Sleigh Bells, Thunderpussy, Alex Cameron, U.S. Girls e Big Moon: cinque pezzi buoni per iniziare l'anno nuovo senza troppe paranoie, fioretti indigesti, né promesse da non mantenere.
10 Gennaio 2018
Ricordate la Madonna che piangeva sangue a Civitavecchia? Qualche anno fa tutti i giornali ne parlavano dando per buona la possibilità del miracolo. Ebbene, in un impeto di ribellione per tanta imbecillità, in questi giorni anche il busto della cantante degli Sleigh Bells, Alexis Krauss («molto bellina» — dovremmo aggiungere, per continuare sulla falsariga tracciata a suo tempo dagli Offlaga Disco Pax), ha cominciato a lacrimare.
Nonostante il loro ultimo album sia uscito appena un anno fa, i due di Brooklyn sono da poco tornati con un EP di sette tracce, Kid Kruschev, e sembra abbiano tutta l'intenzione di provare a sperimentare qualcosa di diverso. O almeno questo è quello che si intuisce ascoltando And Saints, pezzo molto più tranquillo del solito, che si snoda sinuoso lungo un'unica linea di synth declinata in chiave minore e ricorda un po' Robyn quando evita di buttarla in caciara sul dancefloor.
In altri termini, quelle chitarre gracchianti che ti violentavano le orecchie e che ormai erano diventate il loro trademark sono per una volta lasciate all'immaginazione. Immaginazione che, nel video diretto da Mimi Cave e Derek Miller, prende la forma del baccano ovattato e privo di audio scelto per accompagnare una Krauss truccata come la mamma de Il Carissimo Billy: una band black metal che suona in una palestra, colonna sonora perfetta per la coreografia di un gruppo di cheerleader possedute dal demonio, già pronte per un festino a metà tra Halloween e Eyes Wide Shut.
Il contrasto tra la dolcezza pop della voce di Alexis, il suo make-up anni '50 e la musica infernale che dovrebbe invece essere il sottofondo di quello che le succede intorno è allo stesso tempo surreale e affascinante. Al punto da lasciare viva la speranza che, mandando il nastro al contrario, potremmo davvero, non dico ritrovare i vecchi Sleigh Bells, ma almeno una loro cover degli Impaled Nazarene.
Nemmeno tre anni fa, gli unici suoni che potevano accompagnare un'improbabile performance di Molly Sides e Whitney Petty erano le strofinate di olio di gomito per tirar via i residui di cibo dai piatti prima di buttarli nella lavastoviglie del Pink Door Restaurant di Seattle. Poi è andata che, durante un festival al Gorge Amphiteatre, Mike McCready le ha viste suonare insieme alle altre Thunderpussy, ne è rimasto (con un moniker del genere, come poteva essere diversamente?) folgorato e ha deciso di produrre il loro primo EP, rendendosi così complice di un colpo di mano che, in un attimo, riporta il capoluogo della King County in un'era pre-grunge in cui, stivali, pelle, glitter e rossetti infuocati la fanno ancora da padroni.
Proprio il chitarrista dei Pearl Jam si è pure prestato (insieme alla sua Pontiac del '78) per un cameo nel video di Speed Queen. Diretto da Cheryl Ediss, sembra iniziare — con una devastante rissa da bar tutta al femminile tra due squinternate gang di ballerine attaccabrighe (le Hotti Cauteratti contro le Silver Slits) — sul set della versione riot-grrrl di Road House e finire su quello di un remake biker-friendly di Thelma & Louise, facendo così tornare alla ribalta il tema dell'emancipazione femminile in un'America — quella attuale — che pare avere bisogno di continui promemoria al riguardo.
Per esempio, il loro omonimo disco di debutto è pronto per uscire in primavera, ma per ora le quattro ragazzacce sono riuscite ad avere i diritti per il nome solo nello stato di Washington: per il resto degli USA c'è ancora qualcuno che, appellandosi al Lanham Act del '46, vorrebbe vietarlo in quanto "scandaloso" e "immorale". Il che è quantomeno buffo, visto il tizio che siede nella Sala Ovale in questo momento.
Buffo e anacronistico come le migliori sceneggiature di fumetti, poiché Thunderpussy vs. Pussy Grabber potrebbe tranquillamente essere il titolo di un'epica storia targata Marvel ambientata ai giorni nostri. Una lotta senza esclusione di colpi, perfetta per continuare a sperare che, come spesso avviene in quei casi, anche qui vincano i buoni, alla fine.
O forse dovremmo dire — per scendere al livello del villain in questione — "le bòne"?
L'ultimo dell'anno — ma che ve lo diciamo a fare? Ci siete appena passati! — è quel momento dolceamaro in cui, pur di non lasciarti andare a pericolosi resoconti in cui tiri le somme senza avere la più pallida idea del risultato che ne uscirà, sei disposto a divertirti a tutti i costi, anche se preferiresti passare la serata sul divano col gatto.
Non è certo questo il caso dei Big Moon (forse dovremmo dire "delle" Big Moon): quartetto tutto al femminile che, con il debutto Love In The 4th Dimension, compaiono praticamente in tutte le classifiche dei migliori album del 2017 e si son pure guadagnate una bella nomination per il Mercury Prize. Loro, quindi, sì che ne hanno di motivi per festeggiare.
Come se lo sapessero in anticipo, la settima traccia del disco si intitola Happy New Year e — puntuale come Carlo Conti su Rai 1 — è uscita a dicembre inoltrato come singolo, con un video a tema che vede i membri del gruppo impegnati in un improbabile balletto insieme alle proprie versioni in miniatura.
Come coreografie non siamo ai livelli degli OK GO, anzi, direi che si va più sull'amatoriale spinto: una roba a metà tra il gioco di gambe di Pulp Fiction e un intramontabile Ballo del Qua Qua, che vede comunque i "mini-me" sempre un passo avanti rispetto alle loro versioni adulte. Nel confronto tra grandi e piccini infatti la figura migliore ce la fanno sicuramente i piccoli doppelgänger, che nella loro beata incoscienza non hanno paura di gettarsi in sperimentazioni più di nicchia come air guitar e break dance.
Insomma, l'atmosfera è scatenata: si corre, si ride, ci si ubriaca di succo di frutta e fantabirra e ci son pure un botto di coriandoli che, con il loro tocco un po' retrò, son sempre ottimi per celebrare annate da ricordare, vivere il momento e guardare al futuro con gli occhi di chi di tempo per crescere ne ha da vendere. Tanto poi, pulire tocca sempre ai soliti due sfigati.
La liaison tra USA e Canada è sempre stata — come si sarebbe detto ai tempi del primo Facebook — una "relazione complicata": i due paesi (e rispettivi popoli) si sono amati e respinti, mischiati e separati, invidiati e presi per il culo sotto svariati punti di vista, sin dai tempi della guerra per il confine dell'Alaska, passando per gli sketch di Trombino e Pompadour durante South Park, fino all'ultimo singolo di Neil Young.
Parlando di Meghan Remy, sicuramente rimaniamo in tema, anche se la situazione viene ulteriormente incasinata: c'è un'artista mezza yankee e mezza canuck, che nel 2007 ha messo su una band negli Stati Uniti e poi ha deciso di trasferire baracca e burattini (nello specifico gli altri membri del gruppo) a Toronto, una volta sposato il musicista canadese Max "Slim Twig" Turnbull. Come se non bastasse la band in questione — ironia della sorte — l'aveva chiamata pure U.S. Girls. Buffo, no?
Purtroppo la parte divertente finisce qui. Sì, perché Velvet 4 Sale, secondo singolo che batte la strada per l'imminente arrivo del nuovo album In A Poem Unlimited, parla di cose estremamente serie e mette il dito dentro una piaga tanto dolorosa quanto attuale, fatta di violenza domestica, abuso di autorità e voglia di vendetta, lasciando in sospeso quel dubbio atroce che ci fa chiedere se permettere che donne e bambini inizino a girare armati (non) risolva la cosa.
Lo fa con il sound di un thriller anni '70, un pop malaticcio con qualche venatura jazz (forse figlia del sample rubato a Witch Hunt di John Cameron, tema della colonna sonora di Psychomania) e un video, diretto dalla stessa Meg in partnership con Alex Kingsmill, che accetta di scendere al livello narrativo di NCIS, pur di lasciarci la speranza che tutti gli Harvey Weinstein di turno facciano quella che potremmo chiamare "la fine del Lemming solitario": volontariamente giù da una scarpata, ma senza nessuno che lo segua.
Alex Cameron ha costruito la sua carriera solista utilizzando sintetizzatori analogici per celebrare tutto un suo personale cast di perdenti e raccontando, con sonorità sfacciatamente Eighties, storie di deliranti fannulloni, riuscendo sempre a farle risultare allo stesso tempo ferocemente divertenti e curiosamente profonde.
Spesso — in particolare nell'ultimo Forced Witness, di cui Politics of Love è proprio la traccia finale — ha chiesto aiuto al partner in crime Roy Molloy che con il suo sax (anche senza stare a scomodare cose turpi di papettiana memoria) certo non ha mai contribuito a rendere meno "anni '80" tutta la faccenda.
In questo caso proprio il sassofonista si è preso anche la briga di scrivere la sceneggiatura del video, forse perché voleva essere sicuro che le loro straordinarie capacità attoriali fossero messe adeguatamente in risalto: Cameron bravissimo nell'allontanarsi lentamente dalla camera caracollando con stile a dir poco originale fino a scomparire all'orizzonte, Molloy semplicemente da Oscar nella sua interpretazione della strategia dell'opossum, ovvero fingersi morto sparato al volante di una macchina da rottamare.
Il resto è un plot immobile che trasla nel mondo dei videoclip musicali l'amore per i titoli di coda già teorizzato a suo tempo in Santa Maradona, mandando in sovraimpressione praticamente tutti i testi del booklet del disco, in mezzo ai quali si intravedono svariati ospiti di un certo livello (Angel Olsen, Kirin J. Callinan, Brandon Flowers dei Killers, Jonathan Rado dei Foxygen).
Riassumendo: l'ultimo singolo di un album che è anche la canzone di chiusura dell'album stesso e delle immagini che per raccontarla partono dalla fine e lì rimangono, a sciorinare soltanto una lunga serie di credits. In altri termini, la colonna sonora perfetta per questi pochi restanti giorni dell'anno, tempo di bilanci, retrospettive, classifiche, chiusure di inventari e richieste di attenzione last minute.