno dal buco: negare l'evidenza. Nel senso, perché non rigettare a piè pari l'ipotesi (2), ovvero che i buchi esistano sul serio? A livello prettamente rigoroso funzionerebbe: se la (2) non è vera, le questioni tirate in ballo dalla (1) e dalla (3) nemmeno si porrebbero. Easy-peasy, come direbbero di là dall'oceano.
Il problema è che a quel punto ci troveremmo in grossa difficoltà proprio nella vita di tutti i giorni. Provate infatti a sostenere una teoria rivoluzionaria come quella appena proposta e poi a dover cantare con vostra figlia una roba tipo La macchina del capo ha un buco nella gomma, provate, quando sarete lì a insegnarle il balletto, a non indicarlo, quel buco, a non mimarlo, a non pensarlo. Le cose, insomma, si farebbero estremamente complicate: certo, ammettendo che non esistano buchi — e che quindi non ci sia niente da indicare, mimare o anche solo pensare — potremmo sempre riformulare la frase senza fare riferimento alla parola vietata. Dopotutto, la lingua italiana è ricchissima e il meraviglioso mondo dei sinonimi è tutto da scoprire. Guardate però la faccia della vostra piccola mentre dite "la macchina del capo ha un pneumatico a terra a causa di una foratura" e ditemi se non vi sentite in colpa.
Ma al di là di questo, anche se la cosa non vi turba e avete fatto dell'insensibilità la vostra ragione di vita, anche se l'arte della perifrasi vi dà comunque una certa soddisfazione e non vi fate problemi a sparare nel mucchio con la vecchia arma della supercazzola, la situazione sta comunque in questi termini: siete nel bel mezzo del classico impasse in cui "se il dito indica il cielo, l'imbecille guarda il dito" e, nello specifico, l'imbecille siete voi. State infatti semplicemente spostando l'attenzione sulla gomma invece che sul buco: è la vostra gomma che ha una forma bucata, invece che avere un bel buco da tappare con il chewing-gum. Complimenti per l'idea geniale. E poi non è mica detto che ogni santa verità riguardo ai buchi possa essere sempre reinterpretata e parafrasata secondo l'ultima spiaggia rappresentata dal piano B riassumibile nel concetto di "host perforato"! E comunque, anche se fosse: credete sul serio che il fatto che una parola possa venire eliminata da un linguaggio costituisca la prova che la cosa a cui si riferisce davvero non esista? Che semplicemente smettendo di parlare di qualcosa quello cessi all'improvviso di esser lì? Quando chiudete gli occhi pensate davvero che anche gli altri non vi vedano? Cos'è, avete quattro anni? O avete fatto un master in strategia dello struzzo? Cristo.
Che poi non è nemmeno un vera e propria strategia. È piuttosto una sindrome, una patologia, clinicamente detta anche "negazionismo nichilista":
Ok, scusate la foga. Mi ricompongo un attimo, aggiusto il papillon, pulisco le lenti degli occhiali e riprendo in mano le nostre dispense accademiche, sempre che riesca a capire come si fa a proiettare di nuovo le slide in full screen. Odio Powerpoint. E sì, quello immortalato sul desktop sono io mentre ballo "La macchina del capo etc.. La foto l'ha scattata mia figlia. Dice si stava annoiando.
Ma, bando alle ciance! Dove eravamo rimasti? Ah sì. La controversia sulle tre frasi di Argle e Bargle. Prendiamo la (3), quella che dice che i buchi sono oggetti immateriali. Può essere negata? In effetti, questo era proprio il nostro dubbio di partenza: se i buchi sono materiali, che tipo roba materiale sono? Potrebbero essere loro stessi il guest? Manco per il cazzo, esattamente per la stessa ragione per la quale i TimBits o i Munchkin non possono essere loro stessi il buco. Potrebbero essere allora in qualche modo parte dell'host (magari una specie di suo rivestimento)? Forse. Ma quanto dovrebbe essere spesso questo rivestimento? Dovremmo considerare tipo una pellicola di un millimetro attorno alla superficie della ciambella come il buco stesso? O magari tutta l'intera larghezza della ciambella? No, pessima intuizione. In quel caso scivoleremmo infatti nel paradosso secondo cui la ciambella è il buco, che mi pare un'idiozia a prescindere. Allora magari una misura intermedia? Bah, avremmo così tanti candidati (per la precisione infiniti) per lo spessore di quello stupido rivestimento che, paradossalmente, non ci sarebbe una ragione che giustificherebbe la scelta di uno piuttosto che di un altro. Che senso avrebbe quindi lasciare a una decisione così arbitraria come stabilire a caso la misura di uno spessore l'onere di identificare in maniera esaustiva un soggetto così nobile come un buco? E se invece non scegliessimo, considerando il buco come una moltitudine di infiniti spessori? Bella pensata, davvero. Come faremmo in quel caso a distinguere un buco da un altro? Anche se ne fossimo capaci, finiremmo per dover ammettere la compresenza di infiniti buchi nello stesso buco, uno per ogni spessore, tutti all'interno di un'unica ciambella. Non avevamo detto che non volevamo complicarci la vita? Per esempio, c'è mica nessuno che è convinto di mangiarsi anche il buco quando si mangia una ciambella, vero? Non so voi, sicuramente questo porterebbe a ulteriori spunti di riflessione — il mio humor inglese mi spingerebbe a dire more food for thoughts, ah-ah — ma la verità è che a me è già passata la fame.
E invece: buchi da mangiare, contro ogni teoria immaterialista!
Perché il punto è che, alla fin fine, la domanda è ancora più esistenziale e arriva quando si fa un ulteriore passo indietro per vedere la cosa con una prospettiva più ampia. Come mai, tutto questo, è così importante? Qual è il motivo per cui sospettiamo che sapere con tanta precisione cos'è un buco, di cosa è fatto (o di cosa non è fatto), quel che c'è (o non c'è) al suo interno potrebbe, in futuro, migliorare le nostre esistenze?
L'esperto di buchi Achille Varzi, professore di filosofia alla Columbia University, per rispondere a questi interrogativi, ricorda un caso molto particolare, quasi borderline direi, che però rende abbastanza l'idea.
Anno del signore 2000 d.C., elezioni presidenziali negli Stati Uniti: George W. Bush contro Al Gore. Appena superato lo spavento del millenium bug, la fiducia nella tecnologia sta progressivamente tornando in auge ed entra in scena una nuova voting machine (si tratta sempre un restyling della mitica Votomatic degli anni '60, ma teoricamente più affidabile e al passo con i tempi): in pratica, dentro uno scatolotto di plastica — a prova di compagno di banco che vorrebbe copiare il compito in classe — c'è la scheda elettorale con i nomi dei candidati e, accanto a ognuno, il suo bel cerchietto da centrare in modo da scegliere il relativo tizio come futuro presidente della più grande superpotenza mondiale. Per farlo è messo a disposizione dell'elettore una specie di aghetto — legato allo scatolotto (immagino per evitare che a qualche tossico venga in mente di portarselo a casa per farne altro uso) come le penne Bic al bancone dei nostri uffici postali, ma più di design — con cui (guarda un po') bucare il punto indicato per dare la propria preferenza. Una relativa macchina "gemella" avrà successivamente il compito di individuare i buchi, contarli e dare alla nazione un responso non sindacabile. Dovrebbe essere come giocare a freccette, ma da più vicino e senza birre doppio malto in giro, quindi più facile. Teoricamente.
E invece sappiamo tutti com'è andata: una merda. Sarà che la gente — soprattutto in Florida — buca in maniera diversa (direzione, pressione, tecnica di puntura — ognuno, come quando gioca a freccette, ha il suo stile, no?), sarà che tra gemelli (anche quando si tratta di apparecchi e dispositivi) c'è sempre un po' di rivalità, sarà — come diceva la nostra inviata dal regno del fatalismo, Tiziana Rivale — quel che sarà, fatto sta che la rilettura dei buchi è finita in vacca e Bush Jr. — nonostante tutte le polemiche e le grida al complotto — ha avuto otto anni per fare tutti i danni possibili (forse anche qualcuno in più) e la stupida macchinetta è diventata prima il simbolo di una disfatta ben orchestrata, poi lo zimbello del web e ora è addirittura un reperto vintage hipster che se vuoi puoi comprare su eBay (true story).
Pare l'Allegro Chirurgo, ma col culo degli elettori in carne e ossa:
Insomma, per dirla con le parole di Varzi:
All'improvviso, abbiamo realizzato che il destino del nostro Paese — se non addirittura il destino del mondo intero — dipendeva dalla nostra bravura nel contare i buchi.
E qui — come si suol dire, con il beneplacito degli animalisti — casca l'asino, perché per contare i buchi, dobbiamo innanzitutto sapere come identificarli e individuarli: dobbiamo sapere cosa e come sono.
Lo so e l'ho già detto: è un caso particolarissimo e potrebbe risultare un po' tirato per i capelli. Ma credo lo stesso sia un campanello d'allarme non da poco, che dovrebbe dimostrarci come una migliore comprensione di dove i buchi si pongano rispetto alle linee che dividono i concetti di "materiale" vs. "immateriale" e "qualcosa" vs. "assenza di qualcosa" potrebbe colmare in maniera decisiva una piccola parte dell'abisso che ci separa dalla completa conoscenza della realtà.
Messa così vi pare troppo radical chic? Vogliamo essere più pratici, allinearci al paese reale, guardar solo al nostro orticello e ribadire che prima gli italiani? Va bene. Allora diciamo che la morale di questa storia dovrebbe spingerci, per una volta, a provare a imparare qualcosa dagli errori altrui e suggerirci che — in tempi di Big Data, Cambridge Analytica e fake news — saper distinguere con assoluta certezza un buco (che sia una qualunque falla nel sistema, una perdita di senso critico, un vuoto di valori senza nemmeno due spiccioli da avere indietro quando riporti la bottiglia al bancone), potrebbe, negli anni a venire, essere anche per noi l'unico modo per evitare di ritrovarci tra le palle l'ennesimo Salvini.
Se la prospettiva non vi preoccupa e non riuscite proprio a guardare oltre il vostro prossimo pasto, di là dovrebbe essere avanzato ancora qualcosa del buffet della conferenza: c'erano delle ciambelle buonissime, con tutti i buchi al posto giusto. Tanto gli effetti nocivi per la salute di troppo colesterolo, burro fritto e glicemia son solo un'invenzione di Big Pharma, giusto?
Capre.
Questa, originariamente, era una roba Suki Finn.
Dico "roba" perché non so bene come chiamarla. Sta sull'internet, quindi forse andrebbe bene anche "articolo". Immagino la parola giusta sarebbe "saggio". Gli anglosassoni lo chiamerebbero "paper" e a me questa cosa che continuano a chiamarli paper anche se ormai son tutti pdf mi fa tanta tenerezza. Quindi, diciamo che lo spunto è stato preso da un paper di Suki Finn.
Suki Finn è una che di mestiere — appunto — scrive i paper, nel senso che fa la ricercatrice all'Università di Southampton. Si occupa principalmente di metafisica e filosofia logica e attualmente sta lavorando su un progetto finanziato dall'ERC (European Research Council) dal titolo "Better Understanding the Metaphysics of Pregnancy" (che, non vorrei essere volgare, ma a modo suo è argomento che ha sempre qualcosa a che fare con i buchi, uno in particolare).
Ho deciso di mettermi a tradurre "Is a hole a real thing, or just a place where something isn't? fondamentalmente perché, leggendolo, ho improvvisamente realizzato quanto fosse stata trascurata, nel complicato percorso fatto dall'homo sapiens per arrivare all'imbarazzante situazione attuale, l'importanza dei buchi nella società (in)civile e ho avuto la sciocca presunzione di pensare che questo potesse essere il mio utile contributo alla causa persa, idealista e carbonara, rappresentata dal tentativo di colmare una tale immensa lacuna (o forse dovrei dire "di riempire questo gran buco"?).
Non è stato semplice, soprattutto a causa del fatto che quando ti metti a parlare di buchi e provi a farlo seriamente, subito uno stuolo di doppi sensi ti attende dietro l'angolo per buttare ogni buon proposito in caciara. In più, c'era pure questo problema non da poco: non sono un traduttore e quindi non so fare le traduzioni, cosa che, per uno che si accinge a fare una traduzione, non è un bel punto di partenza. Così è finita che la faccenda mi ha preso un po' la mano e c'ho aggiunto qualcosa di mio, permettendomi un paio di piccole deviazioni fuori dal seminato e qualche aggiustamento, diciamo, culturale. Molto poco, però, e sempre all'insegna di una rispettosa parsimonia, quindi credo di poter dire che il tutto è ancora sufficientemente fedele all'originale.
Comunque, se volete verificare di persona, il testo di partenza sta su Aeon.
Aeon sarebbe un magazine digitale che si fa delle domande strane e spesso trova pure le risposte. Solo per questo meriterebbe una donazione, ma so già che non avete spiccioli (solo pezzi da grosso taglio, voi), quindi mi accontenterò della promessa che ogni tanto passerete di là a farvi una cultura gratis.