Gli UNKLE con Tom Smith degli Editors, i Twilight Sad, Apparat, Stephen Malkmus e La Dispute: cinque pezzi buoni per mascherarsi e non farsi riconoscere a Carnevale.
19 Febbraio 2019
A volte, prima di riuscire a guadagnarsi l'attenzione della gente che conta, tocca farsi dieci anni di gavetta, quattro album di ottimo livello e innumervoli concerti nei peggiori bar d'Europa. Poi capita che ti scelgono per aprire un tour dei Cure e finalmente Robert Smith — con l'entusiasmo e la fiducia nel futuro che da sempre lo contraddistingue e su cui ha costruito una carriera — ti concede un endorsement ipotetico del tipo:
If the world was a better place they would be playing to more people, and I think they can.
In cui dà appunto per scontato il fatto indiscutibile che il mondo è invece un posto di merda e che no, tutto ciò non succederà mai. Grazie Rob, sempre meglio di niente.
Non c'è niente di male: dopotutto ogni silenzio è un'esplorazione alla cieca e rivalutare i propri a distanza di tempo almeno è un indizio che stai chiudendo il cerchio. O che almeno hai trovato una traccia da seguire per approdare da qualche parte.
Perché? Al riguardo c'è una teoria linguistica tanto improbabile quanto affascinante.
Qualcuno dice infatti sia per via del pesante accento scozzese. Come dargli torto, in effetti. Messa così semplice, è addirittura un eufemismo, nel senso che la situazione reale è ben più drammatica. Per dire, a me, ogni volta che lo sento, James Graham, più che un orgoglioso cantore della tradizione orale nell'idioma di Braveheart, mi pare un polacco che tenta di parlare in inglese. Con scarsi risultati, tra l'altro. Una roba che, se non si fosse ritagliato il ruolo di frontman dei Twilight Sad, sarebbe pronto per la parte del detective Alec Hardy in Broadchurch, al posto del Doctor Who. E magari sarebbe anche più simpatico dell'originale.
Capisco che possa apparire una questione secondaria. Dopotutto essere attaccati alla propria terra è comunque un valore, il rock storicamente non si è mai fatto troppi problemi di dizione e non a tutti è concesso di avere la pronuncia perfetta di Florence Leontine Mary Welch, ma qui il rischio oggettivo è di sconfinare oltre il recinto del post-punk in dialetto. E da lì a immaginarsi scenari grotteschi come Willie dei Simpson che canta nei Tazenda è un attimo.
Sarebbe un vero peccato, visto che la verità è diversa e ci dice che, nell'oceano infinito di band che nel nuovo millennio hanno provato a scimmiottare certe sonorità darkeggianti e inquiete, figlie della delusione-punk di inizio anni '80, il quintetto di Kilsyth è tra quelli che suonano, se non proprio originali, quantomeno più onesti. Dove per "onesti" si intende che, proiettati in un potenziale, imminente futuro dominato da un esercito di boy division, assomiglierebbero più agli originali che alla loro parodia fatta boyband.
Il golden boy dell'elettronica radical chic europea — colui che ha contribuito forse più di tutti a contaminarla con i germi del mainstream e a elevarla a qualcosa di diverso da una sega mentale per elettrotecnici usciti dalla scuola d'arte ed evangelisti di Ableton — è di nuovo tra noi nella sua veste primordiale.
Non che infatti Sascha Ring sia stato con le mani in mano durante questi ultimi anni: oltre alla usuale marea di serate tra festival all'aperto, capannoni industriali e club esclusivi, l'artista più amato dalle passerelle del fashion ha trovato il tempo di intrattenersi non poco con i compagni Modeselktor (insieme ai quali ha prodotto due album a nome Moderat) e di musicare un dramma teatrale tedesco (con cui, in termini appunto di elettronica radical chic, ha probabilmente raggiunto vette inarrivabili).
Per trovare quindi un vero e proprio album firmato Apparat, dobbiamo invece risalire al 2011. Deve essere per questo che il suo creatore ne parla in terza persona, come fosse un vecchio amico più che un semplice alter ego:
Having a huge stage with Moderat gave me a setting for grand gestures and meant I could unburden Apparat from these aspirations. I don't have to write big pop hymns here: I can just immerse myself in the details and the structures.
Tradotto dall'apparatese, significa che LP5 continuerà il percorso di sperimentazione tanto caro a Ring, ovvero quello di partire da due estremi opposti — da un lato capire come vestire di pop un certo di tipo di elettronica intellettualoide senza farle perdere un grammo di quella sana spocchia che la rende tale, dall'altro portare il pop stesso a debita distanza dallo status di caciara senza ammazzarlo con dosi improbabili di complicazione cerebrale — per andare a scoprire cosa si incontra a metà strada.
La risposta la sappiamo già: si chiama IDM e il nuovo Apparat si conferma ancora il miglior bignamino sul mercato per spiegarci una volta di più, lettera per lettera, il significato dell'acronimo: musica cervellotica quanto basta per non farti smettere di muovere il culo, ma mai abbastanza in mala fede da non stimolarti più le sinapsi.
Sta parlando del lavorare comodamente seduto a una scrivania, davanti a un software di editing audio, trascinando in giro forme d'onda e applicando loro effetti virtuali o algoritmi di warping:
The process reminds me of when my kids used to make these girls on my iPhone — choosing hair colour, dresses, etc. That intuitive swipe and grab thing. Chop and move the waves. Apple computer scroll style of thinking.
Messa così non è che sia un bello spot per la musica elettronica, apparentemente degradata a una superficiale versione 2.0 di Gira la Moda applicata alla composizione con le sette note.
E invece — a quanto pare — si è divertito da matti. Tutto sommato, dopo trent'anni passati a chiedersi semplicemente se fosse meglio usare una Fender o un Gibson, ritrovarsi a leggere la lista degli infiniti VST disponibili dietro la scatola di Ableton deve essere stato come l'impatto iniziale di un bambino nepalese con il cesto delle palle colorate all'IKEA o il trionfale esordio di un cucciolo di cane antidroga alla sua prima serata reggae: così emozionante da non sapere da che parte cominciare.
Viceversa, ha riso meno — narra la leggenda — la casa discografica, che ha provato a uscire dall'impasse proponendo un compromesso del tipo: ok, mettiamo questa cosa un attimo da parte e intanto pubblichiamo un disco figo come quelli tuoi soliti. Immagino che, nella mente di quelli della Matador, fosse un tentativo last-minute un po' impanicato, tipico della gente presa in contropiede, incapace di fare niente di meglio se non attaccarsi alla classica strategia che in genere si adotta di fronte agli scleri dei matti o dei vecchi dementi: prendere tempo sperando che nel frattempo l'interlocutore si dimentichi della sua stessa idea bislacca.
Stephen Malkmus non ha fatto una piega, ha atteso giusto il tempo di vedere il suo ultimo album con i Jicks in tutte le classifiche di fine anno e poi — come tutti i matti e i vecchi dementi che si rispettino, dopo che si sono messi in testa un proposito inverosimile — è tornato resiliente alla carica, a batter cassa con la faccia come il culo che si ritrova e così a metà marzo il suo primo album solista interamente creato al computer vedrà ufficialmente la luce.
L'ha intitolato Groove Denied, un po' per polemica, un po' per scaramanzia, ma soprattutto perché — chitarre o non chitarre — l'(auto)ironia e il sarcasmo di fondo che da sempre lo contraddistinguono sono rimasti piacevolmente intatti.
Panorama, il nuovo album de La Dispute millanta ampie vedute nel suo ottimistico titolo, ma lascia qualche perplessità nel retrogusto, soprattutto considerando il fatto che arriva praticamente nello stesso momento della reissue preparata in occasione del decennale del loro logorroico ma interessante debutto Somewhere at the Bottom of the River Between Vega and Altair.
Coincidenza che dà adito a qualche giustificato sospetto, al punto che Amazon, influenzato dal suo — evolutissimo anche in termini di malizia — motore di ricerca interno, sostiene sia una mera operazione di marketing e infatti non esita a proporci l'acquisto dei due in una combo leggermente scontata.
A poco serve il tentativo visuale (anche ammirabile dal punto di vista di una certa morale buonista) di mascherare il tutto con una rivisitazione della mitologia greca, in cui Arianna regala a Teseo, invece che il classico filo, uno di quegli aggeggi elastici e fluorescenti che gli ambulanti fanno volare la sera nei cieli delle nostre piazze e lui fraintende in toto il suo compito finendo per liberare il Minotauro invece che farlo fuori. Perché, purtroppo, il resto conferma che sempre lì siamo: dalle parti degli At The Drive-In piuttosto che dei Refused, ma senza la "garra" né l'esuberanza sfacciatamente prog che permetterebbe a Jordan Dreyer e compagni almeno di andare a solleticare le suole dei maestri.
Nel senso, continuiamo pure a chiamarlo post-hardcore, ma il motore di ricerca interno di PornHub — quello sì ancor più evoluto e, per sua natura, maliziosissimo — se proprio di "post" si deve parlare, lo ghettizzerebbe più volentieri nella categoria un po'ammosciata di un pudico post-softcore.
James Lavelle è un po' l'Elizabeth Taylor del trip-hop: mai da solo, ma sempre felicemente un passo avanti sul partner di turno, fino all'estrema conseguenza di vivere costantemente sulla soglia di casa, con delle ipotetiche valige in mano, nell'attesa soltanto di gettarsi tra le braccia del successivo (chiedere al compagno di liceo Tim Goldsworthy prima e ai colleghi all'interno della leggendaria etichetta indipendente britannica Mo' Wax — DJ Shadow, Richard File, Pablo Clements — poi).
I più possessivi le chiamerebbero corna, quelli comprensivi necessità di scappare dalla routine, gli evoluzionisti spirito di sopravvivenza, fatto sta che ogni volta, stagione dopo stagione e compagno dopo compagno, la sua creatura UNKLE si è reincarnata in qualcosa di diverso, anche se mai a caso e costantemente al passo con i tempi, trasformando così un potenziale punto debole in tratto caratteristico e diventando ufficialmente uno degli esempi di riferimento per quelle occasioni in cui ci fa comodo tirare in ballo il concetto di "progetto collaborativo" o, come fa più fico dire, collettivo musicale.
Concetto, questo, che ci sta come il cacio sui maccheroni quando si parla di band legate (geograficamente o musicalmente) a un certo Bristol-sound. Dalle ospitate ormai anarco-populiste e mainstream dei Massive Attack, a progetti più radical chic ed elitariamente prog come quello degli Archive, dalla semplice innocua domanda «A chi la facciamo cantare questa?» a idee di composizione a più mani e ai limiti dell'open-source culturale, una chiara tendenza al collaborazionismo spinto ha da sempre caratterizzato la scena, ancor prima (e forse ancor più) dell'abuso di campionamenti dub, funk e soul d'altri tempi o di droghe leggere o pesanti che fossero.
In questo senso, la raffinatezza degli UNKLE è sempre stata proprio nel modo, nella perfezione e nella naturalezza con cui ogni pezzo risulta vero (quasi fosse proprio scritto da lui) se associato al relativo guest, ma allo stesso tempo sempre palesemente attorcigliato attorno allo scheletro di un ben preciso e riconoscibile UNKLE mood. Ovvero nel lavoro di orchestrazione e rifinitura sartoriale che Lavelle stesso (oggi ufficialmente single e unico proprietario del marchio) riesce a fare, non si sa bene in quale ordine: sceglie l'artista e gli cuce addosso il vestito oppure compone il brano e poi ne trova il perfetto interprete?
Qui la parte del figurino tocca a Tom Smith degli Editors e, visto come, ancora una volta, l'abito fatto su misura gli calza a pennello, direi che la risposta può passare in secondo piano.