Il nono disco dei Coral è un bubbone masticato da un'estetica retrofuturista e risputato da un giapponese sotto acidi dentro un videogame bubblegum-pop. Poi c'è quella cosa del leone, anche.
21 Agosto 2018
I Coral una volta erano dei bravi ragazzi (per quanto si possa essere dei bravi ragazzi dopo esser cresciuti nel seminterrato del Flat Foot Sam's Pub di Hoylake — penisola di Wirral, Merseyside) con i capelli più o meno corti, un immaginario pop di periferia e in testa questa idea — un po' antiquata ma sempre giustificabile — di suonare una specie di collage del rock'n'roll: una roba un po' allegrotta che metteva di buon umore solo a guardarla e non potevi resistere dal battere il piedino per terra quando la ascoltavi.
Oggi — a più di quindici anni di distanza — ce li ritroviamo invecchiati in maniera sapientemente trasandata (Lee Southall si è progressivamente trasformato nella controfigura di Sergio Pizzorno e gli altri sembrano i membri di una cricca di sbandati uscita da un film di Guy Ritchie), con nove album sulle spalle e un'onestissima carriera che si è sviluppata — volutamente o meno? Questa la domanda che ci ronza in testa — relativamente ai margini del giro che conta, nonostante in molti li avessero indicati tra quelli che avrebbero dovuto riportare la bandiera del britpop in alto nei firmamenti del resto del mondo grazie a una lunga serie di successi da classifica di cui — col senno di poi — facciamo fatica a trovare traccia. Comunque sia andata, i fratelli Skelly e compagni è evidente che ancora rosicano per questa cosa, visto che — almeno stando al loro nuovissimo account Instagram — tentano di farci credere di essere scappati ai Caraibi con i soldi che (non) hanno fatto, quando invece è palese che si son lasciati ritrarre in studio e poi se la son cavata con un fotomontaggio da quattro soldi utilizzando come sfondo la cartolina di un qualche atollo un tempo usato per i test nucleari nel sud-est asiatico.Parliamo di "test nucleari" perché altrimenti — se dovessimo appunto escludere l'unica ipotesi plausibile, ovvero un mutamento chimico della pellicola dovuto all'esposizione alle radiazioni — non c'è nessuna logica (e tantomeno nessuna estetica) che possa giustificare un abbinamento di colori incosciente quanto quel rosa e verde fluo che paiono rubati alla palette della Big Babol, così come immaginiamo un'ambientazione in estremo oriente per via di quegli ideogrammi che — qualunque cosa significhino — a nient'altro ci riportano, se non a una sorta di invidia del pene nei confronti di connazionali che hanno avuto riconoscimenti commerciali ben più ragguardevoli dei loro (tipo i Blur).
Le stesse atmosfere acide e contaminate, lo stesso stile visivo discutibile, la stessa accozzaglia di layer ritagliati alla bell'e meglio, le ritroviamo purtroppo anche nel loro nono, ultimo album, questo Move Through The Dawn, dove lo schema appena descritto si ripete pari pari, se non per il fatto che a questo giro tentano di farci credere di essere scappati — sempre con i soldi che (non) hanno fatto — a Tokyo, o forse a Singapore o in qualunque altra moderna capitale sempre del sud-est asiatico e sempre estremamente vicina — a giudicare dalle sfumature del cielo — a un qualche atollo un tempo usato per i test nucleari.
Insomma, un album declinato secondo una ben confusa follia retrofuturista che bilancia un innegabile impatto impossibile da ignorare, in quanto paragonabile a un pugno nell'occhio che sta a metà tra Miami Vice e un videogame anni '80 (anzi, che — benedetta sia la maieutica — ricorda proprio il videogame di Miami Vice, uscito negli anni '80), con delle scelte a dir poco old style come la tracklist in bella evidenza sul fronte della copertina o invece del tutto all'avanguardia come quell'inspiegabile leone scontornato male che fa capolino manco fosse il sesto membro della band (forse il sostituto del dimissionario Bill Ryder-Jones?).
Il leone, sì. È forse questa, alla fine della fiera, il vero colpo di genio di un lavoro del genere. Un fottutissimo leone libero di scorrazzare in città. Perché? Chi se ne frega del perché. Questo è il messaggio — a suo modo rivoluzionario — dei Coral: ogni band che si rispetti dovrebbe avere un gattone che fa bella mostra di sé sui propri dischi senza motivo, un felino coccoloso che attiri e spaventi allo stesso tempo i potenziali acquirenti dagli scaffali di ogni negozio hipster durante tutti i santi Record Store Day. Dovrebbe essere un prerequisito obbligatorio nel brief di qualunque designer che vuole approcciare il magico mondo delle cover musicali.
Parafrasando una vecchia pubblicità che incitava all'apologia delle lobby del gasolio internazionali:
Metti un leone in copertina.