Beati gli ultimi

Beati gli ultimi

30 dischi usciti nell'ormai lontano 2018 che ci son piaciuti (a Spineless) parecchio: l'inutile, inconsulta classifica di fine anno scorso a suo insindacabile e non richiesto giudizio. Della serie: non è mai troppo tardi.

26 Gennaio 2019

Ve lo ricordate il 2018? Era l'anno scorso. Un secolo fa, in pratica. E siccome l'anno vecchio è come l'ospite indesiderato — ovvero dopo tre giorni puzza di pesce che è stato fuori dal frigo almeno per tutto il tempo che l'ospite è stato a mendicare vitto e alloggio — la domanda che sorge spontanea è: che senso ha tornare a parlarne, analizzarlo di nuovo (e clamorosamente per ultimi) a tempo perso e fuori tempo massimo, classificarlo col senno del troppo poi (ma non abbastanza poi da riabilitarlo in liste del tipo i migliori album di quest'anno dieci anni fa)?

Nessuno.

Una nicchia

Ecco. In questa misera parolina — nessuno — c'è tutto il senso della strategia. Non ha nessun senso, e infatti nessuno si sogna più di perderci troppe energie già da prima di Natale. Il che, a modo suo è la definizione di "nicchia di mercato".

Il che, a modo suo è la definizione di "nicchia di mercato". Visione, individuazione di un'esigenza non ancora soddisfatta in una fetta di pubblico, aggressione di uno specifico target di marketing ancora vergine di potenziali competitor: strano che, con tutti gli studi di scienze della comunicazione e management creativo di cui vi vantate, ancora qualcuno debba star qua a spiegarvi le basi.

Un bisogno

Pensateci: dopotutto, la nostalgia è ormai l'anima del commercio e una sbirciata alle proprie spalle (anche solo per assicurarsi che il passato non ti stia — per usare un eufemismo — tamponando) se la concedono anche i più convinti trend forecaster, perché è vero che per progredire sarebbe opportuno guardare al futuro, ma spesso a vederci troppo lungo ti piglia male e quindi il popolo necessita di qualcuno che gli dica non tanto che si stava meglio quando si stava peggio — argomento noto, abusato, ampiamente dimostrato, ma sempre e comunque riferito a un passato troppo lontano per dare un qualche conforto — quanto che anche quando sembrava di stare di merda (tipo l'anno scorso, appunto) non si stava poi così male.

O che comunque, si può sempre stare peggio. Almeno se la materia del contendere son dei miseri dischi, dico.

Un candidato

Senza alcuna falsa modestia, dato il fervore pimpante e lo scoppiettante trasporto che da sempre mi contraddistinguono — uniti a una malcelata abilità nell'inventarmi supercazzole per giustificare le mie consegne ben oltre una deadline minimamente accettabile — mi candido per essere la persona più adatta al ruolo.

Mal che vada, potrò sempre riciclarmi come ottimo capro espiatorio nel momento in cui il popolo scoprirà che scherzavo: c'ho solo avuto un po' di cazzi miei e sono arrivato lungo sui tempi inflessibili che il calendario gregoriano ci ha imposto — manco fosse un burocrate di Bruxelles o un personaggio ancor più misterioso come "l'Europa" o "i mercati" — senza lasciare il minimo spazio alla contrattazione.

Tutto qua.

La musica del cambiamento

Mai come quest'anno — musicalmente parlando, mi dicono — si è avuto l'impressione di essere di fronte a un definitivo cambio della guardia.

Sicuramente la quasi totale assenza di particolari grandi nomi — superstar blockbuster che potessero succhiar via tutto l'ossigeno dalla stanza — ha aiutato le nuove leve a dare aria alla bocca, ma fatto sta che finalmente le aspirazioni di svariati, piccoli, giovani innovatori wannabe hanno ricevuto l'attenzione che meritavano. Parliamo di un certo tipo di ambizioso latin-pop, di quella componete un po' psichedelica di un particolare southern-rap, dell'indie-rock della Z-generation e — per contro — anche di alcuni amati veterani inossidabili (Paul McCartney, Elvis Costello e David Byrne su tutti) che hanno dimostrato per l'ennesima volta di non avere nessuna intenzione di mollare l'osso, di volere (e sapere) rivelarsi ancora attuali e — se cambio della guardia deve essere — di non tradire nessun imbarazzo nel mettersi in fila, armati di cappello, occhiali scuri e baffi posticci, per proporsi come ideali sostituti di se stessi, riciclandosi giovanotti di primo pelo, con giusto quel filo di esperienza in più alle spalle.

Il paese reale

Il fatto è che — come nei migliori thriller a tema exit-poll — non troverete niente di tutto ciò in questa classifica.

Innanzitutto perché, tecnicamente, non di classifica si tratta, ma bensì di una lista di dischi che ci sono piaciuti — a me e al mio entusiasmo — e questo implica che:

  1. I numeri son messi relativamente a caso (per spacciarla per una classifica, appunto — il popolo adora le classifiche).
  2. Ce ne possono essere stati molti altri altrettanto belli (se non di più) che però magari non abbiamo avuto modo di ascoltare, o magari abbiamo ascoltato ma ci son piaciuti meno, o magari ci son piaciuti comunque, ma di cui non avevamo voglia o tempo di scrivere, o magari semplicemente non ci siam trovati in tasca, a portata di mano, le parole adatte per farlo.

Oltre a questo, sarebbe scorretto anche non menzionare ragioni strettamente personali di inadeguatezza complessiva riguardo a certi argomenti, tra cui il fatto che l'unica cosa che ci fa affiorare alla mente il termine latin-pop sono i Gipsy King (pensando ai quali non riusciamo a immaginare niente di ambizioso), il problema che con la psichedelia siam rimasti a Syd Barrett (che, a quanto ci risulta, mai si è cimentato nel rap, men che meno nella sua accezione southern — whatever that means) e la questione non trascurabile che ormai ci sentiamo purtroppo troppo vecchi per giudicare senza la necessaria invidia la generazione Z, eppure ancora — ci piace pensare — abbastanza giovani e arrugginiti da guardare con il sospetto che si riserva a una fine che non potremo fare mai ai veterani inossidabili.

Lo dicono i numeri

Attenendoci quindi ai fatti inconfutabili, se proprio vogliamo fare i Giorgio Tosatti (pace all'anima sua) della situazione e — come dei qualunque Rino Tommasi del rock o dei pacatissimi Nando Pagnoncelli di Pitchfork — sciorinare dati statistici a caso per confondere le acque e allungare il brodo, diremo che — da uno sguardo superficiale alla prima cosa che salta all'occhio sugli scaffali di un qualunque supermercato, ovvero le etichette — in questa classifica troverete senza ombra di dubbio quattro album usciti per la Sub Pop, due per la Domino e i rimanenti ventiquattro ognuno per una casa discografica diversa (tra cui solo pochissime major storiche — giusto una BMG e una Virgin/EMI), come a dimostrare per l'ennesima volta che è vero che non si esce vivi dagli anni '90, ma d'altra parte se ne esce comunque conservando una certa indieness di fondo, anche solo non richiesta e inconsapevole.

A livello di geolocalizzazione stretta, invece, possiamo anticipare che — nell'eterna lotta anglofona che insanguina ogni campo del sapere dai tempi della Guerra di Indipendenza — qui la spunta l'ordine costituito della perfida Albione, con sedici band/artisti marchiate UK (due scozzesi) contro "solo" nove USA (le restanti cinque vengono un paio da quell'altro capo del mondo chiamato Australia e poi a seguire — sole solette come particelle di sodio nel mare di diuresi dell'acqua Lete — Danimarca, Irlanda e Finlandia), anche se — per dovere di cronaca — andrebbe precisato che, in termini di un'eventuale media pesata, gli americani sembrerebbero occupare, così a prima vista, posizioni migliori.

Questo, ovviamente, se stessimo parlando di una classifica. Ma avevamo detto che non era così, no?

30

Geowulf

Great Big Blue

Sogna che ti passa

Parlando di pubblicità di birra da poco, i creativi bravi vorrebbero esserlo quelli della Ceres, ma la musica la sanno scegliere meglio i ragazzi dell'ufficio comunicazione della Corona.

I due amici di infanzia Star Kendrick e Toma Banjanin son cresciuti bevendola (la birra dico, indipendentemente dalla marca) sulla Sunshine Coast australiana: capelli al vento, una decappottabile che corre sul lungomare accanto alla spiaggia, voglia di fare un cazzo se non divertirsi e pucciare i piedi nell'acqua, luce accecante sugli occhiali da sole, saturazione a mille, cose così.

Senza nemmeno suonarlo una volta dal vivo, hanno caricato su quel famoso servizio di streaming musicale che la fa da padrone sui vostri telefoni un singoletto apparentemente innocuo che però — non si sa bene come, ma sicuramente condito da un'opportuna, rinfrescante fettina di limone — è finito nella Discover Weekly di qualcuno abbastanza in alto nelle gerarchie della cerveza messicana e così ora — uno stabilmente a Londra e l'altra persa tra Berlino e la Svezia — debuttano con disco composto a distanza, che quei tempi li ricorda con positiva nostalgia, senza per questo dover per forza costringerci a etichettarlo come l'effimero sforzo dell'ennesimo duo dream-pop stagionale usa e getta. Anzi, il lavoro che ne esce è curatissimo, a tratti esilarante, a tratti più malinconico, ma sempre armato di un sorriso da stamparti sulle labbra.

Al di là del ritornello facile e della melodia rotonda, quella che rimane in bocca è la vera essenza del pop come era inteso una volta: pura beatitudine da buttar giù senza remore riguardo ai livelli di glicemia. È vero, l'estate è lontana, ma sognare — se ne siete ancora capaci — di scolarsela tutta alla goccia non ha mai fatto male a nessuno: rinfresca lo spirito e non lascia scorie rilevabili da nessun cazzo di etilometro.

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Hideaway

Don't Talk About You

Summer Fling

29

The Ting Tings

Black Light

Era il 2008

Chi ha memoria di una roba chiamata Ting Tings? Ottimo, bravi: più di quelli che mi sarei aspettato. Ma vi ho visto: prima di alzare la mano titubanti avete fatto quella faccia da "il nome non mi è nuovo ma mi pareva fossero delle caramelle Haribo". Non preoccupatevi, non c'è niente di cui vergognarsi. Dopotutto, come biasimarvi: era il 2008 — tempi diversi, tempi più semplici. Tempi migliori? No, non esattamente tempi migliori, ma tempi in cui per essere felici bastava un rum & pera, una serata nella discoteca indie più vicina e poi via a casa a guardarsi in loop con gli amici tutte le puntate di Lost fino alle cinque di mattina mentre ti sfondavi di caramelle Haribo lasciando cadere le cartine sul tappeto del salotto senza preoccuparti delle conseguenze in arrivo la mattina dopo. Sì, ok: erano tempi migliori.

Nel 2008 Katie White e Jules De Martino fecero il botto — forti di un nome che sapeva di caramella Haribo — con un primo album veloce e diretto come uno shottino, perfetto per essere ballato nelle migliori indie-disco e poi mandato in loop a casa infinite volte come le più belle puntate di Lost. Poi, nei dieci anni successivi, hanno messo a catalogo altri due dischi più che dignitosi che non si è filato nessuno e oggi tornano in pista (l'uno ultra-quarantenne, l'altra quasi) con un lavoro — ottimo sotto tutti gli aspetti — che nessuno si filerà perché troppo veloce e diretto per essere assaporato con la calma di una birra artigianale alla moda, perfetto per essere ballato in quei locali indie che ormai son tutti chiusi e che farà la fine di Lost all'ombra di Netflix, ovvero mai — nella migliore delle ipotesi — verrà ascoltato una seconda volta perché lo abbiamo perso, affogato nella marea dell'offerta di un qualche Spotify.

Peccato, perché qui sembrano dei Cure accecati dalla luce dopo anni di reclusione in qualche scantinato, però cantati da Debbie Harry dei Blondie e soprattutto andati in fissa dura con la drum'n'bass (o comunque con una forma tutta loro di bubblegum DnB). Un po' più oscuri e diffidenti rispetto alla spensieratezza electro-pop degli esordi, ma dopotutto, anche loro, come biasimarli? Era il 2008: tempi diversi, tempi più semplici. Tempi migliori.

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Estranged

Basement

Earthquake

28

Thunderpussy

Thunderpussy

Il rock è femmina e nessuno ve l'aveva ancora detto

Nemmeno tre anni fa, gli unici suoni che potevano accompagnare un'improbabile performance di Molly Sides e Whitney Petty erano le strofinate di olio di gomito per tirar via i residui di cibo dai piatti prima di buttarli nella lavastoviglie del Pink Door Restaurant di Seattle. Poi è andata che, durante un festival al Gorge Amphiteatre, Mike McCready le ha viste suonare insieme alle altre Thunderpussy, ne è rimasto — con un moniker del genere, come poteva essere diversamente? — folgorato e ha deciso di produrre il loro primo EP, rendendosi così complice di un colpo di mano che, in un attimo, riporta il capoluogo della King County in un'era pre-grunge in cui stivali, pelle, glitter e rossetti infuocati la fanno ancora da padroni.

Polvere, chitarre, sudore, ruote fumanti e gas a manetta son da sempre considerate robe da maschi e quindi a molti è bastato un attimo per bollare un disco come questo alla voce parodia #metoo. In realtà, la verità con cui fare i conti è che c'è dentro tutto quello che il genere richiede per essere definito tale: uomini, motori, gioie, dolori, riff indovinati, ritmiche mai (abbastanza) banali, sfacciataggine insolente, granelli di blues strappalacrime e pure un paio di immancabili ballad strappamutande senza le quali nessun disco di hard-glam classico sarebbe un disco di hard-glam classico.

Se fate parte di quella minuscola intersezione che ascolta rock tamarro senza prima relegare sua moglie in cucina a stirare e a lavare i piatti, se almeno una volta nella vita vi ha per caso sfiorato l'idea che il genere musicale macho per eccellenza possa essere concepito, composto e suonato (parecchio bene) anche da gente dell'altro sesso, allora qui c'è pane per i vostri denti e più pene (sto parlando del cazzo, sì) di quello che credete.

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Speed Queen

Badlands

Thunderpussy

27

Florence + The Machine

High As Hope

Cuore di sorellona

Florence Welch è la sorella maggiore che hai sempre voluto: abbastanza ribelle da desiderarla come complice nelle tue cospirazioni adolescenziali, ma mai troppo sbroccata per smettere di essere un'ispirazione e cadere dal piedistallo sul quale l'hai messa in tempi non sospetti. Per dire: qui, su High As Hope, ricorda senza troppa nostalgia tutte le cazzate che ha fatto con l'MDMA, confessa antichi disordini alimentari e si scusa per quella volta che ti rovinò la festa di compleanno. O forse era la festa di qualcun altro? Comunque, chi se ne frega, tanto la perdoni in ogni caso, no? Dopotutto è sempre la tua bellissima sorellona.

Il problema è che le confidenze sono, per loro natura, imperfette e invece, per lei, qualunque intimità — espressa con quella voce che si ritrova — suona performativa, rifinita, impeccabile. A rendere ancora già complicata la credibilità della cosa, aggiungiamo il fatto che il mito del genio dilaniato dentro ormai ha monopolizzato la storia della musica da qualche centinaio di anni e l'idea che un'arte significativa possa venire solo da anime sofferte e sofferenti probabilmente sopravviverà alla musica stessa. Eppure la sincerità di Flo in questa sua nuova veste più — prendete il termine con le dovute precauzioni e contestualizzatelo addosso al personaggio — dimessa risulta palpabile.

Sì, lo spettro di Kate Bush come simbolo di inarrivabili grida verso l'emancipazione di un cuore di femmina abbandonato e spezzato aleggia sempre a pochi passi di distanza dai vostri timpani indifesi e certo siamo ancora abbastanza lontani da un concetto di "less is more" che probabilmente mai apparterrà alla Welch, ma il quadro complessivo è stranamente bilanciato e la cosa è tutto meno che un difetto.

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Hunger

Big God

Sky Full of Songs

26

Amnesia Scanner

Another Life

Chirurgia acustica estrema

In questo preciso momento storico, lo sforzo necessario per imbastire quella complicata narrativa da creare attorno alla figura del "misterioso producer" appare poco più di un cliché e suona un po' ridicolo e già visto. Poteva funzionare agli albori di internet, ma oggi (quando con un semplice account GMail o Facebook ti sei già fottuto l'intero il carnet di dati personali che la società di ha lasciato in dote — i tuoi e quelli di tutta la tua famiglia, per essere precisi) suona un po' ridicolo e già visto. Nonostante questo, viene ciclicamente replicata ogni paio d'anni anche se, in termini di qualità, le statistiche dicono che il gioco non vale troppo la candela. Nel senso, per scovare un Burial tocca sorbirsi almeno un centinaio di Liberato.

Gli Amnesia Scanner, a questo teatrino stantìo, si sono prestati finché ne è valsa la pena, ovvero hanno smesso — previdentemente — ancora prima di arrivare al primo full-length. Another Life gioca così a carte scoperte (e cioè a firma Ville Haimala e Martti Palliala), ma non per questo delude, anzi. Un'elettronica organica, claustrofobica e disorientante, estremamente densa ma mai troppo complessa, urticante e indefinibile, che va ben oltre la ridicola classificazione neo-savage avant-EDM senza mai però oltrepassare quella soglia proibita al di là della quale diventi imballabile, e quindi invendibile, e quindi poco interessante. In due parole: radical chic.

La strategia è evidente e i due non fanno niente per nasconderla: prendere la dance music, trascinarla in uno scantinato, torturarla fino a farle perdere i sensi, smembrarla in pezzi delle dimensioni sufficienti a entrare in un hard disk e poi ripresentarla al pubblico affamato da anni di carestie e stenti, nella forma di un mostriciattolo di bit, ricucito con sartorialità certosina, usando però il fil di ferro arrugginito intrecciato con qualche cavo dell'alta tensione. Come tutte le cose necessarie, fa male e fa bene allo stesso tempo.

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AS A.W.O.L.

AS Chain

AS Chaos

25

Bodega

Endless Scroll

Il miglior humor inglese viene da New York

Difficile trovare una formazione più calata — forse è davvero il caso di chiamare in causa una parola abusata come simbolo — nella Brooklyn attuale dei Bodega. Non solo prendono il nome dalla parola che, nello slang newyorkese, indica i corner shop che, a tutti gli effetti, sono la vera fonte di cibo quotidiana dei cittadini (qualunque sia la loro estrazione sociale) della Grande Mela, ma cantano anche — cogliendo il punto in maniera disarmante — la vita reale dei millennial di Manhattan, ovvero di una routine ripetitiva di scroll infiniti, eterni loop di playlist digitali autogenerate, cibo fotografato in alta risoluzione, band alla moda e come taggarle, frullati troppo costosi ma dentro bicchieri brandizzati bene, chat online e tutto l'amore che portano, traslochi frequenti e tanta, tanta sana masturbazione.

Come degli LCD Soundsystem che non hanno mai messo piede in una discoteca o dei Parquet Courts ancor più sarcastici e indignati degli originali, portano avanti il loro racconto con un misto di devozione sincera e ironia annoiata che è difficile dire se ci sono o ci fanno. In altri termini, allo stato attuale delle cose, potrebbero rivelarsi il gruppo più hipster che abbiate mai ascoltato così come gente che sa danzare da dio al tempo di un equilibrio precario — semplicemente in bilico sul taglio sanguinante di quel filo del rasoio chiamato post-hypsteria — per vendersi bene a uso e consumo del proprio (nonché nostro) divertimento.

O forse entrambe le cose. Dopo tutto, avrebbe una qualche importanza? Direi di no, almeno finché hanno dalla loro una musica che faccia il paio con le proprie ambizioni e canzoni così punk, nel senso più paraculo del termine.

24

Editors

Violence

La paura di essere una boy-band

Gli Editors sono un gruppo in costante movimento. Di questo va dato loro atto e la cosa va presa — senza se e senza ma, alla fine della fiera, facendo tutti i conti del caso — come un pregio. Sia proprio in senso fisico (a parte il tempo necessario per registrare i dischi, li trovi praticamente sempre in tour), sia se per "movimento" si intende — parlando di musica — una cosa più complessa come evoluzione. Dal cosiddetto post-punk del debutto, le hanno provate un po' tutte: diventare i nuovi Coldplay e riempire gli stadi, tornare alle chitarre senza preoccuparsi del fatto che le chitarre non andassero più di moda, portare le chitarre a livello di banalità — se non vogliamo dire springsteeniano (che poi c'è gente che mi querela) — almeno kingsofleoniano, finire a calpestare i territori di una sorta di dark-wave alla Depeche Mode, rendersi conto che si può fare qualcosa di genericamente elettronico anche con le chitarre e fare pace con la cosa (forse) definitivamente.

Il tutto per tentare di staccarsi dalla schiena quell'antipatico adesivo con su scritto "Boy Division" e mettere la testa fuori quel postaccio dove in molti volevano ricacciarli, ovvero — appunto — quelle sabbie mobili che stanno esattamente a metà tra una boy band e i Joy Division.

Io direi che, a questo punto, con sei album sul groppone, possiamo liberarli dal peso di qualunque confronto. Sanno scrivere canzoni, scegliere bene i modi in cui arrangiarle, hanno un cantante che migliora di disco in disco e dal vivo tengono il palco con una sobrietà che negli anni si è rivelata sempre meno fredda e inglese. Quello che fanno — piaccia o meno — lo fanno bene, e a quello che fanno — ricordi o meno quello che qualcun altro ha già fatto in passato — sono capaci di dare un tocco di opulenza apocalittica che in qualche modo li distingue.

A Violence ti approcci con la solita diffidenza e lui, come al solito, la vince al decimo ascolto. Se ti fermi al nono, è solo colpa tua.

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Hallelujah (So Low)

Violence

Magazine

23

Art Brut

Wham! Bang! Pow! Let's Rock Out!

Va tutto bene e se non va tutto bene va bene lo stesso

All'inizio di questo millennio che c'è toccato in sorte di viverci dentro, l'indie-rock con le chitarre rischiava di prendersi troppo sul serio. Per questo — in uno slancio di compassione darwiniana — il buon Dio ci mandò un pacco regalo chiamato Art Brut, giusto allo scopo di ricordarci, prima che fosse troppo tardi, che l'unica strategia per tirare a campare con qualche possibilità di sopravvivenza è una e una sola: prendersi per il culo e non rimanerci male. La prima parte della formula è abbastanza semplice, non serve aiuto e si può mettere in pratica da soli, sempre ammettendo di riuscire a raccattarsi addosso un briciolo di quell'integratore chiamato autoironia. La seconda, dipende da quanto siamo permalosi. Altrimenti c'è bisogno di un tutor.

Eddie Argos era la persona giusta per recapitare il messaggio senza risultare ridicolo: con la sua passione ai limiti del feticismo per i suoni onomatopeici e i punti esclamativi, il suo gracchiare agitato alla Mark E. Smith e le sue argute osservazioni su qualunque cosa (dalla disfunzione erettile alla valuta monetaria turca), faceva sembrare il tentativo di fregare il sistema facile come rubare le caramelle a un bambino cieco a cui non piacciono le caramelle.

A sette anni di distanza dall'ultimo lavoro della band — nei quali il sistema-musica è quasi riuscito a fregarsi da solo, ma lo ha nascosto bene — torna con una formazione totalmente rinnovata, ma lo stesso identico, inutile obiettivo: vendere una ricetta salvifica a chi pensa sia solo mera propaganda. In pratica, l'esatto contrario del nostro "governo del cambiamento". A suo favore il fatto che ci mette così tanto cuore, una tale energia e un bel po' di chili di amaro sarcasmo che risulta quasi impossibile resistere alla sua giocosa evangelizzazione nonsense. L'effetto dura i tre minuti scarsi di una canzone imbizzarrita e verbosa, ma per quei brevi istanti finisci per crederci davvero.

22

King Tuff

The Other

Il trucco pesante senza sembrare una zoccola

Il garage-rock (lo dice il nome) è la naturale manifestazione della claustrofobia propria di una stanza in cui fondamentalmente accumuli roba con il preciso scopo di dimenticartela sopra pavimenti brutti e sporchi di olio motore, dove — per farla breve — decidi ti attaccare un amplificatore e pomparlo a manetta per far incazzare i tuoi genitori che non ti hanno dato abbastanza soldi per prenotare le due ore di una sala prove come si deve. È fico, ma alla lunga stanca, soprattutto in quanto esigenza più che scelta effettiva.

Il garage-rock è stato il domicilio spirituale di Kyle Thomas per più di dieci anni e ora il ragazzo è — comprensibilmente — esausto: ha sgommato da quello puro degli anni '60 al glam dei '70, passando per la tamarraggine Eighties fino a crearsi un personaggio parallelo di party-harder che lo ha fatto sembrare la versione buonista di Andrew W.K. e ad arrivare così al fatidico punto in cui il garage stesso ha cominciato a sembrare più una prigione che un rifugio.

Ci ha messo cinque album, ma oggi, con The Other, King Tuff finalmente preme il bottone del portellone automatico e fa entrare la luce tutta d'un botto, prende la candeggina e tira l'ambiente a lucido, sacrifica un po' della propria mascalzonaggine senza perdere il suo fascino sfacciato e non si vergogna a truccarla come i maschi sull'Aurelia, ovvero decorandola con del rossetto sodo dato col pennello grosso e del mascara denso come catrame patinato. Lo fa convinto, onesto e senza secondi fini che non siano lo stare a posto con se stesso. Deve essere per questo che gli viene così facile. Deve essere per questo che gli viene così bene.

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Raindrop Blue

Circuits in the Sand

Ultraviolet

21

Aidan Moffat & RM Hubbert

Here Lies the Body

Buone feste (si fa per dire)

Alzi la mano chi vorrebbe Aidan Moffat a raccontare una favola la notte di Natale al proprio figlio. Cristo, così tanti? Ma che problemi avete? Ve lo devo ricordare io che ai tempi degli Arab Strap il nostro ciccione barbuto apriva i concerti sottolineando che erano "unsuitable for children" e che ha costruito una carriera intera su una narrativa misantropica fatta di storielle sporche e scene rissose a sfondo puramente sessuale? Comunque, contenti voi. Ecco qua il risultato.

Here Lies the Body (un titolo che pesa come un Dickens obeso sui fantasmi del panettone presente, passato e futuro) è una collezione di "carnal lullabies" studiate insieme al compagno di merende e connazionale (altrettanto ciccione e altrettanto barbuto) RM Hubbert. Un disco di Natale a modo loro, ovviamente, che del Natale va macchiare la neve fino a farla diventare melma e con il Natale si sporca le mani, saltando a piè pari gli elfi, gli aghi di pino e le palle glitterate, per finire a sbirciare morboso nel retro del camino scoppiettante, dove per pochi giorni abbiamo nascosto tutta la desolazione e la solitudine da tirar di nuovo fuori una volta che i Re Magi saranno scomparsi dietro l'angolo.

A onor del vero, forse andrebbe detto che non è tutta merda quel che non luccica, nel senso che da un lato un certo, classico humor (nero) è sempre presente, dall'altro questi pezzi potrebbero essere tranquillamente visti sì come versioni alternative di canzoni degli Arab Strap, però composte per un universo parallelo: la scena è simile, ma la prospettiva è vagamente più leggera, fino al punto di trovare addirittura un'ombra di sorriso nel disastro dell'intimità umana. Storto, ci mancherebbe, ma non troppo amaro.

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Cockcrow

Quantum Theory Love Song

Party On

20

Stephen Malkmus & The Jicks

Sparkle Hard

Pesantemente eclettici senza farcela pesare

Una delle storie più belle degli anni '90 è stata quella che ha visto i Pavement diventare — da rumorosi (e un po' spocchiosi) esteti lo-fi buoni giusto per qualche boutique musicale di nicchia — una delle più raffinate band nel panorama (non solo) indie americano.

Una volta chiusi i battenti, nei vent'anni successivi, è stato altrettanto divertente assistere alla trasformazione — apparentemente serena, rilassata e senza troppe pressioni — del buon Stephen Malkmus, che ha superato in scioltezza i confini dell'etichetta di "principino degli slacker" e ha varcato la soglia della stanza dedicata agli eccentrici virtuosi della chitarra per accomodarsi senza imbarazzo alcuno nel salotto buono dei grandi cantautori d'oltreoceano.

Autorimossosi da un ipotetico Zeitgeist DIY e da qualunque reale aspettativa in termini prettamente commerciali, ha trovato il suo posto in una confortevole, stramba routine fatta di indulgenti capricci musicali, esplorazioni sonore di tane di bianconigli e, in generale, di una scrittura che si è progressivamente allontanata dalla vivace indifferenza scazzata della vecchia band, al punto che nessuno ormai può accusarlo di campare ancora sui fasti della vecchia gloria.

Ad oggi, la musica che fa con i Jicks è un'originale architettura senza tempo, complessa ma facilmente accessibile, al netto di qualunque inutile intellettualismo, che diverte chi la suona e chi l'ascolta, senza mai cadere nello scontato, nel triviale o nel già sentito (se per caso succede, è solo perché lo abbiamo già sentito da lui). Non eclettismo per il semplice gusto dell'eclettismo insomma, ma semplicemente eclettismo di gran gusto e basta. Mica poco.

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Bike Lane

Middle America

Refute

19

Django Django

Marble Skies

Meraviglioso accelerazionismo musicale da nerd

Se siete di quelli che giudicano un album dal ventaglio di influenze che si prodiga di non nascondere, vi farà piacere sapere che il nuovo disco dei Django Django passa senza particolare imbarazzo dai beat sfacciatamente motorik dei Neu! alle chitarre vibranti tipiche di un certo surf anni '60, dai brusii elettronici di un synth-pop dichiaratamente eighties agli echi cavernosi e effettati rubati a un certo reggae contaminato (tu chiamalo, se vuoi, dub), da intermezzi sputtanati nei seventies del più becero vocoder a aperture vocali e strumentali espanse come nella migliore, assolata psichedelia. Di più: vi delizierà notare che tutta la lista appena elencata viene passata in rassegna soltanto nel corso dei quattro minuti della title-track di apertura, e che la cosa non si esaurisce lì, visto che con i pezzi successivi la situazione si fa — se possibile — ancora più eterogenea. Strizzatine d'occhio (nemmeno troppo mimate) a ritmi da dancefloor e carinerie da singoli scala-classifiche, sintetizzatori annacquati che rimandano a una certa tropical-house, ritmi frenetici che sanno quasi di hardocore/punk, chitarre garage-rock e tutta l'orgogliosa stramberia di fondo del loro sentirsi alfieri di un qualche 21st century pop post moderno. Qualunque cosa significhi.

La notizia è che — che fosse una sorta di scommessa o una propensione naturale, non fa differenza — funziona e, per la precisione, funziona così: Marble Skies ha i suoi punti deboli e si concede un minimo sindacale di passi falsi, ma non fai in tempo a rendertene conto che già te ne sei dimenticato. Non ti piace una delle mille idee di Vincent Neff e compagni? E che problema c'è? Nel giro di un minuto te ne proporranno altre novecentonovantanove, molte delle quali — qui sta il punto — decisamente più sorprendenti che irritanti, quasi tutte abilmente incastrate l'una dentro l'altra come fosse la cosa più normale di questo mondo.

Non solo, come fosse la cosa più spassosa di questo mondo.

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Marble Skies

Champagne

Further

18

God Is An Astronaut

Epitaph

La luce dal fondo del barile

Queste sono le robe che non vorresti mai scrivere. Da un lato perché tragedie del genere non le auguri nemmeno al tuo peggior nemico, dall'altro perché la musica composta, pensata, prodotta nel contesto di un evento eccezionalmente traumatico ha sempre una strana, dolorosa magia che è allo stesso tempo estremamente complicata sia da raccontare che da ricreare.

Spesso, qualunque sia il motivo — effettivo valore artistico, voglia di non sparare sulla Croce Rossa o semplice, pura empatia — contribuisce a dar vita a uno di quelli che poi saranno i conclamati capolavori della discografia dell'artista coinvolto. E va bene così: emozioni del genere, veicolate tramite canzoni, non possono che generare qualcosa di fuori dal tempo, che saremo costretti a celebrare in eterno.

Epitaph, il commovente ottavo disco dei God Is An Astronaut, non si sottrae a questo canovaccio: scritto di getto a seguito della morte del cuginetto di otto anni dei gemelli Kinsella (chitarristi della band), va direttamente ad autoproclamarsi — per distacco — come il lavoro più oscuro della formazione irlandese, senza per questo mancare di offrire (talento, si chiama) spiragli di definitiva, quasi rassicurante bellezza. Contemporaneamente trionfante e malinconico, imponente e dolcissimo, è l'amara dimostrazione che — come spesso accade, nella vita — il peggio, se non ti ammazza, finisce per tirare fuori il meglio di te, anche se lo fa con le unghie sporche e strumenti non sterilizzati.

È un gioco pericoloso, fatto al buio, senza paracadute: non un ascolto per chi sta già in un fosso per propri motivi personali. Se invece — in mezzo allo scoramento — vi è rimasta un briciolo di forza da raccogliere sul fondo del barile, il premio sarà uno degli album più sinceri ed evocativi dell'anno.

Tracce caldamente consigliate

Epitaph

Winter Dusk / Awakening

Seance Room

17

Deaf Wish

Lithium Zion

Smells like teen Sonic Youth

La linea che divide una certa idea di democrazia nella gestione delle dinamiche interne a una band e una drammatica crisi di identità è sottilissima. Nel caso dei Deaf Wish — una formazione di quattro elementi con quattro diversi cantanti — le cose si fanno, in questi termini, ancora più complicate e i rischi di collasso o implosione ancora più alti. Metteteci poi questa cosa che, nel corso di tutta la loro carriera, da più parti (e in più occasioni) sono sempre stati accompagnati da una fastidiosa eco di accusa che li avrebbe voluti degradare a semplici cloni dei Sonic Youth comparsi, con colpevole ritardo, nel posto giusto (il catalogo della Sub Pop) al momento sbagliato e capirete che, questi ragazzi, non si sa bene come possano essere arrivati — compatti e fedeli l'uno all'altro prima che a se stessi — al quinto album.

Eppure le cose stanno diversamente. Sì, nessuno nega che ci sia dietro (ma soprattutto dentro) tutto quell'ambaradan di cinquant'anni di alternative rock, fatto di brutalismo acustico, rumore assordante, psichedelica distorta, hardcore squarciagola, indie graffiante e graffiato, vocalizzi emozionati e straziati, melodie compresse e stracciate and so on, ma se proprio di Sonic Youth si deve parlare, Lithium Zion porta tutto in un universo parallelo in cui Goo e Dirty sono lo stesso album, elevato a inno nazionale di un pianeta che è riuscito, finalmente, a definire con la sola farina del suo sacco un vero e proprio concetto di noise.

Suona come un'eresia, lo so — ma, in un mondo in cui il frastuono è la norma e nessun Dio fa capolino ormai da un po', tutto è concesso — però pensateci un attimo: che meraviglia sarebbe?

Tracce caldamente consigliate

FFS

Lithium Zion

Birthday

16

Johnny Marr

Call The Comet

Poca nostalgia del pachiderma

Quando entra in scena Johnny Marr c'è sempre bisogno di parecchio spazio. Non perché l'ex chitarrista degli Smiths sia ormai diventato un grande obeso (tutt'altro), né perché il suo ego sia particolarmente ingombrante (il contrario, che io sappia). Semplicemente perché quando entra in scena Johnny Marr la sensazione è ogni volta quella che gli inglesi riassumono con la frase "there's an elephant in the room". E l'elefante in questione non è lui. L'elefante in questione è lo spettro del suo vecchio partner in crime, quello che ora sbrocca con la polizia o blatera di guerre sante vegane.

Questo costante confronto con Morrissey da un lato ha fatto sì che Marr fosse relegato ogni volta nel ruolo del poliziotto buono, dall'altro — visto che nel rock ormai da sempre quelli bravi devono pure essere cattivi — ha messo in secondo piano il fatto che, allo stato attuale delle cose, la sua musica è mediamente — di svariate spanne — più interessante di quella del compare. In questo senso, Call the Comet è probabilmente il miglior album del Marr solista, quindi, se volete continuare a fomentare il dualismo, applicate la proprietà transitiva e fate i vostri conti.

Sì, ok, c'è sempre quel problema della voce, nel senso che i livelli di carisma canoro e la destrezza di parola sono quello che sono e la sensazione strisciante è la stessa che si sente in qualunque album di Noel Gallagher, ovvero che tutti questi pezzi suonerebbero meglio cantati da qualcun altro. Poi però arriva quell'inimitabile scioltezza nel trovare la melodia giusta, renderla universale e impastarla sopra una chitarra e l'unica cosa che ti viene da dire è un onestissimo "chi se ne frega".

Tracce caldamente consigliate

Rise

Hey Angel

Hi Hello

15

The Wombats

Beautiful People Will Ruin Your Life

Il marsupio non passa mai di moda

Il marsupio non passa mai di moda Dopo una decade abbondante di raccolta dati, possiamo sbilanciarci su un dato di fatto (tutt'altro che scontato — la storia della musica ci insegna): nessuno sa fare gli Wombats meglio degli Wombats. E questo è esattamente il ruolo in cui li ritroviamo — per l'ennesima volta — nel nuovo Beautiful People Will Ruin Your Life. Ritmi secchi e puliti, beat vivaci e chitarre che fanno del riff paraculo la loro ragione di vita e un gusto per la melodia pura tipicamente british — unito alle solite liriche maliziose quanto smaliziate, piene di espressioni irregolari e strambe e giochi di parole che ballano incoscienti sul precipizio che sta tra stupidità e genio — ci ripropongono, in queste undici tracce, la quintessenza di una band che sa benissimo in cosa è brava: dare voce a un'estetica adolescenziale legata a un movimento (tu chiamalo, se vuoi, genere musicale) che è andato volontariamente a perdere ogni tratto di indiependenza, provando a darsi in pasto alle masse, senza rinunciare all'onorevole tentativo di mantenere una certa qualità compositiva.

Ci sarebbe il problema che i ragazzetti di dieci anni fa ora dovrebbero essere cresciuti al punto di pretendere qualcosa di diverso, ma questa è un'altra storia — non necessariamente confermata dalla realtà, tra l'altro. Rimaniamo quindi sui dati di fatto e stipuliamo una tregua con una verità che sta più o meno in questi termini: il panorama indie inglese da sempre trabocca di turnisti di talento e parolieri ammiccanti, ma raramente ha partorito gente in grado di sputar fuori con tanta nonchalance, contemporaneamente, motivati memorabili e un'eloquenza storta e intelligente, mischiandole insieme in raffinate canzoni pop che sanno essere allo stesso tempo cerebrali e catchy, al pari di Matthew Murphy e soci.

La notizia è che la formula ha ancora il suo perché. Non saprei dire per quanto, ma al momento la risposta non è poi così urgente.

Tracce caldamente consigliate

Lemon to a Knife Fight

Out of My Head

Ice Cream

14

The Bevis Frond

We're Your Friends, Man

Non risparmiarsi per fare meno fatica possibile

«No man is an island», diceva John Merton quando lo storytelling era dato per scontato senza essere un prodotto per (e ancora prima da) vendere. Eppure qualcuno — che sia per caso, per sbaglio, per una ben precisa volontà o semplicemente per culo — è destinato a crearsi la propria minuscola enclave lontano dalle spiagge affollate di quel continente ai più noto come mainstream culture.

Nick Saloman è uno di questi. Per quasi trent'anni — come leader dei suoi Bevis Frond — è stato avvistato al largo della costa dell'underground psichedelico inglese senza mai scomparire all'orizzonte e nel frattempo è riuscito pure a estendere (proteggendoli sempre meglio) i confini della sua beata indiependance come proprietario di un'etichetta discografica, editore di magazine esoterici e, più recentemente, pure presentatore di uno programma radiofonico. Insomma, uno che non si è mai risparmiato. Soprattutto, nel frattempo, ha pubblicato un numero di dischi di cui si è perso il conto (dalla regia mi dicono venticinque in studio + due live) senza mai centellinare note e virtuosismi da chitarrista della porta accanto o tentare di sfoggiare un dono della sintesi che madre natura non gli ha mai concesso.

Quest'ultima fatica (anche se, vista la prolificità, sembra tutto meno che un vero e proprio sforzo) non fa eccezione, né in termini di qualità complessiva, né parlando di minutaggio stretto: più di un'ora e mezzo per un album doppio fatto di venti mezzi molti dei quali si perdono oltre i dieci minuti buoni.

Se vi mancano i R.E.M. non sto qua a illudervi: vi attendono infiniti giorni di amara malinconia. Ma se vi siete chiesti come suonerebbe il loro lato elettrico una volta dilatato allo stremo fino a sconfinare nella proprietà privata del Neil Young più allucinato, allora forse qui troverete un po' di consolazione.

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Lead On

When You Cast Me Out

You're On Your Own

13

J Mascis

Elastic Days

Non solo folk, ma comunque folk-solo

Un disco di J Mascis su Sub Pop poteva sembrare un controsenso giusto qualche anno fa. Ora — alla terza uscita in questo senso — possiamo dire che è la norma e suona piuttosto come la presa di coscienza di un tizio che ha trovato un posto caldo, accogliente e su misura dove fare la sua cosa sottovoce, senza perdere l'occasione di metterla sotto forma di contratto discografico.

Partiamo quindi da un dato di fatto su cui possiamo essere tutti d'accordo, così almeno troviamo un terreno comune da cui salpare verso le infinite digressioni che seguiranno e che da un lato tireranno inevitabilmente in ballo i Dinosaur Jr e dall'altro io eviterò accuratamente di fomentare, seguire o anche solo ascoltare: J Mascis è uno che non ha ormai più niente da dimostrare a nessuno.

Detto questo, la domanda è semplice e va più o meno messa giù in questi termini: dopo aver fondato un gruppo che — volenti o nolenti — è stato di rottura a prescindere, dopo quasi trent'anni da involontario alfiere di un improbabile concetto di rock (indie per volontà altrui se non quando addirittura per partito preso), centinaia di canzoni della madonna, millemila cloni sparsi per il pianeta e una parallela carriera solista che lo ha visto sopravvivere anche a un disco acustico con i violini, davvero vogliamo ancora star qua a decidere se ci ha rotto le palle perché fa troppi assoli o se non riusciamo a smettere di ascoltarlo nonostante tutti quegli assoli?

Nel senso, alla fine — dati alla mano — possiamo a questo punto concludere che J Mascis non partorirà mai roba d'ordinanza, eppure da più parti molti lo accusano di scrivere sempre la stessa canzone. O, al massimo, le stesse due canzoni. Sì, perché — soprattutto dopo la reunion dei Dinos — è come se fosse stata di nuovo eretta attorno a loro una muraglia per proteggerli da qualunque deviazione sperimentale che esuli dalla sbracata elettrica e quindi il nostro capellone brizzolato ha opportunamente rivolto la parte più intimista del suo songwriting verso piccoli album privati.

Chiariamolo subito: lungi da me pensare che per JM sia anche solo pensabile il concepire una traccia che non grondi di malinconia e rimpianto, ma se in passato la cosa veniva quasi sempre seppellita da una coltre di rumori, oggi suona stranamente bello ritrovare tutto quel carico d'angoscia raccontato con un raffinatissimo folk mai banale né noioso.

Sarà per via di tutti quegli assoli che — in barba a qualunque canone imposto dal genere — anche qui si ostinano a disegnare lunghissimi stralci di melodie inimitabili.

Tracce caldamente consigliate

I Went Dust

Give It Off

Cut Stranger

12

Crippled Black Phoenix

Great Escape

L'infinito confinato

Ormai, agli orecchi svogliati che al giorno d'oggi fanno la media, i dischi che superano la mezz'oretta di minutaggio complessivo (nel caso specifico, che la doppiano abbondantemente) — a maggior ragione se fatti di pezzi che sfiorano il quarto d'ora — sembrano più o meno tutti uguali. Credo sia abbastanza normale: nel senso, se nel tempo di una canzone di Sfera Ebbasta questi non sono ancora riusciti a concludere l'intro, lo scollamento tra un generico approccio post-rock e la realtà delle cose è evidente e drammatico.

A volerci per forza leggere un po' di poesia retrò, album così suonano come uno degli ultimi baluardi reazionari (raccontati con un linguaggio volutamente ed emotivamente partigiano) all'avanzata della modernità. Ma il fatto è che credere ciecamente ai formalismi è la strada più diretta per esserne risucchiati e demonizzare i cliché a suo modo una stessa malata forma di cliché.

I Crippled Black Phoenix non si sono mai posti il problema (che si sa, nella vita, è uno dei migliori modi per non cadere in tentazione) e in tutti questi anni poco hanno variato la loro proposta di endless suite infinitamente disastrate, per il semplice motivo che — a dispetto della prima superficiale impressione di cui sopra — già estremamente varia di suo.

Ci sono il metal e il doom, ma opportunamente rarefatti in una visione pinkfloydiana e poi rimessi in sesto con tutta la pignoleria ossessiva dei Nine Inch Nails, eppure mai contaminati dalla minima traccia di spontaneità, perché complesso risultato della somma di innumerevoli, piccoli particolari cesellati fino allo sfinimento, persi nei vizi del compositore piuttosto che in quelli della rockstar, strato su strato, strumentazione classica su strumentazione aliena: passione lasciata libera, ma solo di seguire un ben preciso ordine strutturato, che ha come unico obiettivo quello di lasciarti senza respiro prima e senza fiato poi. Se non siete capaci di vedere la sottile differenza (tra fiato e respiro, dico), passate pure oltre senza rimorsi.

Tracce caldamente consigliate

To You I Give

Times They Are A'raging

Nebulas

11

Courtney Barnett

Tell Me How You Really Feel

Umorismo profondo e pungente empatia

Il bello (bellissimo, a mio modesto parere) di Courtney Barnett sta nel suo non essere né carne né pesce e, in particolare, la deliziosa disinvoltura imbarazzata con cui sembra sguazzare in quella pozzanghera dove la carne affogherebbe e il pesce rimarrebbe arenato. Musicalmente è una cantautrice estremamente introspettiva e malinconica, ma non di rado ti scopri ad accompagnare buona parte dei suoi pezzi con le onorevoli arti dell'air guitar e dell'headbanging — a livello di scrittura espone invece una logorrea di un'intelligenza disarmante pur lasciandoti il fondato sospetto che, nella realtà, abbia grossi problemi a relazionarsi con i suoi simili.

Dare un seguito a un debutto d'oro bislacco come Sometimes I Sit and Think, and Sometimes I Just Sit non era cosa semplice. Lei decide (anche se, trattandosi di propensione naturale, non credo ci fossero molte alternative) di giocarsela da introversa nervosa e ansiogena quale è, ovvero allargando la forbice tra l'angoscia di un eccesso nell'esposizione di sé e il sospetto che non far sentire la propria voce sia in qualche modo deleterio.

È l'eterno scollamento tra chi sei e chi vorresti essere. È complicato, sfinente e, normalmente, non ci sono versi brillanti, trucchetti polisillabici o battute sarcastiche da portare a casa per sentirsi meglio. Lei — al contrario, come al solito — li trova, te li nasconde in tasca quando meno te ne accorgi e, quando ci infili le mani per sbaglio, fa sentire meglio anche te.

10

Arctic Monkeys

Tranquillity Base Hotel & Casino

Un piccolo passo per gli Arctic Monkeys, un grande passo per Alex Turner

Sì, c'è gente a cui per il trentesimo compleanno regalano un pianoforte, mentre a voi sempre il solito dopobarba. Non è colpa di nessuno se avete degli amici di merda.

Detto questo (qualcuno doveva pur farlo), credo che tutti abbiamo avuto, subito dopo il primo ascolto di Tranquillity Base Hotel & Casino, la stessa reazione di Jamie Cook nel momento in cui Alex Turner gli ha presentato le prime bozze composte sui tasti dello Steinway. Cito a memoria, ma il concetto è più o meno il seguente: «E io cosa cazzo dovrei farci con 'sta roba?». Lui poco, obiettivamente. Ma anche voi, buttar subito tutto nel secchio del rock senza chitarre, e nemmeno concedergli il beneficio del dubbio, non è stato carino.

Siamo d'accordo sul fatto che il sesto album degli Arctic Monkeys sia essenzialmente un disco solista di Turner (ci sono pezzi che lo accreditano anche dietro alla batteria — immagino in quei casi a Matt Helders toccasse portare da bere), ma scagli la prima pietra chi non è mai stato sfiorato dal sospetto che sia sempre stato così, anche per i cinque precedenti.

Era un modo di dire: mettete giù subito tutti quei sassi.

La differenza è che questo è il suo rock'n'roll dream che diventa realtà, il suo ambizioso tentativo di vedere se la sua musica funziona anche sulla Luna, l'elegante conclusione (tirando le somme, un successo) del suo progetto di dimostrare al mondo che lui e soltanto lui è, alla fine, l'unica vera forza creativa e icona culturale uscita dal calderone dell'indie britannico di inizio millennio, l'inevitabile — egocentrica ma confermata dai fatti — risposta scontata alla domanda retorica che lui stesso poneva, dodici anni fa, in un (ai tempi apparentemente inoffensivo) EP: Who the Fuck Are Arctic Monkeys?

9

Low

Double Negative

Non è la fine

Ci sono album che sembrano esistere solo ed esclusivamente fuori da ogni specifico tempo e spazio: roba che non riesci a incorniciare dentro nessun riferimento, qualunque esso sia. È una questione che va oltre il semplice fatto di trovarsi di fronte a qualcosa che non ti saresti mai aspettato, qualcosa che ha solo bisogno di un tot di attenti ascolti in più per entrare in risonanza con la sua frequenza. Parlo di enigmi belli e buoni, che operano senza ritegno alcuno in una dimensione tutta loro: eterna, disturbante, ipnotica, inaccessibile probabilmente.

Double Negative è uno di quelli: uno dei dischi più spiazzanti dei Low, uno dei dischi più spiazzanti dell'anno. Non solo un'anomalia per il trio di Duluth: un'anomalia sonora per ogni cosa abbiamo mai sentito provenire dal mondo che conosciamo, là fuori. Niente, alla fine, si risolve, tra queste note piegate contro la loro volontà: nessuna minima, facile risposta viene offerta su ipotetici piatti d'argento e in tutti i singoli, santi momenti dell'album non sai di preciso dove ti trovi, sai soltanto che ti trovi — fortissimamente — da qualche parte.

Alan Sparhawk e Mimi Parker prima prendono in mano frammenti bellissimi per distruggerli con tutto l'amore possibile, poi vanno a toccare i confini dell'orribile per renderlo celestiale con precisione da tiratori scelti. Non reinventano il loro sound, perché reinventarsi e basta è volgare: lo portano direttamente su un altro livello senza lasciarsi dietro molliche di pane buone per seguirli.

Qualcuno lo ha paragonato — come sliding door di una carriera e attualità dell'impatto — a Kid A: confusione campionata, disgusto digitale e il crollo verticale di ogni senso di comunicazione nella paura del presente, più che del futuro. A me continua a sembrare la colonna sonora perfetta per il libro di fantascienza che Cormac McCarthy non ha ancora scritto: dice che non è la fine, è solo la fine della speranza.

8

Daniel Blumberg

Minus

Mai stati peggio, mai stati meglio

Ascoltando un disco così elegante nella sua devastazione e così organico nel suo caos disperato, mai diresti che possa essere uscito dalla testa (un po' malata, scopriremo poi) di un ventisettenne ex-frontman di una band art-rock risalente all'era di MySpace (i Cajun Dance Party) prima e mente di una noise-shoegaze (gli Yuck) poi. Consideriamo inoltre che nel mezzo ci sono stati anche progetti strampalati come Hebronix, Oupa, Heb-Hex e Guo e che dopo, soprattutto, le cose sono andate un po' in vacca nello stesso momento: una lunga relazione sentimentale in pezzi, la morte di un carissimo amico d'infanzia, il ricovero (dicevamo) in un ospedale psichiatrico giusto una settimana prima dell'inizio delle registrazioni di Minus.

Stando così il contesto, credo sia normale che, per descrivere questo disco, da un lato qualunque aggettivo che riporti a un concetto di pesantezza (in senso emozionale) trovi la sua giustificazione (inquietante? Certo. Spettrale? Ottimo. Desolante? Come no: vale tutto), dall'altro nessuna di queste etichette (nemmeno se attaccate una sopra l'altra) riuscirà mai a rendere per intero il coraggio e la forza di volontà che c'è voluta per scriverlo, questo disco. Né tantomeno la bravura necessaria per renderlo così appagante all'ascolto, una volta venuti a patti con quel che resta dell'angoscia (propria e altrui).

Una base fragile di pezzi di pianoforte che sembrano perdere i sensi sotto il peso di ampie texture ricostruite a partire da intuizioni provenienti da altri strumenti: campioni di batteria insistiti, scoppi intrusivi e inaspettati di chitarre distorte, corde acustiche pizzicate dolcemente per compensare. Tutto oscilla tra lucidi flash a fuoco e annebbiamenti improvvisi, come in una soggettiva di qualcuno che ha la vista appannata ma procede lo stesso, ben conscio del proprio obiettivo ma meno abile nel trovarne la chiave, in una tranquillità malinconica che da un momento all'altro potrebbe collassare in un tumulto insostenibile, ma mai meno che bello.

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Minus

The Fuse

The Bomb

7

Yves Tumor

Safe in the Hands of Love

Un intossicante bisogno di libertà

Le parole gender fluid hanno ormai raggiunto gli infimi livelli di credibilità di termini come "storytelling", "creativity", "sustainability", ovvero sono andate al di là del limite dell'urgenza per farsi hype, trasformandosi in strumenti di marketing più che rivelarsi — come avrebbero dovuto — assunti necessari. Per dire, dal punto di vista dell'identità sessuale o della moda stessa, sono ormai concetti sdoganati oltre l'abuso. Parlando di musica invece, fino a oggi si era andati poco oltre una vaga idea di "sperimentazione" (dopotutto si sa: ormai dai tempi dei Sex Pistols, la musica sembra condannata ad arrivare costantemente dopo il fashion e — appunto — il sesso).

Sean L. Bowie ha un nome (e soprattutto un cognome) pesante — che è meglio nascondere dietro a un moniker per non suggerire paragoni complessi — e tutto il talento necessario per reggerne il fardello a prescindere. Normale quindi che tocchi a lui farci notare l'ovvio, e cioè che anche un genere musicale altro non è che un corpo e che, se dentro a quel corpo ti senti imprigionato, l'unica via d'uscita è ridefinirne l'essenza.

Safe in the Hands of Love, il terzo album a firma Yves Tumor, straccia i concetti di "pop", "elettronica" e soprattutto "coraggio" in un unico magma incandescente che fonde Arca con Sophie senza lasciare alla scientifica nessuna traccia di DNA che permetta di risalire ai geni originari: tanto scioccante quanto accessibile, esplosivo e imponente nella sua purezza primitiva, vero e carnale dietro un'apparente, estrema, scossa patina sintetica.

Se il mondo che ci ha illuso si sta sbriciolando sotto i nostri piedi, ma il suono del futuro è questo, ci aspettano giorni inquieti che comunque sapranno darci — ammesso di riuscire a metterci del nostro a scovarle senza farcela addosso alla prima curva — grandi soddisfazioni.

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Noid

Licking an Orchid

Lifetime

6

Young Fathers

Cocoa Sugar

Un po' Grace Jones, un po' Andy Warhol

Gli Young Fathers suonano una roba inzuppata di club culture, dub, industrial, costantemente occupata a ballare sui confini di R&B, hip-hop e mille altre componenti black, eppure non puoi esattamente definirli dei rapper. Risulterebbe impreciso e fuorviante.

Anche tirare in ballo un certo trip hop — per quanto Edimburgo sia forse la cosa più simile a Bristol che c'è in Scozia — non sarebbe abbastanza. Stanno piuttosto sotto il cappello di quella specie di "Dixieland al contrario" (siamo dalle parti dei TV On The Radio con meno chitarre o degli Algiers senza riferimenti alla letteratura southern gothic, alle Black Panthers e agli schiavi dell'Alabama) che ha portato la negritudine a sfondare con meritato successo in campi (rock, post-punk, elettronica) un tempo quasi esclusivamente monopolizzate da un establishment musicale bianco.

Diciamo che si erano messi in testa di costruire un loro stile ibrido senza porsi particolari limiti di palette sonora (se non la promessa di andare contro un certo tipo di easy listening buttandola più sull'eclettico e il claustrofobico) e quindi — coerentemente — ora che lo "strano" è diventato la normalità, se ne escono con il loro lavoro più accessibile, ma che ancora (giusto per tranquillizzare tutti), risulta ben lungi dall'essere ordinario.

Tutt'altro che una versione filtrata di ciò che è stato, suona piuttosto come un tentativo calcolato (e soprattutto perfettamente riuscito) di reinventare la ruota dell'art-pop secondo le proprie regole: l'ennesima conferma della piacevole eccezione di cui avevamo bisogno, ma di cui facciamo fatica a capire l'essenza più buia che quindi, probabilmente, non ci meritiamo.

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In My View

Wow

Toy

5

Iceage

Beyondless

Essere punk o non essere punk?

Se qualcuno ti dice che gli sembri "potenzialmente pericoloso" è difficile prenderlo come un complimento. Se quel qualcuno però è Iggy Pop, la cosa suona automaticamente come un endorsement e, a volerla leggere con il senno di poi, diventa una previsione azzeccata, nel senso del ribadire che — nella musica come nella vita — ciò che è veramente pericoloso è il non rimettersi mai in gioco, prendendosi i conseguenti rischi e invitando i tuoi stessi ascoltatori a prenderseli a loro volta. Perché il punk — si sa — è un fuoco che brucia forte ma brucia subito e quindi se finisci per rimanere punk tutta la vita, in qualche modo lo stai facendo sbagliato.

I danesi Iceage risolvono i dubbi del loro conterraneo Amleto andando oltre la soluzione classica (ovvero aggiungere la preposizione "post-"" a un'idea e vedere l'effetto che fa) e inzuppano gli scolastici riff distorti degli esordi in un oscuro miscuglio in cui Nick Cave suona con i Primal Scream invece che con i Bad Seed e i Sonic Youth vanno a lezione di sabba dai Birthday Party. Ne esce uno strascico di rock-boogie che va Beyondless (nel senso di "ok oltre, ma anche meno"), totalmente rinnovato nel suo sapere di déjà-vu, rivisitato dietro un'aura pesantemente dark, in cui il rock serio si fa con gli accordi pesanti ma anche con gli strumenti a fiato, come ci hanno insegnato i Motorpsycho ai bei tempi in cui il rock si faceva, appunto, seriamente.

D'altra parte — per rimanere in tema di profezie VIP — Thom Yorke ce lo aveva detto in tempi non sospetti: «ice age coming». Mi sa che ci siamo, ed è meno peggio del previsto.

Tracce caldamente consigliate

Hurrah

Pain Killer

The Day the Music Dies

4

A Perfect Circle

Eat the Elephant

Aspetta e spera

Mettiamo giù le cose come stanno: se ancora non siete venuti a patti con i tempi di Maynard James Keenan, direi che a questo punto quelli che hanno un problema siete voi, non lui. Bisogna farsene una ragione: il (non più) ragazzo ha un sacco di interessi che vanno oltre l'orizzonte musicale (produrre vino, esercitarsi nel jiujitsu brasiliano, rimandare l'uscita del nuovo disco dei Tool). Tra l'altro, tutta roba che richiede lavorazioni bibliche, una pazienza incontaminabile e, in generale, una declinazione tutta sua dell'arte di saper aspettare.

In questo senso, l'attesa spasmodica (quanto puntualmente disillusa) del nuovo album della "band madre", ci aveva fatto dimenticare che in realtà gli A Perfect Circle mancavano dai cataloghi da un periodo ben più lungo. In pratica, da una preistoria in cui Mark Zuckerberg stava ancora in braghe di tela e Facebook era solo un'ipotesi, le ambizioni di Donald Trump si fermavano a un vestito da contadino da indossare agli Emmy Awards e la gente ancora non si vergognava di saper suonare una chitarra.

Eppure, sia il nostro maestro di cerimonie che il fido assistente (ma in realtà vero manovratore dell'intera marionetta) Billy Howerdel, nonostante i quattordici anni di assenza, sembra non abbiano perso né il vizio di saper essere attuali (musicalmente e nei contenuti), né quello di accettare (e vincere sul campo) sfide complicate come quella di provare a rimanere una band che conta, con tutta la grandeur sfacciata che la cosa richiede.

Eat the Elephant è l'asso che calano sul tavolo, incuranti del tempo che ci metteremo a digerirlo, delle aspettative che andranno a disilludere, delle altre carte che vorremmo sperare avessero in mano. Chiamatelo bluff, ma — a poker come nella vita — a volte (spesso) si vince proprio con quelli.

3

Calvin Johnson

A Wonderful Beast

Rifare la storia

Cinquantasei anni suonati (in tutti i sensi) da eroe dell'indie DIY del Pacific Northwest: la storica label K Records, i Cool Rays, i Beat Happening, i Go Team and gli Halo Benders. In mezzo a tutto questo daffare Calvin Johnson arriva così solo adesso al terzo album solista (dopo tredici anni di attesa in questo senso), ma continua a non sbagliare un colpo.

A Wonderful Beast è l'esplorazione sonora che raramente finiamo per trovare nella testa di tanti giovanotti clonati sulla carta carbone della loro mancanza di coraggio. E la cosa non deve sorprendere, visto che fondere in maniera così spudorata la sconfinata miriade di sfaccettature della storia del rock viene indubbiamente più facile se sei uno che, appunto, la storia del rock l'ha fatta. Solo in quel caso infatti riesci a portare ai confini dell'estrema resilienza lo stress test di materie prime che hanno fatto il loro tempo come chitarre elettriche, sintetizzatori modulari e drum-machine da quattro soldi, combinandole in arrangiamenti di gran gusto, nonostante girino tutti sulla stessa giostra che va dal La al Re minore, passando sempre nel porto sicuro di un solido Do.

Se il rock'n'roll è morto, a quanto pare Calvin Johnson non era in copia nella mail con cui la cosa è stata comunicata. Ed è un bene per tutti, visto che — beata l'incoscienza della vecchiaia — ha potuto continuare indisturbato la sua operazione di restyling, ovvero abusare di una formula classica fino ai limiti del vilipendio di cadavere e di lasciarci in dote la brillante testimonianza che nessuna forma musicale può dirsi vecchia, almeno finché c'è qualcuno che sa metterle le mani addosso senza pregiudizi di sorta.

2

Black Rebel Motorcycle Club

Wrong Creatures

Il vostro cazzo di rock'n'roll

Avete ragione, il rock è così: splendidamente prevedibile, granitico nelle sue convinzioni e nel modo diretto che ha di esporle, istintivo, impulsivo, compulsivo. Non ama le sorprese, fa la prima cosa che gli viene in mente e continuerebbe a rifarla per un disco intero: si spiega da solo, non ha bisogno di un foglietto illustrativo, se non quello dell'antidolorifico che ti serve dopo che ti ha preso a calci. È esattamente quello che ti aspetti declinato in quattro accordi e cinque note, eppure crea dipendenza, in quanto variazione costante sul suo stesso tema: una roba confortante a livelli tossici, tribale e aggregante come poche altre.

Con tutto ciò, per quanto possiate considerare il rock banale, converrete che, se di rock si deve parlare, la cosa più difficile è riuscire a non essere banali nel rock. Ecco, in un momento in cui la legittimità e l'eredità di un genere musicale a cui hanno provato a succhiare fino all'ultima goccia di benzina sono costantemente messe in discussione e in cui quel genere stesso si vede sempre più relegato ai margini in termini di presenza nella cultura pop, Wrong Creatures ci dà una risposta secca e sana, ampiamente argomentata a suon di ottimi pezzi: vivi o non morti, resuscitati o risorti, fate voi. Ma se vi state ancora chiedendo che fine ha fatto quella cosa che vi prendeva per la gola scuotendovi contro il muro quando avevate ancora i capelli, che vi faceva battere il piede a tempo e muovere il bacino come fosse il pezzo del corpo di un altro, l'impressione è che non siate ancora riusciti a uscire dalla sceneggiatura di un thriller da quattro soldi, di quelli in cui la soluzione è lì, esattamente dove non la cerchereste mai: sotto i vostri occhi.

In caso non ve ne foste accorti, i Black Rebel Motorcycle Club la stanno suonando da tempo, la stanno suonando forte e la stanno suonando bene.

Tracce caldamente consigliate

Spook

Question of Faith

Carried from the Start

1

Shame

Songs of Praise

Arsenico vs. vecchi merletti

Leggerete di post-punk sfrontato e pop spigoloso, di inevitabile rabbia adolescenziale e sorprendente maturità artistica, di roba già abbondantemente sentita e di ancora qualcosa di nuovo da dire. Leggerete tutto e il contrario di tutto, e il punto sta nel fatto che è tutto (e il contrario di tutto) vero. Il collante che tiene insieme la cosa — nonostante la forza repulsiva che gli ingredienti in ballo, per loro natura, genererebbero — è fatto di un talento fuori dall'ordinario per dei ventenni appena e di un'ironia feroce (che sfiora il sarcasmo disilluso) che li mantiene a dovuta distanza da ogni rischio di bruciarsi con il loro stesso hype prima del tempo.

Songs of Praise è uno dei programmi più vecchi della BBC: va in onda la domenica pomeriggio e porta in certi salotti inglesi fatti di pizzi e uncinetti un catalogo pressoché completo di cori angelici provenienti da deliziose chiese di campagna. Un'istituzione, ammuffita e pucciosa allo stesso tempo, che puzza di stantìo ma ancora profuma di nonna, rigorosamente approvata dalla Regina. Ecco: su quei divanetti timorati di Dio, gli Shame ci salgono sopra con le scarpe sporche come fossero gli zoccoli merdosi dei figli illegittimi di una pecora nera e un caprone incazzato su un vestito da sposa. Un po' di scalci disgustati, la giusta dose di presa per il culo e l'energia coatta di un'apocalisse controllata.

Cresciuti sul soppalco del Queen's Head pub di Brixton con i Fat White Family a far loro da tutori e gente come i Fall e Gang Of Four sparati nelle cuffie, il loro debutto nel music business è un lavoro pressoché perfetto: dieci pezzi senza fronzoli a cui si fa fatica a trovare anche un solo difetto, anche a voler esser prevenuti.

Il disco che aspettavamo ormai dai tempi di Whatever People Say I Am, That's What I'm Not degli Arctic Monkeys.

Tracce caldamente consigliate

One Rizla

Gold Hole

Friction

Dei rosiconi

Ovviamente poi — come in qualunque tornata elettorale che si rispetti — c'è chi vince ma non c'è mai nessuno che perde, almeno a sentir le dichiarazioni post-voto. Quindi anche in questo caso, a parte questi trenta (s)fortunati che andranno a formare la squadra di governo, rimane tutto un lunghissimo stuolo di parassiti pronti a occupare tutte le altre poltrone disponibili in parlamento, ovvero gente che probabilmente si sarebbe meritata di più ma purtroppo non ha saputo cavalcare a dovere tutte le paure del popolo, capire le sue esigenze e — evidentemente, in maniera supponente e antipatica — non ha voluto nemmeno considerare che la terra possa essere tonda e piatta come un vinile in edizione limitata, né ha avuto l'umiltà di scendere in strada a parlare con l'uomo comune senza vaccinarsi, prima di decidere che album fare e quali fake news inventarsi per promuoverlo sui social.

Sono i famosi dischi che ci son piaciuti lo stesso ma un pochino meno e ci permettiamo di andare a elencarli (in ordine felicemente sparso e senza nessuna pretesa di completezza) qua di seguito, come i buoni, vecchi ringraziamenti nell'ultima pagina del booklet di un CD.

Ve li ricordate i CD? Sì? Qualcuno li compra ancora? Sul serio? Strano. Perché con tutto questo parlare di nuove tecnologie, ormai ci eravamo convinti che anche per loro fosse finita la pacchia.

Thom Yorke, Calexico, Dream Wife, Oh Sees, Cabbage, Suede, Spiritualized, Eels, Ron Gallo, Matthew Dear, Metric, Brockhampton, The Holydrug Couple, Idles, Jon Hopkins, Autechre, Beak>, Mark Lanegan & Duke Garwood, Interpol, The Prodigy, Aphex Twin, Justice, Alice in Chains, Mogwai, Gaika, Goat Girl, Any Other, Kurt Vile, Calibro 35, Tokyo Police Club, Porches, Shopping, Glen Hansard, Josh Rouse, B Fleischmann, Oneohtrix Point Never, Hookworms, Soulwax, The Soft Moon, Rhye, The Limiñanas, Awolnation, Screaming Females, Ex:Re, Daughters, A Place to Bury Strangers, Albert Hammond Jr., Gengahr, Joan As Police Woman, Anna Calvi, Tess Parks & Anton Newcombe, Cat Power, The Decemberists, Die Nerven, Fischerspooner, Ital Tek, George Fitzgerald, Gus Gus, U.S. Girls, Ought, Car Seat Headrest, Rolling Blackouts Coastal Fever, Manic Street Preachers, The Orielles, Grant Lee Phillips, Jon Spencer, Grounders, Insecure Men, Father John Misty, Melvins, Soccer Mommy, Superorganism, Suuns, The Breeders, David Byrne, Alva Noto, The Voidz, Jack White, Amen Dunes, The Vaccines, Barbarossa, Post Animal, Speedy Ortiz, Forth Wanderers, Black Moth Super Rainbow, Rival Consoles, Beach House, Mark Kozelek, Parquet Courts, Snow Patrol, Naxatras, E, Lump, Arthur Buck, Gang Gang Dance, Sophie, Lotic, Cowboy Junkies, Underworld & Iggy Pop, The Coral, Death Cab For Cutie, Miles Kane, Paul McCartney, Richard Thompson, Therapy?, Mudhoney, Electric Six, Tom Morello, Sun Kil Moon, Laish, Gabe Gurnsey.

100 canzoni che ci son piaciute quest'anno

Se poi — nell'attesa che vi chiamino per offrirvi il reddito di cittadinanza — vi avanzano sei ore e mezza da poltrire sul divano, quasi tutti li trovate in questo sintetico mixtape.

Se invece siete tra i pochi fortunati che un lavoro ce l'hanno, potete comunque ascoltarlo a spizzichi e bocconi, tra una call, un meeting, un brief, un brainstorming, un report e una santa pausa-caffè: vi terrà compagnia fino alle soglie della pensione. A meno che non siate tra i quattro gatti premiati da quella congiunzione astrale chiamata quota 100.

Tutto il resto è opposizione.

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