I Therapy? tornano in Italia per due date in croce ed è subito 1994. Più o meno. Del perché una band del genere può avere il suo senso anche dopo trent'anni. Attenzione: contiene punti interrogativi.
23 Febbraio 2019
Sono gli anni '90 e di là dall'oceano quelli ai piani alti stanno tirando paccate di dollaroni dietro a chiunque abbia una chitarra appesa al collo. Quegli incompetenti della Geffen hanno fatto firmare certi cazzo di Nirvana convinti di racimolarci duecentomila copie ad andar bene e invece poi Butch Vig ci ha cucito sopra un discone pop della madonna e le cose sono andate fuori controllo.
I capoccia della casa madre — alla A&M USA — avevano messo le mani avanti con i Soundgarden qualche anno prima: non proprio la stessa cosa, ma finalmente anche quel gran Gesù senza posa di Chris Cornell e i suoi compagni di merende si sono convinti a sfornare un capolavoro da casalinghe come Superunknown e il conto in banca sta già dando i primi segno di orgasmo multiplo.
Di qua dalle colonne d'Ercole, i cugini sfigati della A&M Europe ancora sono a cercare la "Smells Like Teen Spirit de noantri" (termine da intendersi in senso lato, esteso come minimo fino ai confini della massima espansione dell'Impero Romano sotto Traiano) — o almeno dei ragazzini di primo pelo con un briciolo di street cred e un paio di pedali di fuzz attaccati alle suole delle scarpe da recuperare tra quelli appena messi sotto contratto — per cavalcare il riflusso e se non altro rivendere i rifiuti lasciati sulla battigia, quando lo stagista, soffermandosi sulla soglia prima di uscire dopo aver consegnato i caffè, senza nemmeno voltarsi, prende più fiato che coraggio e spara sottovoce un: «Ci sarebbero questi qua».
Nella sala riunioni cala un lunghissimo silenzio, si sentono volare giusto un paio di mosche — nonostante il ben noto modo di dire lo vieterebbe — che sbattono testarde sui vetri spessi del palazzone e nessuno osa aprire bocca, finché il tizio a capotavola — quello più grasso, più sudato e sprofondato nella poltrona più unta di tutte — chiede scazzato: «E chi sarebbero i Therapy?» — così, dimenticando di aggiungere un secondo punto interrogativo e riducendo in questo modo, senza saperlo in tutta la sua supponente ignoranza, quella che doveva essere una domanda sarcastica a una banale affermazione, per altro grammaticalmente scorretta.
Lo stagista specifica solo che vengono dalla provincia dell'Ulster, prima di correre via rosso in viso a nascondersi nel cucinotto e far perdere le proprie tracce per la vergogna. I manager incravattati si guardano per un attimo stupiti, poi scoppiano a ridere forte: qualcuno racconta una barzelletta sconcia sugli irlandesi, la tensione si allenta e tutti tornano a cercare di ipotizzare nuove strategie su come strappare i Bush alla Interscope anche se non hai in tasca i soldi dell'Atlantic.
All'inizio degli anni '90, se parli di "rock irlandese" puoi intendere due cose: la versione post-caduta del muro di Berlino degli U2 oppure quattro giovanotti ripuliti che girano per i pub di Limerick spacciandosi per dei frutti di bosco appena colti. I primi manderanno tutto in vacca nel giro di pochi anni, gli altri hanno la fortuna di avere come cantante una biondina con una voce unica che in effetti farà una brutta fine, ma da qui a provare a presentarli come grunge ce ne corre. Sì, ok, a volersela tirare con gli ascolti di nicchia, ci sarebbero anche gli Whipping Boy e i My Bloody Valentine, ma la band di Fearghal McKee — nonostante sia accasata alla Columbia — non ha mai fatto il botto sul serio, mentre i Valentines — al contrario — l'hanno fatto troppo in fretta e, dopo aver a tutti gli effetti creato un genere con Loveless, sono già un mucchietto di cenere buono ormai nemmeno più per cuocerci sotto le patate con la buccia, spento e freddo come il cartoccio in cui era stato di recente ritrovato — troppo al dente — il cadavere di Laura Palmer.
I Therapy? invece avrebbero tutto per candidarsi al ruolo: la faccia come il culo, un lavoretto niente male appena uscito che già sta facendo parlare di sé, canzoni perfette per far breccia nel cuore dell'epoca e organizzarci dentro un party non autorizzato (grezze quanto basta, melodiche quanto basta, immediate quanto basta, intelligenti quanto non guasta mai) e quello sguardo sornione con cui ti rispondono una cosa diversa ogni volta che gli chiedi: che minchia ci sta a fare quel punto interrogativo alla fine?
Domanda che ovviamente ha avuto un senso solo finché qualcuno non si è inventato la surreale classifica delle migliori band con un segno di punteggiature nel nome.
Il problema è uno solo e sta al di là dell'isola di Man: hanno origini geolocalizzate nella plebea e incazzosa Irlanda del Nord. Il che li porta da un lato a non esser presi troppo sul serio per mere questioni di razzismo musical-geografico, dall'altro a riuscire a prendersi sul serio — loro stessi — solo fino a un certo punto. Per la precisione, un punto ben lontano da quello che ti permette di goderti il lusso di sposare una psicopatica truccata male e spararti un colpo di fucile in testa dentro una serra sulle rive del lago Washington (o diciamo pure del lago Neagh, se vogliamo rimanere coerenti con i suggerimenti di Google Maps e non allontanarci troppo dal cerchio d'azione entro cui TripAdvisor ci suggerisce le migliori birrerie nei dintorni di Ballyclare).
Senza dimenticare il cavillo storico-giudiziario che ci ricorda come l'Hiberia non fu mai ufficialmente annessa all'Impero Romano — nonostante la reciproca relazione commerciale che intrattennero nei primi quattro secoli dopo Cristo — e che quindi tecnicamente li avrebbe già squalificati in partenza dalla competizione.
Peccato, perché appunto pezzi come Screamager o Nowhere (e i loro video low-budget in cui fondamentalmente la band suona — che verranno più tardi, in tempi non sospetti, raccolti in un DVD dal nome alquanto evocativo come Scopophobia) le carte in regola per diventare la "Smells Like Teen Spirit de noantri" di cui sopra le avrebbero sul serio e rimarranno invece per sempre stampate nell'albo delle grandi occasioni perse della critica rock.
Soprattutto considerando il fatto che, al riguardo, qualche anno dopo dovremo accontentarci (riducendo le pretese di conquista giusto ai tempi in cui Massimiano elevò Mediolanum a capitale imperiale) di Male di Miele.
Come Annibale ventidue secoli prima, i Therapy? varcano le Alpi per la prima volta nel '93, a cavallo di corposi barili di Guinness che — dopo la terza pinta — la memoria dei racconti meno sobri ancora descrive come giganteschi elefanti, testano la fertilità del terreno peninsulare, tastano la morbidezza delle italiche mammelle si fanno un'idea ben precisa di quanto il ventre (oggi la chiamano "la pancia") del paese sia pronto ad accogliere il seme di un rock duro, schizzato e rapido, ma mai troppo precoce e sempre estremamente (neo)melodico e nella primavera dell'anno successivo tornano — novelli Unni guidati da un Attila col baffo — con propositi ben più bellicosi, probabilmente giustificati, ma forse in parte sproporzionati per quanto riguarda le dimensioni di un Troublegum già certificato disco d'oro di là dalla Manica, ma con effetti collaterali ancora tutti da dimostrare a latitudini inferiori a quella di Eboli.
Escluse infatti le immancabili tappe milanesi/lombarde d'ordinanza, dimostrano meno coraggio sia di Cristo che di Hitler e si fermano appena superata la Linea Gotica, ovvero all'Auditorium Flog di Firenze, dove lasciano tracce indelebili di un concerto memorabile che i sopravvissuti all'alluvione del '66 e alla nevicata dell'85 ancora rammentano arricchendolo di sospiri estasiati e particolari epici che perdono i loro contorni in quella zona grigia che sta tra la cronaca vera e la mitologia. Di questi, l'unico confermato dal metodo di datazione radiometrica aromatizzato al carbonio-14 è la presenza, come gruppo di apertura, di quattro londinesi nemmeno troppo di primo pelo ma senza ancora un vero e proprio full-length in catalogo che — solo salendo sul palco — anticipano di almeno due decadi frotte di post e flame su Facebook a tema "gender fluidity", "integrazione razziale" e "aiutateli a suonare a casa loro".
Il Vasari parla di un chitarrista pelato col cappello (no, nessuna parentela con Samuel dei Subsonica), un bassista con gli addominali scolpiti secondo i dettami dell'anatomia greca classica e i rasta lunghi fino al culo (Libero titolerà in prima pagina con la stessa facile, scontata e volgare battuta sui tarzanelli che avete appena pensato e della quale dovreste solo vergognarvi), un batterista ripulito ma dallo sguardo lo stesso sbruffoncello (in pratica un incrocio tra James Dean e un mormone tatuato uscito da un romanzo di formazione di Edmondo De Amicis) e una cantante contemporaneamente negra, lesbica e con una voce impressionante (tutte e tre le cose dette in senso decisamente positivo), che dopo questo primo passaggio a risciacquar l'ugola in Arno, si avvieranno verso la più classica carriera di successo, attraversando, nell'ordine: tre dischi fenomenali, uno scioglimento improvviso all'apice della fregola, carriere soliste discutibili che andranno a toccare senza ritegno anche comparsate a Sanremo e un featuring con i Marlene Kuntz (entrambi i momenti nemmeno i punti più bassi della questione, tra l'altro), una reunion riportata dalla piena degli anni dieci e altri tre dischi successivi che dimostrano che tutto è bene quel che finisce male, pur riconciliando comunque la necessità di pagare le bollette con l'onesta morale secondo cui, in conclusione, la musica vince sempre.
Soprattutto se è quella di Virgin Radio.
Come dei rispettabili Cimabue che guardano — da sotto la coperta di pile, sul divano — Giotto che se la canta e se la suona a X-Factor, la storia degli headliner di quella serata, invece, seguirà l'esatta, ostinata e contraria parabola artistica: un quinto disco tanto meraviglioso quanto sottovalutato e poi un rapido esaurimento della coda corta dell'hype consumato a botte di altri dieci LP (quindici in totale, ad oggi — e siamo solo all'inizio, come si dice quando non si sa dove, come e quando si andrà a finire). Tutti più che dignitosi, qualcuno davvero buono, tutti altrettanto passati in sordina, qualcuno proprio dimenticato, anche da quelli (vai a capire dove è finita la gratitudine) che prima di sentire questa versione non sapevano nemmeno chi fossero quei Joy Division che negli anni zero si sarebbero poi ritrovati stampati sulla maglietta o che quando si imbatterono in questa cover pensarono subito a un omaggio a sir Elton Hercules John.
Qualcuno si sarebbe fatto prendere dallo sconforto, avrebbe detto basta, appeso gli strumenti al chiodo senza curarsi delle stimmate, appeso il chiodo all'attaccapanni senza cambiare la naftalina nell'armadio, limitandosi a qualche comparsata in Grafton Street per racimolare due spiccioli buoni giusto ad appesantire bicchiere di carta sudicio, prima di appendere anche quello al bancone di un bar zuppo di schiuma al luppolo.
I Therapy? — testardi e cocciuti come le capre selvatiche arrampicate alla ricerca di un cespuglio rachitico sulle scogliere di Moher, commoventemente rattrappiti nel loro destino di artigiani attaccati all'unica cosa di cui sono (splendidamente) capaci, meravigliosamente intrappolati in un genere che li ha visti maestri come un iRobot incastrato tra il divano e il tappeto nel tentativo di togliere le cacche del cane da dietro la porta del salotto — hanno continuato a campare di musica senza potersi fare né lo yacht né troppe groupie (ma anche senza doversi riciclare belli di giorno nelle vesti di assicuratori porta a porta), girando il mondo con tour infiniti in migliaia di date tra metropoli e paeselli, sempre con il sorriso sulle labbra, la “garra” nelle mani, la battuta pronta sotto i barbigi e un rispetto infinito verso il proprio pubblico — che fossero venti o ventimila persone — quello che hanno sempre avuto, dai pochi metri quadrati dell'aula magna dell'Art College di Belfast alle sconfinate praterie dei festival di Reading e di Donington.
Anno del Signore: quasi 2020.
Non più un locale storico dell'alternative fiorentino, ma l'ennesimo, disperato tentativo di metter su un posto per fare musica dal vivo nella periferia industriale del Nord Est. Non più una band sul trampolino di lancio verso la Top10 di Billboard ad aprire l'evento ma un'onesta formazione locale che sa più di hobby brizzolato e semiserio che di mestiere vero e proprio (più per cause di forza maggiore che per effettivi, propri demeriti — va detto). Non più ragazzini che saltano in aria come birilli giocando a spallate sotto il palco, ma padri di famiglia che hanno rinunciato al calcetto del martedì in memoria dei loro vent'anni andati e madri di famiglia che hanno barattato il calcetto del martedì dei mariti con una libera uscita che non si concedevano da vent'anni.
L'Hall di Padova è uno di quei locali nuovi di zecca in cui non puoi permetterti di sbagliare serata, perché provano a dare un significato al concetto di "live in provincia" nell'unico modo in cui è possibile avere una chance di campare al giorno d'oggi, ovvero incollando in fila un programma senza senso che mette insieme, ammazzando in partenza ogni ritegno curatoriale, Arisa e Nathan Fake, i Low e Anastasio, Alva Noto e Ruggero de I Timidi. I Mr. Woland cinque anime perse che si definiscono una "Satan's boy-band" che suona un "faster & louder rock'n'roll" del genere "sensational sparkle / hard cock" e vede Simo alle "urla e prediche", Il Pupilla alla "chitarra veloce", Gigi Rock alla "chitarra lenta", Millo al "basso nero" e Tiz nel ruolo di "percuoti fusti" — non so se ci siamo spiegati. Il pubblico quello di due decadi fa con due decadi in più sul groppone: pochi sparuti, quasi disorientati under 35 e un'intero, amabile showcase di capelli grigi, capelli ipotetici e capelli assenti, con tutti i pro e i contro della situazione.
I contro sono ammucchiati nella sensazione dolce-amara di esserne parte integrante (residuato in libera uscita da una vita di chilometri persi, colpi di sonno scansati e autogrill in solitaria), i pro nel fatto (che poi altro non è che una conseguenza) — sempre più raro in questi tempi in cui qualunque cosa è un evento Facebook in cui puoi fare un check-in gratis senza alcuna traccia di una selezione all'ingresso o almeno un buttafuori virtuale che ti guardi in cagnesco — che nessuno è lì per caso, per sbaglio o per fare curriculum: tutti presenti e ben coscienti dei motivi della loro presenza, sanno benissimo cosa aspettarsi e che le loro aspettative non saranno deluse. Completamente partecipi pur pogando quasi nulla, rendono l'atmosfera pressoché inappuntabile per gente come me che adora quelli che eccellono nell'arte di pogare dentro, perché — così facendo — riescono a godersi il concerto senza rompere i coglioni a chi — sempre io — eccelle nella medesima (auto)disciplina e non rompe i coglioni a nessuno, nemmeno a quei pochi esagitati che gli pogano addosso e ai quali sa rispondere con il sorriso accondiscendente di chi è consapevole che deve sopportarti perché così vuole il rituale, ma in fondo ti augura con tutto il cuore una vecchiaia all'insegna dell'osteoporosi grave.
Perché oggi tutto è cambiato, ma i Therapy? sanno — nel loro gattopardismo estremo applicato al tramonto delle teorie darwiniane — che affinché tutto cambi nulla deve cambiare e allora l'unico modo per adattarsi davvero al cambiamento è non evolversi affatto, aggrappandosi da un lato al salvagente sempre gonfio di una sincera autoironia, dall'altro alla zattera solida di una ferocissima dignità, felicemente integrati in presente d'altri tempi e perfettamente consci dell'identità, delle esigenze e delle pretese di chi ti sta ascoltando.
Non a caso infatti la nuova setlist — nonostante tutti gli album passati nel frattempo sotto i loro ponti, tra cui il tutt'altro che impresentabile, recentissimo, Cleave — per più di due terzi, è fatta dagli stessi pezzi di allora. Non a caso la gente — nonostante la sala sia tutt'altro che stipata — canta i ritornelli con la sbracatezza entusiasta di un concerto di Vasco a San Siro. Non a caso — nonostante vengano sputate fuori dalla bocca di un ultracinquantenne che ancora suona la chitarra con i polsini di spugna nera — frasi vecchie come il cucco del tipo "James Joyce is fucking my sister" o "masturbation saved my life" suonano così attuali e memeable da risultare quasi commoventi.
Non a caso tutto l'ambaradan si chiude con una new entry che riporta tutto (e tutti) a casa. Success? Success is Survival è una roba che in tre parole riassume l'intero gigantesco fraintendimento che ha permesso a un gruppo così di arrivare fino ai giorni nostri, lo specchio deformante con cui farsi selfie da allodole o su cui arrampicarsi per volerla per forza intendere nell'ottimistica versione ribaltata secondo cui avere successo sarebbe l'unico modo per sopravvivere. Per l'amor di dio, liberi di provarci, ma temo che i Therapy? — e i loro trent'anni sulla breccia sono qua a dimostrarlo — vogliano buttare là un concetto un po' meno (o forse un po' di più — dipende da quanto realismo ci metti dentro quando vai ad analizzarlo) impegnativo: semplificando forse la cosa, l'idea sarebbe che nella vita, di questi tempi infami, è già un successo riuscire a sopravvivere.
Se poi, sempre in termini di sopravvivenza, dal se riesci a passare al come, è tutto grasso che cola.