Dark, la famosissima serie tedesca che nessun c'ha capito un cazzo, appare meno complessa se spiegata attraverso i più noti luoghi comuni sui crucchi.
15 Agosto 2020
C'è questo ragazzino che da piccolo sembra Stefan Edberg, da adolescente Stephen Malkmus, da adulto Reinhold Messner e da vecchio Niki Lauda (dopo l'incidente). Ci sono i viaggi nel tempo, un impermeabile giallo, un bel po' di fisica quantistica for dummies, spizzichi e bocconi di filosofia di varie fazioni (ma tutte storicamente geolocalizzabili entro un certo raggio intorno al centro della Foresta Nera), una manciata di sentimentalismo romantico da sussidiario delle medie e un botto di effetti speciali realizzati abusando della Trapcode Suite (soprattutto Particular e Form come se piovesse).
E in effetti piove. Piove sempre, a dirotto. Acqua a catinelle e — in 26 episodi — ci fosse un cristiano che tira fuori un ombrello. Perché si sa: il ricorso all'utilizzo di strumenti atti a ripararsi dalla furia degli elementi è il primo indice di debolezza di una razza. E questa, invece, è una serie tedesca.
Anche se tedesca per poco. Winden infatti è più vicina a quelle checche francesi di Strasburgo o a un posto che non esiste tipo il Liechtenstein che alle ben più arianamente severe Berlino, Amburgo o Norimberga. In pratica, gli abitanti di Winden, sono i terroni della Germania. Sarà per quello che piangono. Piangono sempre. Ma è un piangere comunque molto tedesco: niente scenate, urla, capelli strappati — piuttosto 26 episodi di occhi costantemente lucidi, colmi di lacrime, che all'occasione superano la tensione superficiale del loro stesso liquido e colano giù da iridi azzurrissime a rigare facce pallide eppure sempre dignitose. In pratica, malati cronici di congiuntivite, ma che hanno imparato a conviverci.
Vanno a spasso per epoche diverse cercando di rimettere a posto il loro piccolo, insignificante mondo privato (ognuno il suo, ognuno diverso dall'altro, ognuno incastrato ma in contrasto con quello degli altri) e facendo invece — indovinate un po'? — più danni della grandine. Provano a interferire con il corso degli eventi, a suicidarsi, uccidono i propri genitori o i propri figli — insomma, fanno tutte quelle cose che Marty McFly e Doc ci hanno insegnato essere da evitare quando si ritorna al futuro o al passato. Perché poi sennò finisce che ti ritrovi a provarci con tua zia, che tua nipote è sia tua madre che la sorella di tuo nonno e che qualcuno è morto e vivo nello stesso momento, in un pot-pourri di gente di Schrödinger afflitta da patologie incurabili come il principio di indeterminazione di Heisenberg e il tunnel carpale di Einstein-Rosen.
Nella prima stagione ancora si riesce ad orientarsi: si può andare indietro nel tempo con cicli di 33 anni — facile. Nella seconda entra in ballo il futuro e si sentono i primi accenni di torcicollo. Nella terza alla dimensione temporale si aggiunge quella spaziale, il crono parte a rimbalzare come la pallina di un flipper impazzito tra anni e calendari scelti apparentemente a caso, inizia una meta-Leibniziana ricerca del meno peggio dei mondi possibili e l'intreccio si fa duro da sciogliere al pari di un nodo legato da un marinaio sadico. Un marinaio sadico che a fare i nodi ha imparato da Escher, intendo.
Eppure ridurre il tutto a un semplice e liberatorio "non ci si capisce una mazza" sarebbe troppo semplice, e soprattutto scorretto. Perché Dark, rimane comunque, nel profondo, una serie tedesca. E, in quanto serie tedesca, vuole essere la migliore nel suo campo (diciamo fantascienza distopica post-apocalittica tedesca) ma senza la sboronaggine di pisciare fuori dal vaso, superando le capacità cognitive dello spettatore e rischiando di ottenere così l'effetto opposto, ovvero che lo spettatore stesso — sopraffatto da una ricerca troppo ardita delle trame narrative — finisca per non apprezzare appieno la sua presunta perfezione. E allora ecco che, a intervalli regolari, non mancano i recap, gli ammiccamenti paternalistici, gli spiegoni con tanto di foto attaccate al muro e collegate tra loro da puntine da disegno e fili di Arianna — come in ogni poliziesco tedesco che si rispetti, da L'Ispettore Derrick a Squadra Speciale Cobra 11.
Una serie tedescamente perfetta appunto, e cioè complicata ma in cui ogni cerchio vorrebbe chiudersi, quasi inattaccabile (se si escludono i soliti science-nazi che si rifiutano di accettare il fatto che la fantascienza sia appunto un compromesso tra scienza e fiction) eppure costantemente scolastica, quasi la la sceneggiatura fosse stata scritta da un maestro elementare che non perde mai l'occasione di accertarsi che i bambini che sta portando in gita si stiano tenendo per mano a due a due e facciano l'appello a voce alta ogni volta che risalgono sul pulmino.
Così, classicamente, la scusa per l'ambaradan è un disastro nucleare (ma in una comunità attenta all'eco-sistema, in cui tutti usano in bicicletta e chiunque, per andare da un posto all'altro, deve farsi almeno quindici chilometri a piedi nel bosco — se possibile al buio — in modo che poi ci si possa stupire se scompare senza lasciare traccia), il passato si snoda tra estetiche filmicamente abusate (anni '80 cotonati prima della caduta del Muro, rigidezze di campagna pre-Grande Guerra, post-nazismi da ricostruzione dopo la sconfitta bellica, un fine-Ottocento steampunk), il futuro, in termini didascalici, fa forse peggio (oscurità alla Blade Runner da un lato, deserti da Mad Max dall'altro) e l'educazione sentimentale dei personaggi è germanicamente fredda, imbarazzata, mai esposta e in generale poco evoluta, senza nemmeno un turbamento lasciato al caso (che invece, quando si parla di emozioni, dovrebbe avere un ruolo decisivo).
Se ci fosse di mezzo un pallone, sarebbe la trasposizione nella homepage di Netflix della celebre frase di Gary Lineker secondo cui:
Il calcio è un gioco semplice: ventidue uomini rincorrono un pallone per novanta minuti, e alla fine vince la Germania.
Dark ha la solidità difensiva di una squadra della Bundesliga dei tempi andati e la stessa fantasia wannabe imbrigliata dentro un 5-3-2 col libero, senza trequartista, che si traduce in una innumerevole lista di colpi di scena tecnicamente degni di questo nome, ma che il cuore non riesce a riconoscere, perché non lo prendono in contropiede facendolo effettivamente battere al doppio della velocità. In pratica — come la squadra di cui sopra — usa sempre il solito schema su calcio d'angolo: dopo due volte l'hai imparato, ma prendi gol lo stesso, di testa, per il semplice fatto che gli avversari sono tedeschi, e quindi più alti di te.
Basta la sigla di apertura a riassumente questa teutonica scalata alle stelle con il freno a mano tirato: un meraviglioso pezzo di Apparat (aka Sascha Ring, producer tedesco), banalizzato da una serie di clip prese dagli episodi e buttate lì dopo averle rimescolate con un effetto caleidoscopio che probabilmente, nella comunità dei montatori, è ormai considerato infantile almeno da quando il cinema si chiamava cinematografo.
In fin dei conti, un capolavoro a metà. Un racconto ambizioso ma precauzionalmente garantito da una polizza Kasko valida per questa vita e per tutte le vite a venire, uscito da una catena di montaggio della Volkswagen in cui Ketterle e Plank assemblano i motori, Nietzsche cura gli interni e Goethe alla fine prende un chiodo e rende il pezzo unico disegnando un cazzo enorme sul cofano, per esorcizzare la propria immagine riflessa sulla carrozzeria, troppo brillante nel suo grigiore metallizzato, molto bagnato.
Il che ci porta alla morale, anche quella fritta e rifritta, e quindi fin troppo universale: dice che, indipendentemente da dove — e soprattutto da quando — stiamo andando, non potremo mai esimerci da un faccia a faccia finale con noi stessi. Il problema, in Dark, è che si perde il conto di quanti noi stessi ci sono e diventa difficile trovare un buco libero in agenda per tutti i faccia a faccia necessari.
In tempi di pandemia globale, fa comunque comodo — ritrovarsi con una tal schiera di congiunti, dico.