5+1 dischi usciti nel 2018 che ci cantano dentro in italiano. Selezionati con colpevole ritardo, ma che denotano conforanti cenni di ripresa e uno stato di inaspettata buona salute nella patria del Belcanto.
2 Febbraio 2019
Dunque. Della distinzione tra dischi fatti da gente italiana che canta (o non canta) in un'altra lingua e gente (anche straniera, perché no? Dopotutto scoprire il nuovo Mal, il nuovo Rocky Roberts o i nuovi Rokes sarebbe il mio sogno) che invece ha scelto l'italico idioma per esprimersi in musica ne abbiamo già parlato. Del fatto che i primi secondo noi vanno equiparati (e, se proprio vogliamo essere sadici, messi in competizione) — al netto di discriminazioni geografiche — con gente che canta in quella lingua ma viene da altri paesi, mentre questi ultimi si meritano una classifica a parte, pure. Che siamo troppo buoni per fare delle classifiche degne di questo nome e che quindi queste classifiche qui non sono vere e proprie classifiche ma piuttosto liste inconsulte, sguaiate e per nulla esaustive… figuriamoci, quello è un nostro cavallo di battaglia da sempre. Se poi ci mettiamo che anche nella produzione di panegirici sconclusionati per giustificare perché queste cose che non sono classifiche le buttiamo in pasto ai sorci quando ormai è clamorosamente troppo tardi siamo ben allenati, direi che il quadro è completo e qualunque altra parola sull'argomento sarebbe di troppo.
Come ultimo (in senso cronologico), tragico esempio, questo caso specifico, dove abbiamo ben pensato di attendere febbraio per partorire sei ponderatissime posizioni complessive, di cui almeno le prime cinque potrebbero tranquillamente — per quel che ci riguarda — essere un primo posto a pari merito, mettendoci così nella sgradevole posizione di ritrovarci nel dubbio che, a quel punto, sarebbe veramente da maleducati lasciare il sesto solo soletto là sotto senza farlo salire ad abbracciare gli altri, felicemente stipati sul gradino più alto.
Nel senso, va bene che l'importante è vincere, ma lasciamo un minuto di gloria anche a chi ha solo partecipato e ha avuto solo la sfortuna di non entrare nelle grazie di una macchina volubile, fallace e a volte pure presuntuosa e vendicativa come il fotofinish.
Sempre che non sia quell'idiota baffuto e subdolo del barone De Cubertin, s'intende.
"Noi" siamo, as usual, io e il mio entusiasmo e quest'anno è andata che — soprattutto lui, incredibilmente — si è (ehm) entusiasmato più del dovuto per un sacco di dischi declamati, appunto, in italiano.
Sarà che — per motivazioni che ci sfuggono completamente, nel momento in cui proviamo a cercarle oltre il vago orizzonte di una semplice congiunzione astrale — ne abbiamo ascoltati una quantità maggiore del consueto (in poche parole: più per caso che per scelta), sarà che abbiam passato dei momenti un po' così — di quelli in cui avere accanto qualcuno che ti racconta le cose in una lingua che conosci ancora a memoria, nonostante lo scempio che ne stanno facendo i tuoi connazionali, e che ti permette di andare a scovare sfumature inattese e salvifiche prese di coscienza, fa la differenza — sarà quel che sarà, ma il fatto è che, a differenza di altre volte, per trovare roba di qualità, non siamo dovuti andare per forza a raccattare soltanto i soliti vecchi riportati dalla piena e, anzi, ci siamo concessi pure il lusso di un paio di piacevoli scoperte, non propriamente giovani, ma che avevamo colpevolmente trascurato in passato, e che comunque — sempre, rigorosamente e inspiegabilmente — stavano tranquille a pascolare fuori dal giro che conta.
Insomma, a livello musicale, la situazione di questa povera nazione sembra un po' meno tragica di come appare se si guarda alla politica e ai suoi derivati: niente che ci prospetti un futuro esattamente platinato o una qualche garanzia che ci immunizzi da una qualunque profezia di recessione imminente, ma lo stesso una luce in fondo al tunnel della TAV, che ci fa dire con relativa sicurezza — nonostante la lucidità di giudizio annebbiata dalle ben note dosi da cavallo di paracetamolo e le orecchie ovattate a causa degli altrettanto famosi vocali di dieci minuti che hanno ormai contribuito a elevare una generica felicità all'invidiabile stato di zoccola — che non è tutto it-popporno, denti d'oro e fascisti col Rolex quel che luccica.
È abbastanza bizzarra, come scelta, eppure — uno non lo direbbe, e invece — c'è una lunghissima lista di motivi per cui può avere senso scegliere Arto come titolo di un disco. Soprattutto se sei uno che le cose le vede deformate da un filtro di senso dell'umorismo storto e tutta suo come Nicola Setti.
Innanzitutto il buon vecchio Arto Lindsay, celebrato non solo come ascolto compulsivo e ispirazione musicale, ma anche — e soprattutto — come esempio di approccio al lavoro e di amore per la canzone, oltre che il per il mai troppo sottovalutato linguaggio. Poi perché realizzare un album — a maggior ragione se complicato da tempi, di scrittura prima e lavorazione poi, molto lunghi — è una di quelle cose che pensi ci voglia un dito ma poi ti prendono un braccio. Così se allora ne esce una cosa più arty (ma in senso buffo — una forma ironica di arte che fatica a prendersi sul serio, diciamo) meglio ancora. Aggiungiamoci inoltre che mentre lo componevi avevi spesso di fronte un bellissimo quadro di uno dei tuoi artisti preferiti (Alessandro Formigoni) — per la precisione quello che ritrae un maiale astronauta senza un braccio — e il danno è praticamente fatto. Se, oltre a tutto questo, ti sforzi di sentirci anche un'assonanza con "earth" e "heart", allora è tutto grasso che cola. A quel punto hai superato definitivamente quella linea oltre la quale diventa dura trovare una parola più rappresentativa per descriverlo e, anche quando arriva il momento di scegliere la foto di copertina, riporti tutto (e tutti) a casa optando per un tuo ritratto che inizialmente avevi scartato: quello con un braccio in primo piano. Tutto torna alla fine.
E prende senso anche un lavoro brevissimo, ma estremamente dettagliato nella sua confusione di fondo, costruito su istantanei ma efficaci flash surreali e paradossali. Scritto inseguendo libri, dischi e film che prima hanno avuto il torto di segnarti la vita e ora si intersecano tra situazioni meta-comiche, quasi grottesche, correndo dietro alle coordinate di un racconto apparentemente sconclusionato ma non privo di (in)controllabili flussi di coscienza. Una roba divertente e agrodolce, permeata di una sincerità quasi contagiosa, che ricorda la brillantezza del miglior Dente degli esordi o la sana follia pacata di un ipotetico Bugo meno pieno di sé, fatta di una geografia interiore intrecciata con un romanzo generazionale tascabile stampato a caratteri grossi.
Nessuno lo nega, è una formula musicale ben rodata in questo paese e sotto questi chiari di luna, che fa dell'immediatezza uno scudo paraculo a sottintese attitudini da songwriter e che strizza l'occhio a un indie-rock a volte spettinato da una chitarra vagamente wave, altre solo in apparenza dimessamente acustico e consolato da testi che suonano fighi prima ancora di accorgerti che magari sono davvero interessanti. Però va detto che qui, se non altro, il presunto bluff è dichiarato in partenza: Setti non è uno che con le parole riesce (né, probabilmente, vuole) costruire mondi, ma indubbiamente sa descrivere le quattro banali strade intorno a casa rendendole, se non proprio indimenticabili, almeno degne di pungolare la tua curiosità di andare a verificare di persona se davvero le cose stanno come le ha messe giù lui. Non un album per chi cerca la poesia intesa come catarsi, ma più per chi si accontenta di una piccola rivoluzione privata, dedicata a quelli che ogni mattina hanno il coraggio di mangiare pane e malinconia col sorriso sulle labbra e poi scriverci su una canzone, incisa coi denti su una chitarra legnosa, dal suono profondo, a cui non si cambiano le corde da qualche anno, soprattutto quel paio che sono proprio spezzate ma stanno bene così, a penzolare nel vuoto. Perché imparare a fare a meno delle cose è il primo passo per apprezzarle a pieno. O almeno provare a renderle più innocue. Che, alla fine della fiera, è l'unico modo buono per campare cent'anni.
Detta con quei paroloni improbabili che tanto piacciono a certi esperti del settore, se il cantautorato contemporaneo vi ha stancato e un'espressione come "post-contemporaneo" vi suona un po' più confortante nel suo significare nulla, allora mettete Arto in saccoccia: sarà il vostro bicchiere di Cynar, sempre mezzo vuoto e sempre mezzo pieno, ma costantemente a portata di mano, contro il logorio del pop moderno.
Ognuno ha i suoi sogni: a volte puoi permetterti il lusso di sceglierli e fallire miseramente, altre semplicemente li subisci, ti toccano in sorte, ma non per questo sei giustificato a metterci meno impegno nel tentare di realizzarli. Un sogno realizzato fa sempre curriculum, anche se è il sogno di qualcun altro. A volte sono grandi sogni e tocca saper imparare a perderli, altre son sogni minuscoli, ma non per questo danno meno soddisfazioni, altre ancora — almeno fin dai tempi di Arthur Schnitzler — son sogni doppi e ci vuole più spazio per nasconderceli dentro. Perché un sogno nascosto fa meno paura e non rischia di diventare un incubo, ma rimane confinato dentro la confortante staccionata del bi-sogno.
A volte i dischi son come sogni, altre il bisogno di fare un disco come si deve trabocca fuori dal perimetro di quello che una volta si chiamava vinile (ah no, il vinile è ufficialmente tornato, giusto? Quindi il paragone è fortunosamente attuale) e son necessarie almeno quattro facciate per stamparseli bene negli orecchi. Il bisogno dei fratelli Campetti era proprio quello, una cosa pratica, d'altri tempi: fare un disco doppio. Non un disco doppio tanto per, ovviamente, ma una roba composta senza badare alle ristrettezze e pensata in largo, con tutte le canzoni al posto giusto, secondo il loro modus operandi. Ci tenevano davvero. A testimonianza della cosa il fatto che ci avevano provato anche con il precedente Amur, ma avevano laciato perdere all'ultima curva: le canzoni in più c'erano, ma non si incastravano con la naturalezza necessaria né tra loro né con le altre, rimanevano appese come uno strascico e tutto sembrava forzato. Leggenda vuole che pure con questo abbiano tentennato non poco, in uno sbilenco, continuo cambiare idea, magari considerando l'ipotesi di pubblicare il tutto in due momenti diversi: prima un capitolo e solo successivamente un secondo. Fin quando, come in ogni tentennamento che si rispetti, arriva quel bivio fatidico in cui o rinunci definitivamente oppure entri nell'ottica del vaffanculo, mandi in vacca ogni strategia e presenti al pubblico il tuo bambino in tutto il suo splendore mastodontico, senza censure o cesure. Lo ascolteranno in pochi o tanti, non importa: sarà stato un sollievo in ogni caso. Perché poi va che a volte c'è il lieto fine anche con i sogni e allora, adesso, comunque vogliamo metterla, Laguna è una di quelle cose di cui andare fieri.
Comparso in piena ondata it-pop, calma le acque di un indie italiano agitato più dall'ossessione di apparire che dall'urgenza di essere e lo fa con il sorriso sotto i baffi, quello di chi ormai ha saputo venire a patti con il senso di beffa di essere arrivato, senza troppi clamori, a valle di un percorso artistico fatto di sacrifici consapevoli e ricerca minuziosa, ma che — cosa, questa, che ha permesso agli Intercity di evitare il riflusso di una scena ormai già satura e stanca — in realtà ha avuto solo marginalmente a che fare con la storia musicale di questa penisola negli ultimi anni. Ventidue tracce e ottanta minuti complessivi di un cantautorato raffinato e complesso, portato avanti tramite una scrittura che non si spaventa di fronte al numero di strati che deve porre uno sopra all'altro per dire le cose come vorrebbe: nessuna concessione a soluzioni semplici, ripetizioni creative o ammiccamenti da paraculo.
Il discorso è fritto e rifritto — e pure questo, almeno nei dibattiti tra me e me, già vecchio e stantìo — ma il concetto è che — pesante o meno, complicato o no che sia — Laguna è un disco fondamentalmente necessario, perché in una società con una soglia di attenzione ridicola, dove le nuove leve (tu chiamale, se ne hai il coraggio, talenti) escono con una manciata di canzoni da una mezz'ora totale al massimo, pronti ad essere sostituiti dalla prossima "next big thing de noantri", la prolificità di una band così rimette la musica al centro, rompendo gli schemi (per quel che può servire) ma conservandone i cocci e facendo di un atto del genere, in fin dei conti, una questione di fiducia. Fiducia, sì, visto che la formazione lombarda, con un album di questo tipo, si getta — senza paracadute né l'accortezza preventiva di metter su la giusta poker face — dal dirupo di un azzardo, doppio anch'esso: scommette in primis sulla propria maturità, ma soprattutto su quella del proprio pubblico. A oggi, possiamo dire che la prima sfida la vince a mani basse.
La seconda, purtroppo, non dipende solo da loro.
La parola "cantautore" è più complessa di quello che sembra. Oltre quest'immagine superficiale di un tizio che scrive le sue cose e poi, invece di leggerle e basta, ci mette una melodia sotto, ci sono almeno cinquanta sfumature di archetipi indecisi sul da farsi che vorrebbero ma non possono nessuna delle due cose o che riescono così bene in entrambe al punto da risultare bestie ibride che non sai più in quale gabbia rinchiudere. Nel senso — anche senza fare i nomi per evitare di rischiare querele — non è certo una notizia che la storia della musica sia piena non solo di di musicisti che a un certo punto hanno sentito il bisogno di cimentarsi con racconti di più ampio respiro da spalmare lungo il corso di un romanzo o di scrittori che hanno voluto raccogliere la sfida di asciugare la propria logorrea nei tempi rigidi e ristretti di una canzone, ma anche di gente che desiderava essere il nuovo Philip Roth e poi, visto che nessuno si sognava di pubblicargli un libro, ha deciso di provarci col magico mondo dell'intrattenimento fatto di rime e note e di altri che, una volta raggiunto un certo successo sui palchi dei festival rock, hanno sfruttato la notorietà acquisita per appoggiare il proprio ego su qualche scaffale della Feltrinelli.
Il mio umile parere — come sempre non richiesto ma perlomeno fornito rigorosamente gratis — è che, in generale, banalmente, saper scrivere aiuti a scrivere canzoni migliori, ma che scrivere canzoni rimanga un mestiere diverso da quello di scrivere qualsiasi altra roba. I motivi sono molteplici, alcuni dei quali — se non vogliamo stare a tirar in ballo poesia ed emozioni — strettamente tecnici: c'è un'economia di note che deve essere bilanciata da una manovra in deficit di parole e, per costruire un equilibrio del genere, servono lacrime e sangue, ovvero un'austerità e una padronanza metrica e lessicale che riescano a evocare in maniera vivida pur asciugando il fiato.
Poi, d'altra parte si sa: al giorno d'oggi la flessibilità (qualunque significato vogliate dare al termine) è un plus in qualunque colloquio di lavoro e saper fare (bene) più di una cosa ti apre le porte di qualsiasi brillante carriera (o quantomeno fa fuggire il tuo cervello all'estero con la ragionevole certezza di non finire a consegnare pizze a domicilio), quindi ben venga chi eccelle in entrambe queste forme della stessa arte. Il signore in questione si chiama Sandro Campani e — guarda caso — di mestiere fa innanzitutto lo scrittore (di talento), ma, a tempo più o meno perso (magari tutti perdessero tempo così), è anche musicista, cantante e autore di quasi tutti i pezzi degli Ismael, formazione emiliana che fa di tutto per restare nascosta nei boschi dell'Appennino, tra il freddo più pungente e accordi secchi e tesi, eppure, ogni volta che se ne esce con un nuovo lavoro, fa drizzare gli orecchi a tutti coloro che le canzoni scritte bene sanno riconoscerle anche — e specialmente — nell'odore di storie di vita che vengono a patti con una solitudine di confine dura ma mai doma e in tutta una serie di bilanci senza speranze da cui però una certa epica di provincia figuriamoci se riesce a farsi ammazzare definitivamente.
Quattro è (indovinate un po'?) il quarto album della band, che arriva dopo l'omonimo debutto del 2008 e i successivi (indovinate un po'?) Due e Tre. Cosa che da un lato spalanca la porta a una facile ironia su un gruppo non certo incline a esagerati sforzi di fantasia (almeno quando si tratta dei titoli dei dischi), dall'altro conferma con la sua qualità che anche saper contare rafforza la consapevolezza del proprio percorso di crescita e la bontà dell'esatto numero di passi fatti fin qui. Lo fa al ritmo di cavalcate intense, compatte e inquiete, figlie di duelli tra il Francesco De Gregori più disilluso e il Sergio Leone più polveroso, tra i CSI più solenni e gli Estra più incalzanti, in una serie infinita di western di periferia estrema, consumati a colpi di sax e chitarra nella desolazione della bassa Padania.
Che suoni fico o ridicolo, messa così, il fatto è che possiamo trovare tutte le metafore che vogliamo, ma rimane la constatazione inconfutabile che l'unica parola che rende l'idea per tutto ciò è canzoni, e infatti un cospicuo sottoinsieme di questi brani (quindici sui quarantanove che in totale compongono il catalogo del quintetto reggiano) si intitolano proprio "canzone di/per qualcosa/qualcuno". Numeri alla mano, più del 30% della produzione complessiva: scelta tanto abbondante quanto apparentemente discutibile e retrò, che — di nuovo — quella porta di cui sopra (poco fa già quasi spalancata verso stupide battute riguardo a gente non particolarmente propensa a teatrali sacrifici creativi in termini di copywriting) potrebbe scardinarla definitivamente, ma che in realtà è più che giustificata. Perché scrivere canzoni (nel vero senso della parola — di entrambe le parole, intendo) è un mestiere non banale: se sei capace di farlo con questa perfetta, artigianale e complice commistione di intelligenza e attitudine, leggerezza all'ascolto e profondità di contenuto — in generale, di forma e sostanza — hai tutto il diritto di ribadirlo fino alla nausea.
Riccardo Sinigallia, visto da fuori, mi è sempre sembrato uno colto da una strana maledizione: una piccola, frustrante legge di Murphy applicata allo specchio che ha finito per fargli seminare tanto per veder raccogliere — in termini non solo di notorietà spicciola, ma anche di vero e proprio successo (o qualunque altra parola vogliate usare per esplicitare il concetto, nel caso "successo" vi sembri troppo volgare) — quasi esclusivamente i suoi vicini, il campo dei quali, si sa, è sempre più verde, indipendentemente dal tipo di erba di cui stiamo parlando.
Riccardo Sinigallia è infatti colui che — in mezzo a tutto il resto — ha contribuito a rendere ciò che sono gente come Niccolò Fabi e Max Gazzé, quello che ha regalato a Frankie HI-NRG, fatto toccare ai Tiromancino vette di notorietà mai più nemmeno sfiorate e (giusto per rimanere in tempi recenti) portato Francesco Motta fuori da Pisa, dai Criminal Jokers e soprattutto dai vent'anni.
Insomma — che sia stata troppa generosità, sfiga senza confini o semplicemente un banale boicottaggio collettivo da parte del magico mondo del music business non fa tutta questa differenza — il fatto è che la sua (conclamata) carriera di produttore stimato, richiesto a destra e a manca, ha fatto quasi dimenticare a molti che il cantautore romano è innanzitutto, appunto, un cantautore. Il problema è che, per un certo periodo, se ne era dimenticato pure lui: dopo tre album per niente banali, con una famiglia, due bambini e una certa indifferenza generale nei confronti delle sue composizioni, la possibilità di credere nella sua attività personale iniziava a scomparire all'orizzonte. Poi è andata che lo hanno chiamato a Sanremo e da lì si è innescato — nonostante la squalifica — una specie di circolo virtuoso: il passaggio alla Sugar, l'incontro con Caterina Caselli, la presa di coscienza che nessuno ti può giudicare — nemmeno tu (stesso) — e tutta una serie di nuovi stimoli e gratificazioni. La vita è strana: per dire, mai avremmo scommesso di dover dire grazie a Fabio Fazio.
D'altra parte, è cosa nota: con questi chiari di luna — in generale, in qualunque campo del sapere — è più importante avere un bravo social media manager che un portfolio di un qualche valore effettivo, ma proprio per questo gente così, pronta innanzitutto a mettere le mani avanti dichiarando di essere comunque fuori moda e delicatamente ostinata a non far parlare di sé con lo sfarzo e l'enfasi che forse avrebbe in realtà meritato, è straordinariamente preziosa. Come prezioso è un disco del livello di Ciao cuore, che ci restituisce un Sinigallia al massimo delle sue potenzialità, tradotte, al solito, in una cura maniacale dei suoni, degna compagna di felici intuizioni armoniche e di una scrittura così ricercata da fargli saltare tutta la fila — ad essere onesti, attualmente, nemmeno particolarmente lunga — dei potenziali candidati a raccogliere l'eredità del miglior Battisti. Un disco in cui ogni canzone è un personaggio e ogni personaggio uno strappo a un ricordo, arrivato a sorpresa e quasi in punta di piedi, ma che ha preso bene la mira per puntare (e colpire) dritto in mezzo al petto e lasciarci stesi con tutto il nostro amaro in bocca.
Perché sì, questo sarebbe il momento in cui rammaricarsi per il fatto che — probabilmente, quest'anno ancora — per trovare uno dei migliori album cantati in italiano, dovremo andare a raschiare sul fondo del barile in cui abbiamo richiuso a lavorare onestamente gente che va per la cinquantina e che, teoricamente, dovrebbe (se non proprio aver fatto il suo tempo) almeno continuare a fare "la sua cosa", conscia che la ribalta è pronta per new entry di qualità. O forse no. Meglio continuare a godersela, finché dura. Perché a un certo punto arriverà per forza il momento in cui saremo costretti a rassegnarci, anche in questo senso, ad ammettere di essere soli.
E allora, ciao core proprio.
L'hinterland di Bergamo non deve essere poi così diverso da quello di Ferrara: un orizzonte disteso a perdita d'occhio in quell'irresistibile nulla padano, solo idealmente confinato tra un film dell'orrore sbiadito, un'autostrada con visibilità ridotta causa nebbia e, sullo sfondo, le luci aliene di una qualche centrale elettrica. Non a (perdonate l'inevitabile gioco di parole) caso, Andrea Casali, si porta dietro ormai da anni la scomoda etichetta di un Vasco Brondi che non ce l'ha fatta. Per fortuna, verrebbe da dire. Perché in questo modo — mentre la parabola brondiana consumava tutto il proprio arco fino a cortocircuitare volontariamente il suo lume per evitare di essere spremuto fino alla buccia da quella sanguisuga che è il concetto di indie italiano — Caso si è potuto permettere il lusso di non diventare nessuno, sempre fedele al suo piccolo mantra punk che gli impone di non confondere mai popolarità con qualità e successo, continuando a fare il suo mestiere e cioè quello (come lo chiama lui, con quel tocco paraculo di chi mente sapendo di mentire) di scrivere canzoni che non piacciono alla gente.
Così è andato avanti per quattro album, sempre convinto che ogni disco nuovo fosse l'ultimo. Non c'è mai riuscito. Non ancora almeno, visto che Ad ogni buca è il quinto (il secondo, dopo il precedente Cervino, in cui abbandona la solitudine acustica per un sound più elettrico sorretto da una vera e propria band) e — come ogni suo disco prima del prossimo — già in un attimo riesce a far impallidire i precedenti, riportandoci senza particolari rimorsi dentro fino al collo in quell'alt-rock secco e scarno che avevamo cercato di dimenticare dopo gli anni '90, suonato come si faceva a quei tempi là: in tre — chitarra, basso e batteria, secondo una grezza equazione 2+1=DIY, che ci rammenta come il custodire con parsimonia i ricordi sia l'unico antidoto possibile per combattere la sovraesposizione (a)social(e) con cui abbiamo deciso di darci in pasto agli altri nel presente.
Il resto (intendo le cose che canta, e le parole che sceglie da infilare una dietro l'altra per cantarle) è talento allo stato puro: piccole storie di un'epica quotidiana che uniscono stralci di vita comune, decontestualizzandoli e rendendoli universali. Minuscoli quadretti dal sapore carveriano, di cui a volte si fa fatica a capire l'inizio, altre volte a intravederne la fine, in quanto fotogrammi sforbiciati via dal filmino in Super8 di un quotidiano andato, che hanno un sapore strano come fossero trafugate dalle nostre memorie e percepiamo intimi ed esclusivi, ma in realtà condividiamo con chi, come noi, sa tenere i brividi dentro la lisca fino all'ultimo momento, quando la padella già sfrigola d'olio bollente e ormai non resta molto tempo per uscirne, se non con con due disperati colpi di pinna, un tuffo di schiena e i piedi inzuppati dentro le scarpe da ginnastica unte e bisunte. A loro modo tranquillizzanti, perché sempre buttati là con una voce che sa fare domande scomode mentre trasuda comunque finestre aperte e nessun senso di impossibile, ma che alla fine ci fanno sentire ancora più soli in mezzo a pause pranzo fatte di tupperware nei parcheggi degli outlet durante i giorni dei saldi, occupati a contemplare, quasi orgogliosi, una lista infinita di fallimenti, maglioni sbagliati, caviglie slogate, autostrade prese senza biglietto, campi da basket con i canestri rotti, ruote bucate il giorno di Natale e tutta la tenerezza cruda di un piccolo mondo moderno che finisci per apprezzare veramente solo quando hai imparato a sopportare le gocce di pioggia dentro al collo.
Adolescenziale, dirà qualche hater alla moda che quelle storie le ha volute dimenticare. Post-adolescenziale, diranno coloro che quelle storie se le sentono prudere addosso anche se non vogliono ammetterlo. Può darsi, ma la domanda è un'altra, ovvero: dove sta la differenza? Appurato che — qualcuno a un certo punto deve pur dirvelo — non si cambia mai, che cos'è l'adolescenza se non quel periodo in cui ci siamo fatti vedere per quello che siamo, giusto un attimo prima di chiudere paure e ambizioni dentro un baule facendo ben attenzione a lasciar le chiavi dentro?
Nel senso, se questa deve essere la nostra presunta maturità, ben venga l'amarcord.
"Una delle band italiane più sottovalutate di sempre". Quante volte lo abbiamo sentito dire? Quante volte ce lo siamo detti? Quante sono, le band italiane più sottovalutate di sempre? Un'infinità. Praticamente qualunque band italiana che non abbia riempito il Circolo degli Artisti durante il tour del primo disco a un certo punto della sua carriera è stata definita da qualcuno (probabilmente sopravvalutandola) "una delle band italiane più sottovalutate di sempre".
Insomma. È facile essere una della band italiane più sottovalutate di sempre. Ma chi può fregiarsi sul serio dell'onorevole titolo di "band italiana più sottovalutata di sempre"? Punto a malincuore i miei due cent sugli Esterina, formazione toscana (di Massarosa, per la precisione — andate a fare una gita mezza giornata nella piana lucchese del Fosso Burlamacca e vedrete che si spiega tutto) che — a dispetto di un catalogo che vanta ormai cinque album costantemente al di sopra della media nazionale — può esporre nella sua misera bacheca di trofei giusto un "disco della settimana" su RockIt (e cioè qualcosa che uno dice grazie al cazzo — nel senso, avete idea di quante settimane ci sono in dieci anni? Più di cinquecento, ovvero almeno una per ogni band italiana più sottovalutata di sempre) e un Premio Tenco per la "miglior cover" del 2016 (che come riconoscimento — per quanto la reinterpretazione in questione fosse effettivamente soprendente — fa già ridere così, di suo) e ancora sembra rimasta bloccata sotto il cono d'ombra della propria bravura, vittima consapevole della propria stessa coerenza, come un minuscolo, bellissimo segreto nascosto, custodito gelosamente da pochi, affezionati adepti.
Sarà per il nome, che ci riporta alle nostre nonne, piccole grandi donne di un'Italia minore — sempre siano lodate, per carità, ma direi piuttosto carenti in termini di strategie promozionali sui social — e che volutamente prende le distanze dai battesimi roboanti di un certo immaginario rock, dove spesso la gente cerca nel moniker da darsi una sintesi improbabile o, diciamo, agiografica di una qualche attitudine (e in ogni caso prima si chiamavano Apeiron — quindi anche in questo senso è stato comunque un passo avanti). O forse per il fatto che in questo paese, se da un lato sei arrivato troppo tardi per salire sul treno degli anni '90 (quando l'alternative italico si convinse — probabilmente invano — che poteva sul serio cambiare le carte in tavola) e dall'altro rifiuti per scelta di cadere nella trap(pola) di un generico, attuale poppitalico, semplicemente finisci in quella terra di nessuno dove tutti ti guardano da una certa distanza di sicurezza, regalandoti occhiate a metà tra il diffidente e il sinceramente rammaricato, manco fossi un animale esotico dietro le sbarre di uno zoo.
Fatto sta che gli Esterina è dal 2008 che scrivono canzoni per esseri umani (vale a dire roba viva, passionale e imperfetta che hai bisogno di far macerare dentro per apprezzare appieno e che richiede tutto un suo ben preciso tempo di invecchiamento prima di essere liquidata — come il vino buono e le galline migliori per fare il brodo), ma si son dovuti decidere a scriverlo nel titolo di un album perché da queste parti le cose o si spiegano come a un bambino di quattro anni oppure si diventa subito radical chic. Canzoni sensibili per gente sensibile (anche loro), vestite di un intricato groviglio di sonorità che va dall'indie americano alla Versilia, da quel "cantautorato colto" a cui il Granducato ha sempre contribuito in abbondanza a un post-rock anglofono storicamente strumentale, ma che qui invece viene raccontato da una voce atipica, che si muove pericolosamente in equilibrio tra la melodia e la stonatura, senza mai però ribaltarsi dalla parte sbagliata.
Briciole di significati intensi lasciate cadere lungo il cammino, a uso e consumo di chi — nell'ordine — sa riconoscerle, vuole capirle e ha la pazienza di piegarsi a raccoglierle. Perché è vero che, in generale, la vita è bella quando fa come gli pare e fin che la barca va tocca accontentarsi, ma per scendere a pescare la tua personale moneta sul fondo dell'oceano, un po' di impegno ce lo devi mettere. Almeno trovare il coraggio di buttarti anche se l'acqua è gelata, trattenere il fiato finché puoi e sgranare bene gli occhi contro la salsedine, in modo da essere sicuro di non perderti quel poco di bello che ti galleggia intorno.
Vedrai che non sono solo stronzi.