Una favola remixata alla luce delle moderne teorie turbo-capitaliste, avendo cura di buttare nel cesso il politically correct.
9 Novembre 2006
C'era una volta una bambina tanto carina e dolce, che era amata da tutti. Ecco, dimenticatevala. La bambina è cresciuta e ora pare una yuppie pronta a sgozzarti con una banconota da cento.
Per il resto, i personaggi dovreste conoscerli, a meno di non aver avuto un infanzia davvero infelice (o davvero felice, dipende dai punti di vista): Cappuccetto Rosso (che sarebbe la bambina, pur avendo — è innegabile, e questa cosa ha turbato la mia, di infanzie, non poco — un nome maschile) e il lupo (che essendo un animale selvatico non ha un nome: potremmo chiamarlo come un qualunque cane, tipo Bubi, ma il tutto perderebbe decisamente di fascino thrilling).
La situazione psico-emotiva, invece, è un po' diversa da quella che potreste ricordarvi: il lupo soffre di disturbi di memoria a breve termine e fa sempre le stesse domande più o meno dal diciassettesimo-quasi-diciottesimo secolo, mentre Cappuccetto Rosso è in piena fase adolescenziale, fa fatica a rispettare l'autorità come concetto generale e c'ha costantemente i coglioni girati.
Parte il lupo, con la solita solfa, poi il tutto degenera nel giro di due battute:
È qui, che il turbo-capitalismo va a corrodere come ruggine le ferree regole di buona creanza delle favolette di una volta: