Low, Spiritualized, Idles, Parquet Courts e HMLTD: cinque pezzi buoni per mettersela via e godersi comunque i mondiali di calcio anche senza l'Italia.
4 Luglio 2018
Non importa essere Vittorio Sgarbi per sapere che, con il termine "trittico", in genere ci si riferisce a un'opera divisa in tre parti, che tipicamente nasce come decorazione d'altare richiudibile. Esistono trittici dei più svariati materiali: dipinti su tavola, scolpiti direttamente nel legno, oppure in marmo, terracotta, ceramica, avorio e un po' tutti i materiali preziosi che vi vengono in mente.
Un trittico di video musicali, invece, dovevamo ancora vederlo. Eppure sì, quello presentato dalla Sub Pop (con un'operazione promozionale abbastanza inusuale, che va quasi a strizzare l'occhio all'ormai testata consuetudine di Netflix di far uscire l'intero set di episodi di una stagione nello stesso momento) è a tutti gli effetti una cosa del genere. Nonostante siano opera di registi e direttori della fotografia diversi i tre video, infatti, sono visivamente (e tematicamente) interconnessi. Cuciti trasversalmente da un fil rouge (ehm) bianco e nero, i collage allucinati di Quorum e Fly (tra split screen, interferenze e messa a fuoco ballerina) incorniciano simmetricamente il pannello centrale rappresentato da Dancing And Blood che, girato in maniera più pulita, riesce quasi a strapparti un sorriso, nel suo tentativo di portare la lap dance nel magico territorio della terza età.
Aiuta invece molto — essere Vittorio Sgarbi, dico, uno che spesso ne avrebbe un gran bisogno — per sapere che "trittico" è anche il nome volgare che si dà al trazodone cloridato, una sostanza psicoattiva della classe della piperazina e delle triazolopiridine, comunemente commercializzata sotto forma di un medicinale ad azione tranquillizzante, ansiolitica e antidepressiva.
Azione che, un tempo, avremmo potuto associare anche alla musica dei Low, pionieri e maestri (forse inventori?) del cosiddetto slow-core: ballate rallentate, cupe e minimali ma sempre sull'orlo della ninna nanna, per quanto funerea. Double Negative invece, in arrivo a Settembre, (forse perché di nuovo prodotto da BJ Burton, noto per i suoi lavori nel campo dell'elettronica e dell'hip-hop — Bon Iver, Kanye West, James Blake) ancor più del precedente Ones And Sixes, sembra andare a spaziare in maniera premeditata fuori dalla loro comfort zone, in territori claustrofobici, inquieti (e inquietanti) dove una paranoia rarefatta fatica a farti dormire sonni tranquilli.
È come se Mimi Parker, Alan Sparhawk e Steve Garrington volessero provare per l'ennesima volta ad alzare l'asticella fino ad arrivare a essere, allo stesso tempo, la patologia e la cura.
Provare per credere, a vostro rischio e pericolo: qui ci sono tre compresse a rilascio prolungato e un foglietto illustrativo di quasi quindici minuti da consultare con attenzione.
Riassumendo: il calcio totale prevedeva di attaccarli tutti insieme — il problema, poi, era riuscire a staccarli se avevi sbagliato il posizionamento in campo.
Ovvero c'era una volta volta Johan Cruijff, i mondiali del '74 e la nazionale olandese. C'era una volta il totaalvoetbal, appunto, e questa sua teoria romantica secondo cui in una squadra nessuno degli undici esecutori valeva più della somma complessiva ma, anzi, a ognuno di loro era richiesto di saper ricoprire anche il ruolo di tutti gli altri, perché si sa: cambiando l'ordine degli addendi il risultato deve rimanere lo stesso.
D'altra parte, in principio fu Bruno Bolchi e una fotografia in bianco e nero successivamente ridipinta di nerazzurro, stampata e imbustata — grazie alla mitica Fifimatic — per dar vita alla prima di una serie infinita che avrebbe colorato i nostri sogni (e i nostri incubi) di bambini, trasformandoci tutti in piccoli, meravigliosi capitalisti, maestri nell'arte dello scambio.
Sarà per via di questa esaltazione del collettivo, oppure la solita componente di hipsteria retromaniaca, ma i Parquet Courts hanno deciso di impastare queste due forme di nostalgia in una polpettina commovente e — con quarantaquattro anni di ritardo e tempistiche a dir poco da paraculi — darcela in pasto giusto in tempo per la fase a gironi di Russia 2018.
Questa l'unica idea brillante, perché, dopo gli esperimenti promiscui con Daniele Luppi, i quattro tornano tra le braccia del loro amato, generico post-punk privo di particolari acuti. Total Football è tratta dal freschissimo Wide Awake! ed esce in edizione limitata su vinile da sette pollici decorato in perfetto stile Panini anni '70, compreso un set di figurine da attaccare a piacimento, in modo che ognuno possa comporre la propria personale copertina. In pratica, il primo singolo della storia a contenere un album, invece che viceversa.
A dirla tutta, il classico caso in cui la scatola vale più del contenuto, visto che, se da un lato il packaging è così sfizioso da correre il rischio di non poter mancare in qualunque collezione che si rispetti, dall'altro — a livello musicale — nella classica cernita "ce l'ho / mi manca / ce l'ho / mi manca", questa ce l'abbiamo già: doppione carino o poco più, che non aggiunge molto al discorso già imbastito da Andrew Savage e compagni.
Non che ce ne fosse necessariamente bisogno: la formula della band texana è rodata e funziona, ma diciamo che il Pierluigi Pizzaballa di turno, ovvero l'elemento che darebbe quel tocco di completezza a tutta la raccolta, è ancora ben nascosto, introvabile, tra le bustine buttate di qualche edicolante di periferia.
Ladies and Gentlemen, they're floating in space no more!
Il nostro astronauta preferito ha perso l'equipaggio e la nave spaziale e ora è costretto a imbarcarsi in un viaggio fatto di tappe tutte ben ancorate sulla superficie terrestre (perché — facciamocene una ragione — la gravità vince, sempre, e anche chi ormai era abituato a fluttuare nello spazio infinito non può alla fine sottrarsi a questa legge cosmica: anzi, ha solo lo svantaggio di far più fatica ad accettare la cosa), alla guida di una vecchia, bellissima, Ford Plymouth Fury III del '69 (anno — guarda caso — dello sbarco sulla Luna) mentre ammira malinconico il sole che, troppo lontano, scompare dietro un banalissimo orizzonte del nostro banalissimo pianeta.
Jason Pierce, nel corso dei suoi trip interstellari, è sempre stato un po' ossessionato dall'utilizzo di testi, melodie e iconografie prese dalla Grande Storia della musica: li ha scelti con cura, sezionati e messi a bagnomaria in altre atmosfere, in modo da dar loro un peso e un respiro diversi o anche solo una strizzatina d'occhio a mo' di omaggio. Giusto per rimanere nell'ambito del già citato capolavoro degli Spiritualized, la opening (nonché title) track era un mash-up tra la melancholia strisciate dell'ex-Spacemen 3 e I Can't Help Falling in Love with You di Elvis, così come la seconda traccia si intitolava Come Together e Cop Shoot Cop prendeva in prestito qualche verso da Sam Stone di John Prine.
Non stupisce quindi che — dopo sei anni di silenzio radio interrotto giusto dai recenti messaggi in codice morse — il nuovo singolo si intitoli I'm Your Man (ma non sia una cover di Leonard Cohen) e anticipi un album in uscita a settembre che si chiamerà And Nothing Hurt (ma non avrà niente a che spartire con l'ultimo di Moby).
Per quanto detto, stupisce ancora meno che il video, diretto da Juliette Larthe, descriva una malinconica e commovente visita guidata ai luoghi leggendari del rock sparsi per il sud della California: dalla Joshua Tree Inn (nella cui Room 8 Gram Parson perse la vita per un mix di alcol e droghe nel '73) al Moon Fire Ranch (un complesso di edifici costruito per il set di un film — ormai abbandonato ma un tempo potenzialmente futuristico — teatro, nei tardi '60, di mitologici party privati organizzati da Jimi Hendrix, Janis Joplin e i Doors, tra gli altri).
Vestito di tutto punto con la sua tuta spaziale, J Spaceman, prima di partire, fa la valigia e la riempie dei suoi santini: una statuetta di Hank Williams, un ritratto del King appunto, una foto di Link Wray, un portachiavi della Sun Records. Mette in moto, aggiusta lo specchietto retrovisore sporco di impronte che sembrano fossili e ci ricorda che la nostalgia, anche se fa male e crea dipendenza, è comunque stata linfa vitale per le migliori canzoni di sempre.
Questo pezzo — una marcia country-blues che cresce lenta, tra fiati umidi e mormorii di chitarre vintage così vicine ma così lontane — ne è l'ennesima testimonianza.
HMLTD starebbe per "Happy Meal Ltd". E qui finisce la parte che possono ascoltare anche i bambini.
A voler essere precisi, gli HMLTD, fino poco tempo fa, si chiamavano sul serio Happy Meal Ltd. ma quando si son palesati i legali di McDonald's e hanno espresso tutti i loro dubbi sulla reale efficacia di nome del genere in relazione al target di pubblico a cui il gruppo si voleva rivolgere, hanno acconsentito a sostituirlo con il suo codice fiscale. Brutta storia. E i particolari scabrosi non farnno che aumentare andando avanti. La buona notizia è però che, messi a letto i piccoli, possiamo ufficialmente uscire dalla fascia protetta e sguazzare nel torbido felici come dei porcellini prima del macello.
Formatasi nel 2016 a seguito dell'adunata in quel di South London di un manipolo di sbandati provenienti da ogni dove (Grecia, Parigi, Devon rurale e qualche altro posto sconosciuto anche a Google Maps), la band inglese, in meno di due anni, è già entrata nella Top 100 Cool List di Dazed, oltre a essersi guadagnata etichette entusiastiche come «The UK's most thrilling new band» (NME) e «The real fucking deal» (Loud and Quiet). La rapidità della scalata fa supporre sia avvenuta solo in minima parte grazie alla musica e alle canzoni, ma più che altro per merito di un ambaradan carnascialesco fatto di assurdi outfit gender fluid, filmati grotteschi e disturbanti, performance live a tema e scenografie dedicate per ogni concerto (un B-movie horror, il Monte Olimpo con tutta la schiera degli dei greci, il Paradiso completo di nuvole fatte di ovatta e bambole gonfiabili volanti nel ruolo di cherubini che distribuiscono rossetti e mascara). Insomma, immaginatevi Ziggy Stardust che se la fa con Peaches mentre Annie Lennox e Boy George guardano ammiccanti, i Prodigy che suonano una cover neo-romantic dei Frankie Goes to Hollywood, un triangolo erotico tra i Bauhaus, Skrillex e Billy Idol, con Prince che scatta foto di nascosto e le mette online a loro insaputa. Il tutto in mezzo a una sfilata di Gucci.
Detto questo, non si capisce quindi perché dovrebbe scandalizzare il fatto che il nuovo singolo vada a rubare il titolo a un pezzo dei Cure per spararlo direttamente nell'era di Tinder, raccontando di quella volta che ti sei masturbato davanti alle foto della tua ex perché alla fine non avevi avuto il coraggio di cancellarle dall'hard disk e lasciando così al povero regista Duncan Loudon poche alternative se non quella di presentarci un video dove sono più le parti censurate che quelle visibili.
Piuttosto, visto l'imminente Pride e le polemiche che come ogni anno ha già suscitato, diciamo che il tentativo di affrontare in maniera così diretta tematiche delicate legate all'universo LGBTQ è comunque da apprezzare. Peccato che il fatto che venga da una band i cui componenti sono tutti dichiaratamente etero, abbia già lasciato a molti un retrogusto di dubbio: è la prova che la questione è finalmente uscita dalla sua nicchia, o solo un maldestro tentativo di cavalcarne l'hype da parte di chi non sa bene di cosa stiamo parlando?
Per una volta, procediamo in maniera schematica, e tiriamo le fila del discorso a partire da un elenco di facts & figures.
Gli IDLES sono coloro che, poco più di un anno fa, hanno saputo trasformare quello che era stato uno stile architettonico prima e una moda nel web design poi, in un disco.
Joe Talbot è il cantante degli IDLES, ma prima ancora di sapere chi è, ci tiene a specificare chi non è:
I'm not Bob Dylan. I'm not going to write a story. I'm shit at stories! I'm good at one liners. I'm good at making you look like a cunt by saying one thing after you've rambled on for five minutes! I write to express myself and hope that that enlightens people along the way.
Pochi fronzoli e, se servono, gesti eclatanti, insomma. Tipo omaggiare la madre morta disperdendo le sue ceneri ("facendole pressare" credo sia il termine tecnico — ma la cosa avrebbe perso tutta la sua poesia punk) in poche copie di un'edizione limitatissima in vinile da 100 grammi del disco di cui sopra.
Perché gli Idles sono così: coerentemente scomposti, tragicomicamente incazzati, grottescamente brutali appunto.
Will Hooper è uno che ha un debole (oltre che un occhio del tutto personale) per un certo tipo di comicità surreale: stempera i casini nei colori pastello di un dipinto di Michaël Borremans e sdrammatizza il concetto di "far fronte alle avversità della vita" riportandolo con i piedi per terra, ben piantato nelle metafore di una quotidianità irreale: potare la siepe, stirare i panni, rifare il letto, risolvere il cruciverba che era stamani sul giornale — responsabilità il cui peso schiacciante rischia di sopraffarti ogni giorno.
Colossus è il nuovo singolo degli IDLES: arriva insieme a un video diretto da Will Hooper dove Joe Talbot ci mette — nel vero senso della parola — la faccia e dovrebbe far parte del secondo album della band di Bristol, che bolle in pentola ormai da un po' di mesi, ma fino poco fa non aveva né un titolo, né una copertina, né una data di uscita.
#JOYASANACTOFRESISTANCE invece è un hashtag: un po' confuso e difficile da pronunciare come uno scioglilingua, ma rigorosamente tutto maiuscolo, ovvero urlato in faccia senza prendere scorciatoie, in pieno stile IDLES.
Ecco. Se avete avuto la brillante idea di tenerlo d'occhio negli ultimi tempi, giusto ieri avete scoperto dove (e quando) andremo a parare.