Il nuovo film di Jim Jarmusch è come una poesia sul nulla, ma così tanto nulla, un nulla così grosso, pesante, pervasivo, invadente: un nulla così presente che sembra quasi pieno di poesia.
14 Gennaio 2017
Dire che Paterson è un film lento non rende l'idea. Paterson è un film fermo. O almeno così lento che sembra non andare da nessuna parte, non riuscire a andare da nessuna parte, forse proprio non volere andare da nessuna parte. Un film così lento che anche se decidesse di andare da qualche parte — qualunque parte — chissà quando ci arriverebbe. Così lento che nemmeno mandandolo in time-lapse tornerebbe ad assumere un ritmo ragionevole. Così lento che abbiam fatto fatica a arrivare alla fine di due minuti di trailer, figurarsi che impresa gestire due ore di film.
Paterson è una cittadina del New Jersey in cui non succede mai niente: c'è un pub, una grande scritta "Paterson" sul muro in mattoni di una vecchia fabbrica e la stazione degli autobus. In pratica a Paterson di mestiere o fai il graffitaro, o guidi l'autobus. Cioè, a voler essere precisi, a Paterson non hai molte altre scelte oltre a quella di guidare l'autobus: una volta c'era uno che invece voleva fare il graffitaro e allora scrisse "Paterson" sul muro della vecchia fabbrica. Poi basta, ora ha cambiato mestiere. Guida l'autobus. In ogni caso, qualunque cosa tu faccia il pomeriggio, la sera ti fai una birra al pub e poi vai a letto.
Paterson è anche un tizio che vive a Paterson e che è il protagonista del film Paterson. Paterson — il tizio, dico — di mestiere guida, appunto, l'autobus: la mattina si sveglia, passa davanti alla grande scritta "Paterson" sul muro della vecchia fabbrica e va a lavorare alla stazione degli autobus. Quando ha finito il turno torna a casa passando davanti alla grande scritta "Paterson" sul muro della vecchia fabbrica, subito dopo cena si fa una birra al pub e poi va a letto. E così via. Nei momenti morti della giornata scarabocchia con una penna blu qualche verso su un taccuino.
Non si fosse capito, una giornata a Paterson — la cittadina, dico — è un cimitero di momenti, quindi il taccuino è strapieno di versi scarabocchiati con la penna blu. Parlano di fiammiferi sempre a portata di mano con i loro steli di tre centimetri e mezzo in legno di pino, sormontati da una testa granulosa viola scuro, così sobri e furiosi e caparbiamente pronti a esplodere in fiamme. Parlano di quando sei un bambino e impari che ci sono tre dimensioni: altezza, larghezza e profondità, come una scatola da scarpe, ma poi più tardi capisci che c'è una quarta dimensione, il tempo, e alcuni dicono addirittura che forse ce ne sono cinque, sei o addirittura sette. Parlano di passare attraverso trilioni di molecole che si fanno da parte per lasciarti passare, mentre su entrambi i lati altri trilioni restano dove sono e di quanto i tergicristalli facilitino questa operazione. Ecco, non so se ci siamo spiegati.
Paterson — il film dico — è come Paterson il tizio e come Paterson la cittadina (o viceversa, in questi casi i rapporti di causa/effetto si intrecciano in uno scaricabarile che non ci permette di dare la colpa a qualcuno in particolare): un film in cui non succede niente.
Questo perché Paterson non è un film su un particolare personaggio o su un ben definito luogo, ma è fondamentalmente un film sulla poesia. Quella poesia piccola ed esistenzialista che ti va a sbattere nell'immaginario con ghirogori minimali, quella che prende forma per sottrazione, una volta tagliati via tutti i fronzoli di troppo. Cosa, questa, che ha portato tutta la critica a cadere nell'imbarazzante errore semantico di definirlo un film poetico. Il che sarebbe come dire che un film che parla di automobilismo è un film veloce o che uno che parla di fighe è un film bello. O che Film bianco di Kieślowski è un film — che ne so — pallido.
Nel senso: van bene le recensioni affrettate, ma così ci pare un po' troppo anche a noi che siam pionieri di questo sport e maestri indiscussi in materia.