Gli Amnesia Scanner ci provano con il mainstream convinti di ricevere un due di picche e invece quello, contro ogni previsione, ci sta subito al primo appuntamento.
8 Settembre 2018
C'è stato un momento della storia di internet in cui in cui quella forma di petrolio del nuovo millennio che va sotto il nome di big data era ancora neonata: erano dati piccoli (o meglio, erano già abbastanza cresciuti ma piccola era l'importanza che davamo loro — non erano ancora degli influencer, potremmo dire), mucchi infiniti di informazioni sparse nel World Wide Web di cui non poteva fregare di meno a nessuno, identità nascoste dietro a nickname (che andavano dall'infantile, al banale, fino all'incomprensibile) senza faccia né smartphone associato, persi in un oceano geolocalizzato in percentuali ancor più irrisorie dei tempi di Colombo e Magellano, in cui potevi farti una vita alternativa sul serio, per pareggiare i conti col destino e prenderti una pausa da quella reale.
Anche allora trovavi in libertà nutrite schiere di leoni da tastiera, ma erano confinati nella savana dei commenti sui blog, i flame si spegnevano subito oltre i bordi dei forum e per le molestie virtuali e il soft stalking c'erano le chat IRC. Era comunque una merda, ma a raccontarla così fa meno paura e porta acqua al quel mulino — ormai sempre meno in disuso, che, anzi, non ha mai smesso di girare — in cui si stava meglio quando si stava peggio.
La verità è che probabilmente si stava uguale, quando si stava peggio, ma è praticamente indiscutibile il fatto — quasi paradossale — che, pur rischiando molto meno di essere beccati, scoperti o smascherati, c'era lo stesso un senso del ridicolo più sviluppato, un ritegno più guardingo, una specie di soglia dell'imbarazzo per se stessi che lanciava ancora qualche segnale d'allarme. Tu chiamala, se vuoi, netiquette — anche se in realtà era più verosimilmente una specie di selezione naturale a banda stretta — fatto sta che l'evoluzione successiva fino ai giorni nostri fa dubitare non poco riguardo all'effettiva efficacia delle teorie del buon Darwin.
Erano tempi in cui davvero avevamo creduto di poterci permettere per sempre un avatar che tenesse a bada i nostri scheletri nell'armadio: un alter ego in versione Tamagotchi (ma più figo) da nutrire con le briciole di quello che avremmo voluto essere e poi rivendere online al peggior offerente, senza troppe conseguenze. Insomma, Second Life era dentro di noi già prima che qualcuno pensasse incoscientemente di poterci fare dei soldi.
Ecco. Allora — quando i modem mormoravano ancora quegli strani rumori robotici per connettersi e la rete era il posto più funzionale per organizzare la versione estesa di una caccia al tesoro o di Indovina Chi? — poteva funzionare, avere il suo fascino, dare dei risultati tangibili.
Cosa? Lo sforzo necessario per imbastire quella complicata narrativa da creare attorno alla figura del "misterioso producer", intendo.
Oggi — bisogna ammetterlo — appare poco più di un cliché e suona un po' ridicolo e già visto. In altri termini, viviamo in un mondo in cui con un semplice account Gmail o Facebook di sei già fottuto l'intero carnet di dati personali che la società (in)civile di ha lasciato in dote — i tuoi e quelli di tutta la tua famiglia, per essere precisi — e ancora c'è qualcuno che ha il coraggio di presentarsi in consolle con una maschera sulla faccia e far circolare comunicati stampa senza nome, simili a pamphlet di stampo carbonaro che inneggiano a una sedicente rivoluzione sonora priva di riferimenti precisi?
Ebbene sì: nonostante queste ragionevoli perplessità, soprattutto all'interno di certe nicchie di genere, questa strategia pare andare sempre piuttosto forte e tutto il teatrino necessario a metterla in atto viene ciclicamente replicato ogni paio d'anni, anche se, in termini di qualità, le statistiche dicono che il gioco non vale troppo la candela.
Nel senso, per scovare un Burial tocca scartare (ma nel frattempo sorbirsi) almeno un centinaio di Liberato.
Scontato dunque realizzare che non sono stati i primi — così come è facile prevedere che non saranno gli ultimi — va detto che gli Amnesia Scanner se la sono giocata meglio di altri, dove, nello specifico, "meglio" vuol dire che ci sono andati giù con mano più pesante, seguendo con devozione morbosa una lista auto-stilata di comandamenti a cui, finora, mai hanno mancato di essere fedeli e che trova la sua essenza in una filosofia di vita relativamente diffusa, secondo la quale, nel momento in cui decidi di buttarti giù da una discesa, i freni servono fino a un certo punto.
Falsi timidi davanti a club sempre più strapieni, artificialmente riservati in un'era di iper-visibilità, per un certo periodo hanno portato avanti il loro assalto tecno-industriale in maniera anonima, teletrasportandosi dai nostri browser alla cima dei dancefloor senza curarsi minimamente dei vari passaggi intermedi: da soluzioni abusate come palchi opportunamente oscurati e felpe col cappuccio, a tentativi più hardcore come provare a bruciare le cornee del loro pubblico con strobo non conformi a nessuna ordinanza comunale o vendere (e indossare) merchandising fatto di materiale riflettente così che, se fotografati, le loro facce non fossero riconoscibili a causa della flashata di ritorno, hanno limitato il loro storytelling a un sito che per lungo tempo è stato nient'altro che un mix cacofonico di visual improponibili, pagine social a dir poco scarne (forse il termine più adatto sarebbe scarnificate) e press release surreali contaminate da elenchi di link senza nome che portavano a sospetti file su Mediafire o a homepage di archivi di molecole accuratamente esaminabili in 3D (dopotutto, a chi non piace smanettare con modelli tridimensionali di DNA?).
Riavvolgendo il nastro (espressione, questa, quanto mai fuori luogo, visto che qua di analogico c'è ben poco), le prime uscite a nome AS sono comparse online nel 2014. Da allora le cronache (forse dovremmo dire i feed) hanno registrato: due brevi EP, una roba che se volete potete chiamare podcast anche se sembra piuttosto la versione horror-futuristica di un vecchio radiodramma RAI la cui sceneggiatura è stata sabotata da un cyborg con la voce di Jaakko Pallasvuo e un'altra cosa, in collaborazione con Bill Kouligas, che è stata vagamente affogata nel calderone dei “progetti multimediali”, ma in realtà è un trip digitale senza fine, ormai dotato di vita propria (per informazioni presentarsi a questo indirizzo, armati di quindici minuti liberi e una buona dose di santa pazienza, visto che non c'è modo né di metterla in pausa, né di farla scorrere avanti o indietro). Nemmeno un disco intero insomma. Eppure son riusciti lo stesso, un paio di volte, a finire in svariate classifiche dei migliori album di fine anno. Il che dimostra almeno due cose: in primis che siam finiti a tirare a campare su un pianeta che ha fatto dell'incoerenza la sua ragion d'essere, ma soprattutto che in questi quattro anni la voglia di Amnesia Scanner è montata a livelli esponenziali, di pari passo con la curiosità di vederli alla prova sulla lunga distanza.
Diciamo subito che — nonostante l'altissimo rischio dovuto alle elevate aspettative — Another Life non delude affatto.
Forse perché comparso con tutta calma, una volta scoperto definitivamente ogni altarino del gioco già citato (che si sa, in quanto tale, è bello quando dura poco — o comunque, non troppo), quello che a tutti gli effetti è il loro disco di debutto lascia finalmente il tempo di concentrarsi sul contenuto, senza smarrirsi nelle vecchie distrazioni, inizialmente piacevoli ma ben presto piuttosto inutili, figlie di investigazioni a perdere su strategie di comunicazione — ripetiamo — un po' déjà-vu.
Oggi infatti sappiamo quello che ci basta per soddisfare il nostro appetito di gossip: dietro ai sampler si celano Ville Haimala e Martti Kalliala, due tizi finlandesi ormai stabilmente trapiantati a Berlino, con un curriculum precedente limitato agli appassionati ma pur sempre di tutto rispetto (dagli inizi come Renaissance Man — di cui l'attuale moniker è un anagramma — agli intrallazzi con il collettivo Janus, per finire con i recenti lavori insieme a Holly Herndon e Mykki Blanco).
Amnesia Scanner was literally born from an algorithm: we entered the words "Renaissance Man" into an online anagram generator, and the code did the rest.
Messo così un bel punto sulla questione "identità nascosta", possiamo subito notare come sia evidente, fin dal primo ascolto, un dato di fatto assolutamente non scontato: Another Life, in soli quaranta minuti, aggiunge un bel po' di ciccia al fuoco (sempre più vivo e scoppiettante) della già stratificata (a suo modo unica — nonostante le tracklist infarcite con il loro acronimo rigorosamente presente prima di ogni titolo, quasi a suggerire similitudini mai riscontrate) proposta musicale dei due: un'elettronica organica, claustrofobica e disorientante, estremamente densa ma mai troppo complessa, urticante e indefinibile, che va ben oltre la ridicola classificazione neo-savage avant-EDM senza, sapientemente, mai oltrepassare quella soglia proibita al di là della quale diventi imballabile, e quindi invendibile, e quindi poco interessante. In due parole: radical chic.
Annunciato all'improvviso, nemmeno un mese fa, dal singolo AS A.W.O.L. (un perfetto esempio di refrain post-nucleare che suona come un demo di Rihanna filtrato dagli speaker di una radiolina posseduta da un demonio che ha deciso di giocare con un paio di beat trap prima di dedicarsi a organizzare la fine del mondo), Another Life si presenta nei panni del disco che ci si aspetterebbe dagli Amnesia Scanner, ma muove subito i passi verso quello che è il vero step successivo: flirtare per la prima volta dichiaratamente con un concetto di mainstream tutto suo e riuscire a farlo nemmeno troppo tra le righe.
Non che stupisca più di tanto, la cosa: dopotutto la loro musica ha sempre espresso una certa familiarità con gli stilemi della techno (ortodossa o contaminata da tutta una serie di "house" che sia — la potenza delle ripetizioni tipica della deep, le voci effettate da un oltretomba witch, i rumorismi industrial, l'energia della prima dubstep), ma fino a oggi l'elemento disturbante aveva finito per appannare un malato senso del pop che potrebbe sembrare fuori luogo chiamare in causa in questo caso, ma che qui invece fa capolino in maniera risoluta e ostinata, reclamando il proprio spazio nelle orecchie dell'ascoltatore.
We'd like to thank our vocalist: a disembodied voice called Oracle, which represents the sentience that has emerged from AS.
Parte con un grido, Another Life, o almeno con l'elaborazione artificiale di quello che sembra uno strillo disperato in apertura di AS Symmetribal, che sintetizza (mai verbo fu più adatto) a livello onomatopeico tutta la tensione turbolenta che pervade — anche nei suoni momenti più dilatati e strutturati, quasi in un concept che racconta in modo asincrono un faccia a faccia perso in partenza con l'inevitabile avanzamento tecnologico delle nostre esistenze — tutto l'album e il suo viaggio senza bussola in quello che potremmo chiamare — se entrambe le parole avessero ancora senso ai nostri giorni — cyber-grunge.
Perché, onestamente, si fa fatica a percepire queste dodici tracce solo come canzoni: ascoltate attraverso il giusto filtro diventano pacchetti di dati in codice che vorrebbero metterci in guardia (se solo fossimo in grado di decifrare la regola buona per decriptarli) sulla simbiosi, ignorante e fragile, che ormai abbiamo sviluppato nei confronti di un mondo meccanizzato che solo in apparenza ci semplifica la vita. Dai ritmi sincopati di AS Too Wrong allo snorkeling senza bombole in acque meno convenzionali (prendiamo ad esempio l'estatica AS Unlinear o la progressione instabile di AS Chaos — che vedono entrambe la partecipazione non trascurabile di Pan Daijing) gli Amnesia Scanner propongono al grande pubblico un manifesto di digitalizzazione ibrida, dove un senso di terrore strisciante occupa fisso lo sfondo come una sorta di retrogusto, ma in nessun momento finisce per sopraffare l'obiettivo finale di tutto ciò che ruota da sempre attorno all'idea di club culture: il bisogno irresistibile di muovere le chiappe in mezzo a una pista.
Così AS Daemon rivela un certo "minimal touch" (sempre da ricercarsi ai piani seminterrati degli inferi, ci mancherebbe), AS Spectacult galleggia all'orizzonte di oscuri paesaggi rumorosi, AS Chain tira il fiato nel momento più ambient di tutto il lavoro (ma solo per accorgersi che era affanno), fino a sbattere su AS Rewind, che, posta senza particolari sorprese in chiusura, è fin troppo didascalica riguardo alla necessità di ricominciare subito tutto il bad loop dall'inzio.
Sarà che — come altri decostruzionisti della consolle (Arca, Lotic, SOPHIE) — hanno da sempre sovrapposto le loro esperienze alla frequentazione di community di design multimediale (all'inizio non si definivano nemmeno producer, ma xperienz designer — whatever that means), ma descrivere la musica degli Amnesia Scanner è un casino, quasi più che ascoltarla.
Rimanere sul vago e dire "elettronica" para indubbiamente il culo, perché sì, senz'altro si tratta di roba fatta quasi per intero con dei computer, ma il problema è che possiede un nucleo (di una potenza devastante, che quindi non possiamo non prendere in considerazione) che suona senziente, fisico, vivente. Difficilmente sentirete un synth standard o preconfezionato nelle composizioni a marchio AS: più facile trovare un rigurgito di stomaco processato in glitch o il tonfo di qualcosa che cade per le scale nell'infinito di un delay estremo. Non c'è modo di risalire alla sorgente di un particolare beat, sequenza o campione vocale (potrebbe essere il soffio di un deodorante per ambienti, il gocciolare di una tubatura che perde, tua nonna che ti chiama per cena) e questo lascia uno spazio immenso — molto più vasto di quello che un progetto rigoroso, primordiale, ma allo stesso tempo alienante nel suo slancio in avanti, come questo potrebbe portare a pensare — all'immaginazione, consentendoci di sguazzare al pari di maialini felici (ma ignari del macello che li aspetta) nel fango di quella che Masahiro Mori chiamava uncanny valley.
D'altro canto, l'obiettivo di Haimala e Kalliala è sempre stato abbastanza evidente e dichiarato, nascosto sì in un figurato bunker per ragioni squisitamente estetiche, ma teoricamente (a livello di visione, diciamo) ben esposto alla dissezione di qualunque volontario, sotto la tenue luce di quel rimane di un sole macchiato da chili di foschia retro-atomica: prendere la dance music, trascinarla in uno scantinato, torturarla fino a farle perdere i sensi, smembrarla in pezzi delle dimensioni sufficienti a entrare in un hard disk e poi ripresentarla al pubblico affamato da anni di carestie e stenti, nella forma di un mostriciattolo di bit, ricucito con sartorialità certosina, usando però il fil di ferro arrugginito intrecciato con qualche cavo dell'alta tensione. Una cosa a suo modo affascinante, che il dottor Frankestein (pace all'anima sua) avrebbe apprezzato commosso, 90% freak e 10% beautiful, da guardare e non toccare, ascoltare senza avvicinarci troppo l'orecchio (o comunque farlo a proprio rischio e pericolo), un piatto bollente da consumare subito come una vendetta al contrario che ti scotta la lingua, pietanza estrema per gente col palato fine e tanto pelo sullo stomaco (combo, questa, difficilmente riscontrabile nello stesso corpo umano, a meno — vedi sopra — di rischiosi interventi di chirurgia estrema).
Appunto. Proprio a proposito di questo (di tirare le cuoia, dico): se la musica elettronica (nella sua accezione più generica possibile) non vuole rischiare di fare la fine del cosiddetto (ricorsivamente prima vituperato e poi sentitamente compianto, nei secoli dei secoli) rock — ovvero continuare a invecchiare ogni giorno da capo, senza morire mai sul serio — questa è la strada da prendere senza guardarsi indietro.
In ogni caso, verosimilmente, l'unica possibile.