HVSR Digest #19

HVSR Digest #19

Kevin Morby, i Violent Femmes, Andrew Bird, gli Handlogic e i Drahla: cinque pezzi da fischiettare a più (o meno) non posso. Se non da isola deserta, almeno da ultima spiaggia.

30 Maggio 2019

Kevin Morby

OMG Rock'n'Roll

Padre Nostro, cosa vuoi di più?

Viviamo in dei tempi senza Dio, eppure tirare in ballo Nostro Signore ogni due per tre va sempre più di moda. Imprecazione sfuggite, bestemmie convinte, invocazioni speranzose, semplici intercalare o stupidi meme: una qualche forma di Padreterno finisce sempre per accompagnare i nostri pensieri, siano essi sfoghi rabbiosi contro una sorte poco collaborativa o ingenui tentativi di farsi una risata alle spalle delle assurdità della vita.

Kevin Morby ha preso la cosa sul serio e ci ha composto attorno un intero disco, la sua title-track e pure questa sua versione di rock'n'roll. Versione non particolarmente originale, visto che fa affidamento quasi per intero su riff vecchio come l'Antico Testamento. Ma si sa, la liturgia classica ha i suoi rituali e dopotutto questo è il giro di accordi che, a forza di battere il chiodo con la sua semplicità, ha reso il r'n'r uno degli affari più grossi della musica moderna.

Si prega per la salvezza della nostra società dalla sua stessa degenerazione verso una violenza armata che lascia inermi. Tema caro a Morby, già affrontato in passato con Beautiful Strangers, di cui qui si riprende infatti buona parte del testo.

Il video — come tutti quelli dei singoli estratti dal disco — è diretto da Christopher Good, talento che (tanto per rimanere in tema) Cristo ce l'ha nel nome e col cognome ci mette tutta la bontà necessaria ad amare la sua prossima idea visionaria come se stesso. Il regista perfetto per rendere il dramma a tratti surreale insomma, attraverso citazioni dylaniane aggiornate all'epoca delle emoticon e parodie del Fahrenheit 451 di Ray Bradbury dove invece che bruciare i libri si fa un bel frullato di vinili, fino alla sorpresa conclusiva: un'inaspettata apertura mistica che ci inonda di nuova luce e cori angelici.

Lo so, spoilerare il finale è peccato mortale e quindi chiedo umilmente perdono. Ma anche su questo ci sarebbe da discutere. Nel senso, il Dio più affidabile dovrebbe essere quello che non ci racconta balle su cosa ci aspetta nell'aldilà, no?

Violent Femmes (feat. Tom Verlaine)

Hotel Last Resort

I soliti quattro accordi

Se, come il 99% del mondo emerso, state intrippati con il batticuore a esultare o a disperarvi per il prossimo morto che vi aspetta tra i ghiacci dell'ultima stagione di Game of Thrones, allora le femmine violente sono il vostro pane quotidiano. Se invece la vostra voglia di massacro si limita a quella pacata rivoluzione d'altri tempi in cui una sorta di intelligenza sveglia e sarcastica andava a cavallo di qualche chitarra acustica e che gli antichi chiamavano folk-punk, allora ogni nuovo disco dei Violent Femmes è un sospiro di sollievo e una salvifica botta di calore nostalgico contro qualunque forma di modernismo musicale.

Perché è vero che l'inverno sta arrivando, ma anche la menopausa non scherza.

Comunque, tornando all'improbabile parallelo, nel primo caso sarete così avvezzi ai colpi di scena che ormai vi passa un brivido lungo la schiena solo quando non succede nulla, mentre nel secondo la situazione è esattamente l'opposta: se incontrate una deviazione fuori dalla file di impronte di uno dei classici giri country-blues vi sale subito l'ansia.

Tranquilli. In questo senso, Hotel Last Resort è qui per confortarvi e, come recensione, basterebbe la prima metà del suo verso iniziale. «I don't change the chords anymore» infatti è più una dichiarazione di intenti che un'ammissione di incompletezza. È la lezione che Gordon Gano e compagni hanno imparato in quasi quarant'anni di carriera, ovvero che la complessità è sopravvalutata e che una canzone funziona sul serio solo se è buona per essere suonata attorno a un falò sulla spiaggia.

Certo, se poi a cantarla ci metti il vocione di Tom Verlaine allora vuol dire che vuoi vincere facile davvero e anche un Estraneo farà fatica a non sciogliersi.

Andrew Bird

Sisyphus

Tutto il peso del mito fischiettato come se nulla fosse

Andrew Bird la butta sul ridere e non si concede false modestie. Anzi, come si suol dire, a questo giro proprio se la canta e se la suona. E tutto torna, alla fine:

I think My Finest Work Yet is my finest work yet.

Da un lato infatti, ironia a parte, quello appena uscito promette di essere sul serio il suo migliore album di sempre. Dall'altro perché un approccio del genere — cantarsela e suonarsela nel vero senso della parola — è il modus operandi a cui si è sempre attenuto per tutti i suoi undici dischi precedenti.

Violinista dichiarato ma polistrumentista a tutti gli effetti, cantautore dalla cultura sconfinata e fischiettatore sublime, raramente ha costruito i propri pezzi con uno spirito diverso dall'egoistica rimboccata di maniche tipica di una one-man band, per poi condividere il tutto con collaboratori di altissimo livello e ospiti ben noti al grande pubblico. Strategia inattaccabile — perché si sa che chi fa da sé fa per tre e che, per non avere brutte sorprese, è sempre meglio fare affidamento solo su noi stessi — non fosse per il rischio di apparire supponenti e antipatici agli occhi degli dèi e finire così come Sisifo, appunto.

Tecnicamente si tratterebbe di essere condannati a spingere un gigantesco masso su per le pendici di un monte, per poi, una volta arrivati in cima, vederlo rotolare di nuovo inesorabilmente a valle ed essere costretti a ricominciare tutto daccapo. E via andare, prigionieri di questo loop per l'eternità. Qui la cosa viene accompagnata dalla leggerezza di un giro di piano raffinato ma che più pop non si può e abbandonata a metà strada tra due incubi degni dei più sadici gironi danteschi. Le vertigini obbligate dalla scalata di una parete rocciosa alle prese con un equilibrio reso ancora più precario dal peso ingombrante di uno sproporzionato capoccione di pietra (ogni riferimento alle dimensioni del suo genio è puramente casuale) e la futilità agonistica del criceto, ovvero quella spinta che ti fa pedalare a rotta di collo per poi scoprire che la direzione la stava decidendo qualcun'altro. Quello che guidava il tapis-roulant.

Insomma. Non importa essere stati dei nerd della mitologia classica ai tempi delle scuole medie per trovare un frustrazioni del genere vagamente familiari. Tutt'altro: basta avere una minima esperienza di vita vissuta in uno qualunque di questi giorni.

Handlogic

Communicate

Niente panico: è solo la teoria dei vasi incomunicabili

A sentire l'ottimismo degli esperti in materia, questa era del networking globale avrebbe dovuto offrirci niente di più dell'imbarazzo della scelta riguardo agli strumenti da utilizzare per dire la nostra. Poi è andata che le cose hanno preso una piega strana e ora i rapporti (a)sociali si sono più o meno ridotti a condividere le idee di qualcun altro sopra bacheche virtuali che vedrà solo chi già la pensa come noi. Strano: con tutte le lauree in comunicazione che ci portiamo in tasca, finire a non essere capaci di trovare nemmeno due parole ha il gusto amaro di una dantesca legge del contrappasso.

Sarà per il fatto che del sommo poeta sono conterranei, ma gli ⁄Handlogic — per complicare le cose ai tempi dell'analfabetismo funzionale — hanno deciso di costruire un linguaggio che non ha bisogno di definirsi necessariamente nuovo, quanto piuttosto frutto di un collage eclettico, opportunamente nutrito da un'ispirazione multipla che, senza rifiutare a priori nessuna influenza, ha la straordinaria capacità di risultare fluido e comprensibile, invece che una prevedibile accozzaglia di spunti presi qua e là senza un criterio ben preciso.

Cresciuti a forza di tagli di chianina vicini all'osso, panini col lampredotto e bicchieri colmi di Radiohead, Lorenzo Pellegrini e compagni hanno avuto da un lato il coraggio, dall'altro nessuna alternativa se non quella di guardarsi intorno a 360 gradi e mettere in saccoccia un po' di umbratile sperimentazione trip-hop, la raffinatezza di un'eco lontana di black music mai banale e tutta l'urgenza di un rock costretta dentro codici tipicamente math. A livello sia compositivo che sonoro, il primo paragone che viene in mente sono gli Alt-J, in una versione pettinata con la lacca storta di un qualche retrogusto jazzato. E non è un complimento da poco.

Nobodypanic è il loro album d'esordio, questo il primo singolo estratto. Le chitarre nevrotiche del primo Jonny Greenwood incastrate in un'orchestrazione elettronica di rabbia repressa, per un soul-rock moderno che lasci un messaggio forte e chiaro: la capacità di comunicare non è più congenita, ma vale ancora la pena continuare ad allenarla con costanza e abnegazione.

Almeno per non aver rimpianti e alla fine poter gridare orgogliosi: ho provato a spiegarmi così forte che mi è uscito inchiostro dal naso.

Drahla

Stimulus for Living

Spegnere le oscure luci della ribalta post-punk

Che cos'è il post-punk? È quello che ci hanno insegnato — ovvero una contro-ribellione premeditata a una ribellione montata ad arte, che voleva prendere il punk-rock, scuoiargli via della sua componente "rock" e sostituirla con le infinite possibilità di qualunque altra cosa passasse al convento? Oppure quella roba che è diventata dopo essere stata masticata e risputata dalla bocca di tutti — e cioè un genere fin troppo familiare e ultra-codificato, ridotto a una combo di chitarre discordanti, linee di basso dritte allo stomaco e gente che canta una specie di parlato marziale completamente avverso a ogni forma di melodia?

O forse è la progressiva (e sempre più evidente) reale assenza di post-punk, la vera essenza del post-punk?

Che la risposta stia in uno dei primi due casi o forse pure in quest'ultimo, di sicuro i Drahla hanno studiato bene la lezione e la mettono in pratica in maniera impeccabile. Minimali nei suoni ma convulsi e caotici nell'effetto finale, politicamente impegnati e senza paura di affrontare temi attuali e scottanti, accolgono l'idea di post-punk nell'unico modo che può avere senso al giorno d'oggi: come un linguaggio e non come un'attitudine.

Rob Riggs e Mike Ainsley sembrano avere come unico scopo quello di far prevalere il ritmo sui riff e un concetto rarefatto di atmosfera sulla minima ipotesi di songwriting standardizzato. Luciel Brown predilige una sorta di poetica astratta e sconnessa ai soliti coretti facilmente memorizzabili e sembra costantemente occupata a iniziare la frase successiva invece che a finire la precedente, senza però mai perdere di visto il contenuto di quello che sta dicendo.

L'approccio sa tanto di no wave, eppure l'esecuzione rammenta da vicino i Sonic Youth dell'era MTV, quando riuscivano a giocare con il mainstream senza smettere di prendere il toro per le corna.

Il tutto condito dall'immancabile variabile impazzita: il sax à la Pop Group di Chris Duffin (la metà solista dell'accoppiata avant-drone XAM-Duo). Entra in scena come guest star quando meno te lo aspetti, giusto per candidarsi, nel giro di poche battute, a quarto membro non ufficiale della band e farti sentire in colpa per la presunzione della tua iniziale valutazione affrettata. Pensavi che fosse l'ennesima trovata bislacca di tre fighetti appena usciti dal liceo artistico e quando realizzi che è la colonna portante di un progetto ben più ambizioso ormai è troppo tardi per chiedere perdono dei propri peccati.

Note a margine
Questa mini playlist è un piccolo estratto di quella che è stata selezionata in esclusiva per hvsr.net e che ancora continua a fare la sua porca figura, in costante evoluzione, sull'omonimo sito. La riportiamo anche qui, in fila per cinque con il resto di quel che avanza, per questioni di vanagloria, completezza e perché Spineless è come il maiale: non si butta via nulla. Ma soprattutto per non dimenticare, a perenne memoria di quei bei tempi andati in cui i mixtape si facevano a mano e gli algoritmi ci mettevano i bastoni tra le ruote solo durante le ore dei corsi di algebra.
HVSR Digest #18
Albascura