Schiavi dell'algoritmo

Schiavi dell'algoritmo

Una recensione affrettata che svela i pochi, semplice passi con cui i Godspeed You! Black Emperor sono riusciti ad ammaliare sotto traccia le giovani generazioni indie.

18 Novembre 2012

Dopo l'iniziale disorientamento che accompagnò l'uscita del loro primo album, ormai quasi venti anni fa, dopo lo sgomento che aveva provocato — tra critica a pubblico — questa nuova forma di post-rock alla canadese, dopo dieci anni esatti di silenzio (che son sempre un'ottima strategia per poi tornar sulle scene con le stesse robe di dieci anni fa ma sperando che chi ascolta nel frattempo si sia dimenticato e le reputi nuovamente all'avanguardia). Dopo, in generale.

Solo che qui par quasi di esser ritornati a prima. Sì, perché — per quanto affinato dalla maturità e dall'esperienza, ripulito dai bug di gioventù e testato con successo anche sulle nuove generazioni indie — l'algoritmo dei Godspeed You! Black Emperor è ormai empircamente svelato. Come quello di Google, ma con meno ripercussioni in termini di SEO.

  1. Innanzitutto, pochi pezzi: quattro, massimo cinque.
  2. Lunghi in media un quarto d'ora (meglio però se con picchi di venti minuti buoni), ma che non prendono forma e senso prima dell'ottavo minuto abbondante. Una volta si chiamavano "intro", ma se l'intro dura più della canzone intera, allora vuol dire che ci siam persi qualcosa nel frattempo.
  3. Poi il titolo: lunghissimo, improbabile e bislacco, meglio se incomprensibile ai non appartenenti a una qualche setta musicalmente alternativa e intervallato da un'abbondanza indigesta di segni di interpunzione e caratteri speciali non supportati dai browser di vecchia generazione. Una roba che se cerchi "GSY!BE" su Internet Explorer 6 nella migliore delle ipotesi ti esce una notifica del tipo "Impossibile scaricare il plugin", nella peggiore un minaccioso pop-up recante l'inquietante avviso "Questo sito è stato bloccato dalla Polizia di Stato".
  4. Infine la copertina: un'immagine in bianco e nero (meglio se in grigio chiaro e grigio scuro), possibilmente molto brutta, sgranata e messa a fuoco dal direttore della fotografia di Lucignolo.

Come vediamo quindi, pochi passi, semplici e chiari, che l'ultima fatica della band, questo acclamatissimo Allelujah! Don't Bend! Ascend! segue pedissequamente e senza la minima incertezza. Scendendo nel particolare, possiamo valutare come, mentre i primi due punti sono centrati in pieno, riguardo al terzo non si raggiunge (ma era impossibile, dobbiamo ammetterlo) la perfezione del loro secondo disco F♯ A♯ ∞ (rimasto nella storia come il primo — e ultimo, grazie a Dio — album interamente composto utilizzando la finestra "insert symbol" di Word), preferendo in questo caso puntare con furia bulimica sui punti esclamativi, che comunque fan sempre la loro porca figura.

Ma è nell'ultimo step della sequenza che questo ritorno della band di Montreal dà il meglio di sé: come cover non potevamo infatti pensare a niente di più orripilante di questa roba qua, che altro non può ricordarci se non — a voler essere indulgenti — un frame sospetto, rubato illegalmente dalla videocamera di perlustrazione di un tank afgano.

Giochiamo a fare i musicisti
La sintesi prima di tutto