Riflessioni a caldo a seguito di un sorprendente concerto dei Gotan Project. Una specie di breve stream of consciousness emozionale, più che un vero e proprio live report.
16 Settembre 2006
Fragili innanzitutto. Poi sinuose, le ragnatele di archi che si intrecciano a ritmo di elettricità. Intensa innanzitutto. Poi sensuale l'atmosfera.
Di cenni di chitarra, nylon ormai non più analogico. Di mani ultrasessantenni, a rincorrersi sulla tastiera di un pianoforte con l'unico scopo di inciampare — inesorabilmente — nella miriade di loop sparsi qua e là. Di geometrie variabili a colori ripetuti: bianco, tanto bianco, nero al contorno, blu notte sullo sfondo e macchie rosse come per sbaglio.
La melodia parla all'anima, mentre il ritmo risveglia il corpo intorpidito da trasformazioni dinamiche continue, dal frusciare di gonne a frequenze già decise, da attimi di silenzio (o forse erano applausi?), dalla grazia e dall'arroganza di un contrappunto a banda limitata.
Nel retrogusto di un palco abbadonato, rimangono: il sapore di uno spartito vecchio, quantizzato nella polvere che lo ricopriva, un mixer e un bandoneón, così sacrileghi, adagiati l'uno accanto all'altro, dentro una vecchia valigia di carta. Dentro una vecchia valigia sporca.
Un dubbio, una piacevole sorpresa. E poi il buio.