Surrealismo aussie

Surrealismo aussie

Con il loro nuovo disco gli australiani PVT provano a non lasciarsi incasellare in nessuna corrente specifica o movimento artistico strutturato, definendo una nuova geometria vetero-modernista.

17 Aprile 2017

L'imprevedibile trio torna in pista dalla terra dei canguri a quattro anni dal precedente Homosapien, album che mascherava — ma non troppo — un urgente bisogno di mettersi a nudo dietro una produzione all'insegna del vedo / non vedo dal tratto scarabocchiato un po' così.

Ormai metabolizzato il trauma dovuto al cambio di nome forzato (ricordiamo che la band nasce come Pivot, ma nel 2010, per colpa di una causa legale da parte di una omonima band di sfigati americani, è costretta a rinunciare al moniker originale e opta quindi per la soluzione meno traumatica — che comporta una sempre e comunque dolorosa rinuncia alle vocali e ai vocalizzi — ovvero quella di sostituirlo con il suo codice fiscale) la band amplia il proprio raggio di influenze, andando a virare il suo ultimo indie-rock sperimentale, che guardava — almeno in termini di immaginario sonoro — al primo espressionismo viennese, verso territori molto più elettronici che però mai rinnegano le citazioni più classiche che ormai sono diventate il loro trademark.

Un nuovo ibrido musicale che sta esattamente a metà tra la solenne austerità analogica di un Giotto decorato a foglia d'oro e l'inafferrabile, affascinante ipotesi concettuale di una banana di Escher.

E infatti è proprio la ricerca di un perfetto equilibrio tra uomo e macchina, tra una spazialità scolasticamente renderizzata in 3D e un plasticismo solo accennato nella sua bisimensionalità quasi medioevale, tra uno sfondo armonizzato in un gradiente di suoni prevalentemente flat e un primo piano fatto di elementi fantasiosi e corposi nella loro corposità barocca, che caratterizza questo nuovo New Spirit.

I PVT riescono, senza soluzione di continuità, a creare un nuovo ibrido musicale che ad un primo impatto sembra stare esattamente a metà tra la solenne austerità analogica di un Giotto decorato a foglia d'oro e l'inafferrabile, affascinante ipotesi concettuale di una banana di Escher. Un passo indietro dai rimandi a Schiele della precedente prova sulla lunga distanza, ma che rimane sempre nei canoni di una ritmica mitteleuropea di inizio Novecento per omaggiare in maniera nemmeno troppo velata, tramite strati sovrapposti di layer di pad sfarzosi, la golden phase del maestro Klimt, senza rinunciare mai a tentare di esplorare forme impossibili, tassellature del piano, del suono e dello spazio dentro motivi a geometrie interconnesse che sfidano una qualunque regola aurea e portano il concetto stesso di synth a intersecarsi con la propria essenza in una maniera che la logica (ben prima dell'orecchio) non saprebbe minimamente spiegare.

Foto di gattini, grazie
Dieci band che avete visto live