5 dischi usciti nel 2016 che ci cantano dentro in italiano. Perché va bene non discriminare, ma si sa: le parole sono importanti, e capire fischi per fiaschi è un attimo.
12 Gennaio 2017
Ecco. Ora dovrei prendervi a schiaffi come insegna Nanni Moretti e — con riferimento per niente casuale alla lingua usata per dirle — gridarvi in faccia:
Le parole sono importanti!
Sì, perché è vero che ho sempre considerato poco sensato (per non dire auto-ghettizzante) fare due classifiche diverse tipo "Migliori Album Italiani" vs. "Migliori Album Stranieri" (nel senso di dischi di artisti italiani contro dischi arrivati dall'estero), ma trovo invece che la decisione di cantare in lingua italiana giustifichi in parte una qualche differenziazione.
Ok. È risaputo che l'arrampicata sugli specchi è il mio sport preferito, ma qui la questione è seria e cerco di spiegarmi meglio (si fa per dire).
Se da un lato infatti una band di Castel Goffredo (MN) che canta inglese può tranquillamente fare un disco paragonabile a una di Glasgow (e probabilmente, nel caso specifico, si presenterà pure con un inglese più piacevole all'orecchio — non so se avete mai sentito parlare uno scozzese), una band che decide di cantare in italiano opera una scelta che potete definire come volete (folle, coraggiosa, suicida, politica, romantica, onesta, patriottica or whatever) ma che è innanzitutto una scelta sonora. Questo perché ogni lingua ha — prima ancora che delle parole e dei significati — dei suoni e una musicalità caratterizzanti, peculiari e che la rendono unica.
Estremizzando il concetto, scegliere la lingua da usare per raccontare la tua musica è come scegliere un particolare strumento per suonarla e decidere di cantare in italiano invece che — che ne so — in tedesco non è molto diverso dal valutare se per creare il tipo di musica che hai in mente è meglio fare le audizioni per un violoncellista o chiamare quel tizio strano che hai visto su YouTube suonare la chitarra con la sega circolare, avete presente?
Insomma. Tutto questo pippone introduttivo per giustificare l'uscita di questa nuova listina che potete vedere come una bonus (se siete i tipi a cui piacciono i regali utili) o una hidden (se invece siete di quelli che preferiscono le sorprese) track fuori tempo massimo del listone di fine anno che vi siete sorbiti qualche giorno fa. Pippone che, tra l'altro, fa anche un po' ridere se penso — spoiler alert ma non troppo — che alla fine poi questa ipotetica Top 5 non rende nemmeno minimamente merito né giustizia alla classica figura della bella ugola italiana, del cantante o cantore intonatissimo che non sbaglia una nota nemmeno a pagarlo, di sanremiana o neoromantica memoria. Infatti, se si esclude un caso fuori classifica in cui ce la si cava con il trucco sempreverde — e sempre apprezzato — che vede un discreto crooning intrecciarsi con un'ottima voce femminile, in altri due c'è gente che invece di cantare semplicemente parla, mentre nei due rimanenti canta qualcuno che — chiamatela slacker voice se vi suona più fico, ma il concetto non cambia — se non è propriamente stonato poco ci manca.
A ribadire così che anche nella musica content is king e che pure le voci — come le apparenze — a volte ingannano.
Questo è quanto.
Io che i miei vent'anni li ho finiti da un pezzo e iniziati da dieci anni più di un pezzo (la matematica non è un'opinione, dicono — anche se a me sembrano durati un paio) credo di poter permettermi per un attimo di fare il nostalgico noioso, quello che quando aveva vent'anni lui tutto era più bello e aveva un altro sapore e quindi mettere le mani avanti e ammettere ufficialmente che a me Motta piaceva più con i Criminal Jokers, riguardo ai quali — così a margine e giusto per rimanere nel personaggio — mi prendo il lusso di aggiungere un'altra frase fatta, ovvero: uno dei gruppi più sottovalutati del nostro sottobosco indie. Premessa questa che, oltre a presentarmi in tutta la mia splendida autoironia, mi permette di passare in scioltezza alla seconda fase del discorso, cioè quella in cui vesto subito a seguire i panni del vecchio illuminato che nonostante tutto riesce comunque a riconoscere un gran bel disco anche contro i suoi gusti e i suoi rimpianti.
Sì, perché il Francesco Motta solista e italianissimo — se si escludono un paio di passaggi discutibili alla Manu Chao — fa indubbiamente centro al primo colpo. Grande merito per questo va sicuramente a Riccardo Sinigallia che ha deciso di produrre il disco dopo un lungo processo di stalking da parte dell'ex collaboratore di Nada, Pan del Diavolo e Zen Circus (tra gli altri), ma che in conclusione ha finito per metterci — come sempre — parecchio di suo (pure troppo a tratti: non solo produzione artistica e composizione a quattro mani di alcuni brani, ma anche la compagna ex Tiromancino Laura Arzilli al basso e suo figlio di dieci anni Manuel al cembalo e allo shaker, oltre che nonno Lello — Arzilli, padre di Laura — al sax). Sinigallia produce pochi dischi, e quei pochi li sceglie bene e se ne innamora (l'ordine con cui succedono le due cose non fa molta differenza), quindi prendiamo la cosa come garanzia di qualità e gli perdoniamo questa intrusione massiccia, che trascende i suoni e sconfina spesso direttamente nella scrittura. Scrittura, quella di Motta, già di per sé estremamente incisiva: asciutta ma personale, ripetitiva ma concreta, asimmetrica ma per nessun tratto stanca, canta il disagio contemporaneo senza mai piangersi addosso né cadere in quella facile forma di difesa chiamata sarcasmo che affligge le opere di molti suoi colleghi e coetanei.
La fine dei vent'anni diventa intenso proprio giocando sulla sua natura precaria, sul suo metterci la faccia fin dalla copertina, sul suo raccontare e raccontarsi quella che è sì una fine ma allo stesso tempo può e deve essere un inizio, e si rivela a conti fatti — e a dispetto di qualche analisi superficiale che vorrebbe sottolineare un male interpretato cinismo di fondo — un meraviglioso disco sul restare, restare per vedere se davvero (e fino a che punto) l'insistenza anacronistica con cui restiamo può salvarci, restare così forte finché ci esce sangue dal naso, coscienti che mandare tutto in vacca quasi mai è la soluzione e che anche restare «ad aspettare insieme la fine delle cose» a modo suo è amore, perché l'amore vero — se esiste — altro non è che una questione di tempo.
Un disco suonato in gran parte con gli strumenti scordati — true story — ma che temo faremo fatica a scordarci, indipendentemente dai giorni che passano, dall'età e dal fatto che i nostri vent'anni siano iniziati, finiti o in corso d'opera.
Un vecchio pianoforte lasciato solo in un salone, appena restaurato, ma già polveroso per l'abbandono. Un uomo vestito con eleganza si avvicina titubante e comincia premere i tasti, quasi a caso. Non si toglie nemmeno il cappello: non pensa che andrà avanti per molto, la cosa — è solo un tentativo di rompere il ghiaccio. Come parlare del tempo che fa senza rischiare di rimanere invischiati nel tempo che fu. È un approccio traballante, come un bambino che inizia a camminare reggendosi ai tasti, un flirt insicuro dove sai a malapena che le mani le hai messe sotto la maglia di lei, ma non hai bene idea di cosa ci troverai. Eppure ogni cosa — come sempre — fa il suo corso, le mani incontrano i tasti, i passi diventano note e qualcosa esce. Qualcosa di bello, per la precisione. Qualcosa che ti viene da cantarci sopra. Ma l'uomo non sa cantare e quindi fa l'unica cosa che sa fare che — mica casualmente — è la cosa che sa fare meglio: prende il pianoforte e gli parla addosso, gli sputa sopra storie livide e strazianti, grigi racconti narrati a voce come ha sempre fatto, nei secoli dei secoli. Questo, in sostanza.
Emidio Clementi appende il basso a un temporaneo chiodo e prende possesso dello sgabello girevole da dove — nonostante il precario equilibrio — continua il suo recitato quasi neorealista anche se da un altro speakers' corner. Un angolo scarno, dove le chitarre si sono estinte e la batteria è simulata, dove quello che era elettrico diventa elettronico grazie al prezioso lavoro di Marco Caldera, che cuce ogni bozzetto melodico in vestiti declamati tagliati a puntino. Per il leader dei Massimo Volume è giunto l'ennesimo (anche lui ha perso il conto, credo) momento di sedersi al tavolo di un bar e fare i conti in tasca alla vita, per non soccombere alla guerra che ci aspetta domani, che altro non è che quella — infinita — tra ciò che si è lasciato per strada e ciò che resta (o forse sarebbe meglio dire avanza). Il momento di togliersi qualche sassolino dalle scarpe sfinite e dirne un paio a chi pensava che non ce l'avremmo fatta, noi perennemente in bilico in un'oscurità rappresa nei pensieri affollati di menti insonni e (in)felici.
Il pericolo-noia c'era, e l'allerta era altissima. Ovvero il rischio di trovarsi di fronte alla reiterazione di un già sentito su cui Clementi ha di fatto costruito una carriera, facendone il simbolo e l'unica espressione evidente del proprio comunicare in musica. Ma invece l'esperimento Sorge (se di esperimento si è trattato) funziona e conquista ancora, candidandosi a potenziale prosieguo di progetti rimasti in sospeso o abortiti sul nascere come El Muniria e Stanza 218. Il pianoforte disegna quella semplicità che da sempre è la madre — puttana come non mai — di tutte le meraviglie, e le ambientazioni glitch o le stratificazioni noise che lo accompagnano raramente deludono o prendono il sopravvento, pur non risultando mai semplice tappeto. La guerra di domani dice tutto quello che c'è da dire e non una parola di più, il che è un pregio non da poco. Parte da briciole di pane secco e le trasforma in struggenti diamanti scalfiti che — come ogni volta quando c'è di mezzo Mimì — mescolano letteratura e quotidianità, astrazione pura e realtà vissuta, perché alla fine — sempre, quando vinciamo e quando perdiamo — senza mezzi termini, «noi facciamo ciò che siamo».
Scordatevi per un attimo (se i morsi della fame e le trattenute sullo stipendio — se avete uno stipendio e non un voucher — ve lo permettono) Monti, la Merkel, la Fornero e questa — o qualunque altra — ennesima Repubblica che vi impone di tirare la cinghia. Questo è un progetto che arriva da Reggio Emilia e quindi l'austerità in questione è quella di ben più alta levatura che rimanda al buon vecchio — pace all'anima sua — Berlinguer: quella che significa(va) «rigore, efficienza, serietà, e quindi giustizia». Nove tracce rigorose, efficienti (ma ancor prima efficaci), tremendamente sobrie e quindi — come ci aspetta dalla voce semiseria di Max Collini — severe ma giuste.
Finita (tragicamente come sappiamo) l'esperienza legata agli Offlaga Disco Pax — una delle formazioni italiane di cui sentiremo più la mancanza col tempo che passa — Max prova a tornare in pista grazie al supporto non trascurabile di Jukka Reverberi dei Giardini di Mirò. Dopo aver testato bene la nuova (vecchia) formula (prima con le estemporanee Letture Emiliane, poi con un tour che li ha portati a girare — in treno — tutto lo stivale), i due arrivano al debutto su disco registrando un perfetto collage delle solite (bellissime) istantanee, che galleggiano sempre su una superficie fatta tanto di uno scenario politico decadente (e decaduto — deceduto, direi) quanto di ricordi autobiografici, arricchite in questo caso da tre ulteriori testi di Paolo Nori, Simone Lenzi (Virginiana Miller) e Simona Vinci. Un piccolo mondo talmente antico da sembrare quasi sbiadito e irreale, un mondo che suona in bianco e nero, guardato con tutta la malinconia e il disincanto che si merita un comunismo che poteva essere e non è stato, dove il parlato di Collini fa irruzione con frammenti sfiziosi e l'ormai noto piglio magistrale, incastonandoli nelle atmosfere sonore dal sapore surreale create da Reverberi (loop, droni, campionamenti, drum-machine, elettronica minimale e chitarre shoegaze — post-rock in tutte le sue forme e sfaccettature insomma). La scrittura dell'uno — che, nonostante i temi già in qualche modo lontani, risulta ancora di un'attualità disarmante e spaventosa, e riesce forse anche per questo ad attrarre ed emozionare ancora una volta — è perfettamente coadiuvata dalle soluzioni musicali dell'altro che riesce a tradurre in atmosfere cose per niente scontate come l'ironia, l'amarezza, il sarcasmo e la conseguente — inevitabile — manciata di tristezza che mai comunque si percepisce come fardello pesante.
Ci mancava, tutto questo, sul serio. E non poteva esserci combo migliore per far proseguire ed evolvere quell'idea di narrazione sociale e meta-politicizzata, della quale gli Offlaga sono stati la più recente (e forse la più significativa) espressione (prendete la parola con le dovute pinze) mainstream. Ritrovare (dove per "ritrovare" intendo prima ancora non perdere) uno degli ultimi esponenti di un modo così anticonvenzionale di fare musica è qualcosa che ci arricchisce e può mantenere le nostre menti atrofizzate un po' più allenate in quell'educazione dell'alternanza che stiamo progressivamente perdendo e che dovrebbe oscillare in maniera equa tra due capisaldi della natura umana: parlare e ascoltare.
«Di che stiamo parlando?» è (dovrebbe essere, almeno — se avessimo davvero un minimo di cognizione dell'assurdità di quello che ci circonda) la domanda che tutti ci facciamo una volta aperti gli occhi la mattina. Se avessimo un minimo di cognizione dell'assurdità di quello che ci circonda, retorica sarebbe, la domanda. Il che non impedirebbe comunque di pórcela: dopotutto svegliarsi bisogna comunque, sempre. Michele Baldini e Francesca Storai lo sanno bene, così come sanno che la risposta quasi mai c'è, e quando c'è quasi mai dà — se non proprio conforto — nemmeno la voglia di alzarsi. Per questo tornano a galla sorretti da una spinta minimale, lavorando di sottrazione e senza la paura di lasciare chi ascolta davanti a tutte le pagine bianche necessarie per trovare le — poche o tante che siano — parole giuste.
L'ultimo album dei Piet Mondrian risaliva al 2009 e si intitolava Purgatorio, come il mondo che ti trovi davanti una volta aperti gli occhi la mattina quando ti svegli e ti chiedi di che stiamo parlando e — cosa prevedibile, dopotutto — i due musicisti toscani non sono riusciti (né hanno voluto) uscirne, perché — come tutti noi, del resto — «il senso di colpa ci fa sentire bene». Sette anni in cui Michele e Francesca sono andati a letto presto, mentre noi sdoganavamo velocissimi il primo decennio di questi cazzo di anni zero correndo sul posto come forsennati, mentre noi giovani di belle speranze, a forza di voler cambiare, siamo diventati vecchi. Uguali a prima, ma più brutti.
Il risultato di questa loro paziente attesa seduti in riva al tapis-roulant della palestra evolutiva è l'ennesimo lavoro di alto livello, che proprio guardando anche al passato riesce a risultare perfettamente a suo agio con le suggestioni e i suoni contemporanei: è una specie di De Andrè che incontra gli Offlaga Disco Pax, sono i Disciplinatha strappati senza rimorsi dal post-anni di piombo e confinati in un recinto puramente cantautoriale. Non è vintage, né la particolare nostalgia del "si stava meglio quando si stava peggio": è un songwriting estremamente intimo, un pop esistenziale che sta solidamente in bilico tra digitale e analogico e riesce a descrivere al meglio il rapporto tra individuo e società, tra provincia e provincialismo, tra periferia e città, ovvero l'attualità di noi splendidi quarantenni che abbiamo coscientemente abbandonato — senza troppi rimpianti — ogni sogno di gloria a breve o lungo termine. Due voci a contrasto che raccontano le stesse storie, chitarre acustiche e synth alla Carpenter per una fantascienza retrò che fa archeologia nelle nostre cantine per poi arredarci di nascosto il soggiorno. Prima un passo avanti per sbatterci in faccia le cose come stanno e subito dopo due passi indietro per vedere meglio l'effetto che fa.
Perché, per usare le loro stesse parole «ci vuole tanta visione di insieme per capire bene se le cose hanno un senso», qualunque esso sia. Ai Piet Mondrian questa visione non manca, al punto che sembrano quasi sapere sul serio di cosa stiamo parlando.
La targa, dico. Quella delle macchine. Comunque. Giusto per rimanere in tema di vent'anni, io non so se sia meglio avere venti anni a Seattle agli albori degli anni Novanta o averli — i soliti vent'anni o poco più — a Prato nei 2000 inoltrati. Col senno di poi, ripensando a quella micro-rivoluzione musicale che arrivò dalla West Coast — ma guarda un po' — vent'anni fa, immagino nessuno si porrebbe tutti questi dubbi: Seattle e dintorni tutta la vita. Soprattutto considerando che, fatte le dovute proporzioni, il concetto americano di "dintorni" comprende almeno altri due o tre stati e quindi risulta meno claustrofobico della piazza di Seano. Anche se poi vedi un paio di documentari sulla periferia della città più famose di quelle zone e realizzi che anche il quasi nulla che c'è tra Galciana e Iolo potrebbe avere, almeno a livello di immaginario estetico, qualche chance. Questo per dire che se i Meat Puppets fossero nati a Vaiano invece che a Phoenix (Arizona) — oltre che dare finalmente a Fiumani quel «disperato e reale aggancio con la realtà» che è andato cercando per anni — probabilmente avrebbero fatto un disco così: disperatamente felice e allucinatamente punk.
Alessandro Gambassi e Emanuele Ravalli si prendono una temporanea vacantza dai loro progetti principali (Solki, Topsy The Great) e mettono insieme tredici canzoni scarne e stralunate, suonate solo con due chitarre acustiche (una standard e una folk a dodici corde) per un totale di trenta minuti scarsi, diciotto corde e una voce. Canzoni urgenti, mediamente brevissime, con i titoli scritti tutti attaccati perché il bisogno di suonarle era così impellente che non c'era tempo (né spazio) nemmeno per — appunto — gli spazi tra una parola e l'altra. Sguazzando come pesci in mezzo a rime solo apparentemente nonsense e personaggi solo a prima vista innocui e superficiali, i Vacantze scarabocchiano un quadernetto di appunti e ricordi artigianali: malinconie minuscole che sanno farsi vivaci raccogliendosi attorno a poco, per renderlo magicamente — senza mezzi termini — nulla o tutto. Il loro omonimo debutto sembra un demo straordinariamente curato e costruito abilmente, mettendo in ordine una cameretta in cui troviamo sparsi sul pavimento flash ordinari e immagini bizzarre, sconosciuti affogati nei cuscini e valigie piene di cemento: un grunge bambino e minimale, inventato per decostruzione con il gusto — più genuinamente curioso che sadico — di vedere quel che ne rimane.
Vacantze potrebbe essere la colonna sonora di un western sul cui sfondo invece che rotolare covoni di sterpaglie svolazzano sacchetti di plastica della monnezza e da cui — invece che sulla groppa di un ronzino torturato dalle mosche — provi a scappare in sella a uno Scarabeo (il motorino, dico) rubato, nella speranza di lasciare chi ti insegue a mangiare non tanto buona, vecchia, poetica polvere quanto la sua versione 2.0: le polveri sottili. Per poi accorgerti che non ti stava inseguendo nessuno, ovviamente. In pratica ci troviamo di fronte a un gioellino lo-fi che fa intravedere cosa sarebbe potuto succedere se a suonare durante il ben noto Unplugged in NY ci fosse stato, invece che Kurt Cobain, la versione intelligente del primo Bugo: un album che al primo ascolto puoi odiare senza riserve, ma che ti folgora progressivamente di minuto in minuto, fino a conquistarti — anche tuo malgrado — in quanto disarmante, sincero e molto più complesso di quel che può sembrare.
Miniature leggere da tenersi sempre in tasca, buone per risollervare il morale — da qualunque lato le guardi — in ogni momento: piccole pillole stranite — e stranianti — da inghiottire al bisogno incrociando le dita. Come le Zigulì, ma meno dolci.