HVSR Digest #12

HVSR Digest #12

Riccardo Sinigallia, gli Any Other, gli HEALTH con Soccer Mommy, Tess Parks con Anton Newcombe e pure Ron Gallo: cinque pezzi buoni per ripartire dopo l'estate.

3 Ottobre 2018

Riccardo Sinigallia

Ciao cuore

Senza impegno e senza preavviso

Riccardo Sinigallia, visto da fuori, è sempre sembrato uno colto da una strana maledizione, una piccola, frustrante legge di Murphy allo specchio che ha finito per fargli seminare tanto per veder raccogliere, in termini di notorietà spicciola (che sia stata troppa generosità, sfiga senza confini o semplicemente una botta di vento non fa tutta questa differenza), quasi esclusivamente i suoi vicini, il campo dei quali — si sa — è sempre più verde.

Riccardo Sinigallia è infatti colui che ha contribuito a rendere ciò che sono gente come Niccolò Fabi e Max Gazzé, quello che ha raccolto da un fosso Luca Carboni, che ha regalato ritornelli epici a Frankie HI-NRG, fatto toccare ai Tiromancino vette di notorietà mai più nemmeno sfiorate e (giusto per rimanere in tempi recenti) portato Francesco Motta fuori da Pisa, dai Criminal Jokers e soprattutto dai vent'anni.

Insomma, una carriera di produttore di successo che ha fatto quasi dimenticare a molti che il cantautore romano è, innanzitutto, appunto un cantautore. Il problema è che, per un certo periodo, se ne era dimenticato pure lui: dopo tre album per niente banali, con una famiglia, due bambini e una certa indifferenza generale nei confronti delle sue composizioni, la possibilità di credere nella sua attività personale iniziava a scomparire all'orizzonte. Poi è andata che lo hanno chiamato a Sanremo e da lì si è innescato, nonostante la squalifica, una specie di circolo virtuoso (il passaggio alla Sugar, l'incontro con Caterina Caselli e tutta una serie di nuovi stimoli e gratificazioni).

La vita è strana: per dire, mai avremmo scommesso di dover dire grazie a Fabio Fazio.

Così, a quattro anni di distanza dal precedente Per tutti, arriva Ciao cuore: una piacevole, validissima sorpresa, perfettamente riassunta nella sua title-track e nel relativo video pieno, come al solito, di parenti (la moglie Laura Arzilli, i figli Manuel e Lori) e amici di sempre (su tutti un Valerio Mastandrea che — con quella faccia un po' così e quell'espressione un po' così che ormai lo caratterizzano — riesce lo stesso a strapparti un sorriso, nonostante un pezzo dal testo tanto minimale quanto profondo).

Ecco. Questo sarebbe il momento in cui rammaricarsi per il fatto che — probabilmente, quest'anno ancora — per trovare il miglior disco cantato in italiano dovremo andare a raschiare sul fondo del barile in cui abbiamo richiuso a lavorare onestamente gente che va per la cinquantina e che, teoricamente, dovrebbe (se non proprio aver fatto il suo tempo) almeno continuare a fare "la sua cosa" conscia che la ribalta è pronta per nuove leve di qualità.

O forse no. Meglio continuare a godersela, finché dura. Perché a un certo punto arriverà per forza il momento in cui saremo costretti a rassegnarci, anche in questo senso, ad «ammettere di essere soli». E allora… ciao core proprio.

Any Other

Capricorn No

Mai si cresce senza rimorsi, o un po' di nostalgia

A parte Peter Pan e Wayne Coyne tutti, a un certo punto, dobbiamo farcene una ragione e capire che è arrivato il momento di crescere.

Crescere è fico (puoi complicarti la vita con le "cose da grandi", come andar via di casa, prendere la patente, iniziare a comprare i dischi in vinile), ma comporta tutta una serie di inconvenienti che, persi nella sbornia di euforia iniziale, non sempre vengono considerati. Tipo i reumatismi, le cravatte, cercarsi un lavoro e aver meno tempo per le Instagram story. Almeno teoricamente.

Crescere vuole anche dire passare dalla più indie delle etichette indie del Belpaese (quella fondata da un gatto, non so se ci siamo spiegati) a una delle major del panorama indipendente nostrano (scusate, ma era un po' che sognavo di giocarmi un mezzo ossimoro di questo livello), da video fatti su Snapchat a una cosa come questa (un po' neo-esistenzialista — alla Lettieri, diciamo), da un disco d'esordio che non sfigurava nel ruolo di figlioccio di Pavement e Built To Spill a un secondo capitolo che prende Mount Eerie e Feist e fa ascoltar loro un bel po' di Coltrane d'annata.

D'altra parte, perché non provare a bruciare le tappe e uscire dal coro delle voci bianche il prima possibile, soprattutto se, come Adele Nigro, hai un talento compositivo fuori dall'ordinario e un approccio alla scrittura così americano che non ti fa vergognare quando ti presenti come italiano all'estero? Se infatti c'è una cosa che è facile prevedere non mancherà, in questa storia, è la capacità di gestire una tale maturità anticipata senza il rischio di trovarsi con le braghe corte e le scarpe strette a causa dell'improvviso sprint verso l'età adulta, così come quella di fare il famoso "salto più lungo della gamba" evitando distorsioni, stiramenti o pericolose perdite d'equilibrio.

Quindi ben venga tutto il necessario spellamento di mani per quella che pare una promessa già definitivamente mantenuta, a patto di lasciar libero un angolo di cuore dove andare a nasconderci quando sentiremo quel riffettino di chitarra in sottofondo sul finale e lo troveremo così spudoratamente malkmusiano da scoprirci a sussurrare sottovoce il nostro più timido sospiro di sollievo: a metà tra un esplicito "per fortuna!" e la confortante presa di coscienza che, se anche per oggi cresciamo domani, va bene lo stesso.

Ron Gallo

Always Elsewhere

Essere o non essere? O essere qualcos'altro?

Il bisogno di capire chi veramente siamo (spesso nella vana speranza di scoprirsi qualcun altro) è una delle più grandi debolezze dell'uomo. Deve essere per questo che la ben nota "ricerca di se stessi" è stata, nei secoli dei secoli, uno dei temi più dibattuti e sviscerati sotto ogni forma del sapere: dalla maieutica del metodo socratico al Siddartha di Herman Hesse, dalla beat generation on the road alle più belle frasi di Osho, dai selfie in piscina a cercarsi su Google.

Debolezza a cui non si sottrae nemmeno Ron Gallo, che, dopo un trascurabile debutto da buttare nel secchio di un certo freak-folk riciclato e il successivo (ottimo sin dal titolo, all'insegna di un'amara ironia, trascinante e velenosa) Heavy Meta, si prepara a una nuova inversione a "U" spirituale (almeno in termini di contenuti — musicalmente, sempre di un art-punk belloccio e stravagante si tratta) con il nuovo Stardust Birthday Party, in arrivo a ottobre. Riassumendo: finita in maniera burrascosa la sua ultima relazione sentimentale, ha comprato un biglietto per la California e ha partecipato a un ritiro di meditazione in un isolato centro specializzato, dove giura di aver trovato il suo personale sentiero verso la pace interiore. Tutto è bene quel che finisce bene.

Così eccolo, nel video diretto da Dylan Reyes, vestito da imbianchino hipster, portare il concetto di "self-discovery" direttamente nel mondo di un Amazon Prime versione DIY, e mettere in versi una critica dal retrogusto di carciofo nei confronti del maledetto logorio della vita moderna, dove — a causa della facilità con cui è possibile accedere all'infinita quantità di informazioni che ogni giorno ci bombarda da destra e da manca — è facile perdere di vista priorità e coordinate, sentendosi di conseguenza smarriti, al punto da non avere nemmeno il coraggio di aprire la propria scatola.

Tre minuti e mezzo che ricordano l'energia paranoica dei primi Devo, mentre scorrono via veloci, alternando frasi corte e d'impatto a sproloqui filosofici parlati (mutuati da Eckhart Tolle e Alan Watts) per arrivare comunque alla confortante conclusione secondo cui il senso dell'esistenza è… «just to be alive».

In altri termini: «Chi s'accontenta gode», diceva il saggio.

Tess Parks & Anton Newcombe

Please Never Die

Single è bello ma in due è meglio

Tess Parks e Anton Newcombe sono la versione meno cool di Courtney Barnett e Kurt Vile. O almeno saremmo autorizzati a immaginarli così nel momento in cui Courtney Barnett e Kurt Vile decidessero di impersonare i protagonisti di un remake di Lolita. Nel senso che lui potrebbe essere suo padre.

Ok, allora facciamo uno sforzo di retro-fantascienza e diciamo che Tess Parks e Anton Newcombe avrebbero potuto presentarsi come i Courtney Barnett e Kurt Vile del 1995. Se lei fosse stata sbalzata indietro nel tempo con l'obiettivo di cambiare il corso degli eventi seducendo il padre dello shoegaze psichedelico prima che facesse l'errore più grave della sua vita. Ovvero cadere nelle grinfie di Asia Argento.

Perché sì, come personaggi ci siamo: l'uno non si sa se fascinosamente burbero oppure introverso ai limiti dell'autismo, l'altra deliziosamente trasandata ma spigliata al punto di non mandartele a dire, entrambi molto slacker ante-litteram. E invece nel '95 erano erano tutti e due "in altre faccende affaccendati": Tess Parks presa da una qualunque delle attività che riempiono le giornate di una bambina di due anni, Anton Newcombe occupato con un imminente debutto che avrebbe fatto la storia.

Quindi niente: accantoniamo l'idea nel pingue fascicolo delle occasioni perse e accontentiamoci del fatto che la cosa non è stata proprio del tutto archiviata, ma semplicemente rimandata a vent'anni dopo. Vent'anni durante i quali lei ha avuto il tempo di trasferirsi dalla natia Toronto a Londra, lasciar perdere gli iniziali studi di fotografia, diventare la protégé di Alan McGee e avere un contratto garantito con la sua Creation Records, lui di mettere in fila qualcosa come diciotto album con i Brian Jonestown Massacre.

Il secondo (probabilmente omonimo) capitolo partorito dalla premiata ditta (all'insegna del "niente di nuovo sotto il fuzz" — drone-rock jam di tre accordi indovinati e ripetuti lentamente all'infinito su cui cantare con una vocina a metà tra il sexy e l'annoiato) ha avuto una gestazione abbastanza travagliata e la sua data di uscita è in ballo da più di un anno (ultime notizie: 12 Ottobre), al punto che i due si son potuti permettere di girare ben due video di Please Never Die, uno più low-budget dell'altro. Questo, che vede la Parks ballare strafatta in uno dei peggiori locali di periferia indossando la maglietta che tutti avremmo voluto ai tempi di (What's The Story) Morning Glory? — a sua volta adattamento brit-pop di una molto più iconica, ma comunque quanto mai attuale in un momento storico come questo, in cui si paventa una certa reunion — l'altro risalente a svariati mesi fa e probabilmente commissionato a un'agenzia di viaggi, visto che sembra seguire pedissequamente il concept "indovina in quale parte d'America abbiamo girato questa scena".

Da cui la vera domanda di tutta questa storia: se esce più di una volta può ancora chiamarsi "singolo"?

HEALTH (feat. Soccer Mommy)

Mass Grave

È peggio morire o innamorarsi?

Il comunicato stampa la butta là così:

The annals of music history are filled with a rich tradition of trios: Crosby, Stills, and Nash… Emerson, Lake, and Palmer… Lennon, McCartney, and that other guy… now Soccer Mommy, a half of Purity Ring, and HEALTH.

Ripassiamo un attimo le quattro operazioni: Soccer Mommy è Sophie Allison, i Purity Ring sono Megan James e Corin Roddick, gli HEALTH… Benjamin Jared Miller, Jake Duzsik e John Famiglietti. Quindi, ricapitolando: 1 + (2/2) + 3 = 5. Da cui il sospetto che il termine "trio" sia, nel caso specifico, quantomeno usato in maniera impropria.

Ma si sa: la critica musicale è per natura pedante, pignola, supponente e antipatica, mentre la matematica, d'altronde, è diventata nei secoli dei secoli sempre più un'opinione, al punto che ormai ognuno si è fatto la sua e "uno vale uno" solo quando ci conviene. E poi — a dirla tutta — anche i Beatles erano quattro, quindi è ufficiale che qui i conti non tornano, o che comunque qualcuno ha drogato i numeri a scopo promozionale, non considerando il fatto di poter venire smascherato da un giornalismo d'inchiesta come il nostro.

Dal canto suo, la Allison ha commentato il tutto con candida ingenuità:

I really enjoyed getting to work with the guys from HEALTH on this song. It's one of the first features I've ever done and I love the finished product. It has a kind of apathetic sadness to it that I was really drawn to.

Affermazione che, a livello di creatività, sta giusto uno step sopra il pensierino di un alunno di prima elementare (svolgimento: "Cosa ho fatto questo weekend").

In conclusione, queste le proiezioni di voto in previsione delle pagelle del primo quadrimestre: loro 4 in matematica, lei 5+ in italiano.

La lezione di musica invece è stata più produttiva e Roddick (che, nei panni del maestro, ha prodotto questo nuovo singolo, con cui la band californiana tornare in pista dopo tre anni) dà a tutti un bel sei e mezzo, visto che il pezzo in effetti funziona: una murder ballad da night club raccontata con synth lenti e pesanti tipicamente HEALTH™ su cui la voce apaticamente adolescenziale di Soccer Mommy non sfigura affatto.

Il video (con i visual a cura di Zev Deans — fondamentalmente una carrellata di teschi fluo a tratti arricchiti da vermi che escono dalle loro cavità oculari) mette subito di buon umore e, sul finale, addirittura si apre a sorpresa al più puccioso ottimismo con quel "YOU WILL LOVE EACH OTHER" che riporta la questione su un piano già battuto in passato per mezzo di qualunque forma d'arte. Dai dipinti di George Frederic Watts, alle innumerevoli rivisitazioni di Romeo e Giulietta, al sogno punk di Sid e Nancy.

Note a margine
Questa mini playlist è un piccolo estratto di quella che è stata selezionata in esclusiva per hvsr.net e che ancora continua a fare la sua porca figura, in costante evoluzione, sull'omonimo sito. La riportiamo anche qui, in fila per cinque con il resto di quel che avanza, per questioni di vanagloria, completezza e perché Spineless è come il maiale: non si butta via nulla. Ma soprattutto per non dimenticare, a perenne memoria di quei bei tempi andati in cui i mixtape si facevano a mano e gli algoritmi ci mettevano i bastoni tra le ruote solo durante le ore dei corsi di algebra.
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