HVSR Digest #18

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Hugo Race con i Fatalist, i Brutus, i Faint, i Comet Is Coming, ma soprattutto Jesus Franco And The Drogas: cinque pezzi che son tutti un programma già dal nome e dal titolo.

28 Aprile 2019

Jesus Franco and The Drogas

Acufene

Proto-punk dopo di voi

Jesus Franco & The Drogas è un nome un po' così, orgogliosamente sospeso a mezz'aria tra il genio e il ridicolo. Ma d'altra parte ci siamo preclusi il diritto di giudicare i moniker delle band nel momento in cui non abbiamo avuto il coraggio di ridere in faccia a Pete Doherty e al suo codazzo di Puta Madres.

Se poi andiamo a vedere l'etichetta con cui i nostri guastatori di Jesi hanno firmato, scopriamo senza troppo stupore che anche quella ha un nome a dir poco evocativo: Bloody Sound Fucktory. E allora l'unico commento possibile rimane quello che ci hanno tramandato nei secoli dei secoli i nostri nonni: «Dio li fa e poi li accoppia.»

Nel caso in questione, li ha fatti bene e li ha accoppiati meglio, visto che il risultato, ancora una volta, conferma ufficialmente le Marche come nuova patria del rock'n'roll made in Italy: terra fertile già in partenza, ma ancor più se concimata con una mistura lercia e sguaiata, (de)composta a suon di sfregi isterici, adrenalina a chilometro zero e una bella manciata di ragù di viscere fresche tritate al coltello.

Si scrive No(w) Future, si legge proto-punk e in generale rende bene l'idea, nel senso che prende il punk per le palle e gli strappa di dosso tutti i fronzoli che con il tempo ci sono rimasti attaccati, per riportarlo alle scarne e glabre origini di un futuro che è adesso o mai più.

Rispetto al precedente lavoro, c'è meno terra di frontiera e più periferia urbana, poche tracce del vecchio deserto alieno con le sue allucinazioni da peyote, ma piuttosto i lampi inconsulti dei neon fritti di un peep show e qualche barbone stonato a caccia di spicci. A volerne distinguere i personaggi, tocca immaginare Pepper Keenan che canta nei Cramps o Charles Bukowski, travestito da Captain Beefheart, che va a fare un provino per entrare nei Kyuss, per poi trovarsi invece di fronte i Motörhead.

In fin dei conti, niente di più e niente di meno di quello che era stato dichiarato fin dall'inizio: la declinazione in tre parole — chitarre, basso e batteria — dell'arte immortale del maestro Manera (quello di questi film qui, sì), sotto l'effetto di stupefacenti. Cosa vi sareste aspettati di diverso?

Brutus

Django

Per chi cerca una fidanzata che lo comandi a bacchetta

Dal «Veni, vidi, vici» attribuito a Giulio Cesare, al «Liberté, égalité, fraternité» che ha fatto più danni della grandine dai tempi della rivoluzione francese a oggi. Dai tre principi della dinamica di Newton, alla regola dei terzi che ha limitato la creatività di generazioni di fotografi. Che tre sia il numero perfetto è un mantra che ci hanno inculcato in testa fin da piccoli e bisogna dire che i fatti sembrano confermare la cosa.

Ma la storia ci insegna pure che la perfezione non fa differenze, sconti e nemmeno prigionieri. E infatti l'altro lato della medaglia recita che «troubles always come in threes», modo di dire di non ben chiara origine — probabilmente coniato, nella notte dei tempi, da qualcuno che non era stato in grado di sopravvivere al quarto, di casini dico — ma comunque ben diffuso e confermato dall'esperienza prima e dalla legge di Murphy poi.

Non a caso i Brutus — band belga che della vicenda di Giulio Cesare richiama il lato più oscuro fin dal nome — ne hanno fatto il loro statement ufficiale. Dichiarazione d'intenti che non poteva essere più azzeccata, visto che di casino ne fanno a sufficienza e che la "regola del tre" applicata alla musica — ovvero l'essenziale sufficienza del concetto di "power trio" che, a partire dai Cream, non ha mai mancato di darci grosse soddisfazioni — l'hanno presa per le braghe e rivoltata come un calzino, portandone l'elemento in genere più nascosto, dalle seconde linee, rumorosamente al centro della scena.

Stiamo parlando di Stefanie Mannaerts, del suo drumming tanto preciso quanto invasato e del suo cantare belluino — per una metà la versione metal di Dolores O'Riordan, per l'altra una Björk che qualcuno ha fatto incazzare più di Beyoncè quella volta. Aggiungeteci un bel faccino — che mai guasta — e capirete che anche lo spassionato endorsement "made in Metallica" non era arrivato per caso.

Perché ok che oggi preferiamo ricordarlo tutti solo come mascotte, buono giusto a suonare questa roba per i nostri nipotini, ma la verità è che, in tema di batteristi (e belle donne), il buon Lars Ulrich ancora c'ha il naso lungo.

Hugo Race Fatalists

Symphony

Musica per organi invecchiati al caldo

Sarà per il nome, ma Hugo Race ha sempre avuto l'aria di un personaggio in fuga. In primis da se stesso, ma non meno dai potenziali fasti di uno sfavillante inizio di carriera. Immagino sia una cosa a suo modo inevitabile, nel momento in cui il biglietto vincente lo estrai alla prima mandata e il treno su cui ti permette di salire è sì di quelli che passano una sola volta nella vita, ma sta già prendendo una velocità tale che o scendi subito o non è detto sopravviverai alla prima curva.

Quando si presentò in stazione lui, il convoglio dei Birthday Party era ormai era già al capolinea, ma in compenso stava passando quella coincidenza chiamata Bad Seeds: una scusa per deragliare sui binari più inquieti d'Australia per un bel po' di anni al ritmo di un capolavoro ogni due.

Poi il bisogno di fuggire dalla poltrona comoda di una rendita da decubito e dal rischio di invecchiare nel resort all inclusive di una sopravvivenza artistica extralusso. Necessità risolta in un brusco ritorno a delle origini da esplorare in tutte le loro sfaccettature, ma sempre in compagnia di (più o meno) improvvisate band di amici: l'elettronica con i Transfargo, la lounge dei Merola Matrix, il world-folk a marca Dirtmusic, l'intimismo minimale all'ombra dei Sepiatone — l'elenco è quasi infinito.

Il tutto alternato da un sano "buon retiro", sempre più spesso italiano (tra Toscana, Emilia e Sicilia), fatto di circoli ARCI e associazioni culturali, ottimo vino rosso e belle ragazze con la metà dei suoi anni. Concerti memorabili per pochi spiccioli e due chiacchiere davanti a un bicchiere con chiunque lo chiedesse, mai negate.

Ai Fatalists, tocca qui (per la terza volta dopo We Never Had Control e 24 Hours to Nowhere), dare voce all'anfratto più "americano" della sua anima: una sinfonia tappezzata da un blues arido ma mai freddo, dai rimandi vagamente dub e tribali, per scacciare una volta di più il fantasma di Nick Cave e ribadire che la musica più sexy sul mercato arriva ancora dalla voce e dalle mani di un ultracinquantenne un po' stempiato, con la faccia scavata e lo sguardo senza fondo.

The Faint

Child Asleep

Elettronica di razza spuria

I Faint, prima di diventare i Faint, volevano solo scorrazzare sullo skate per le strade di Omaha, Nebraska. E invece è andata che il tutto si è infranto contro un brutto infortunio al ginocchio di Todd Fink, che ha costretto tutta la banda a virare su un imprevisto piano B chiamato musica.

Messa così, la storia non suona tanto poetica, eppure — tirando le somme dopo trent'anni di carriera — hanno vinto tutti: le comari del quartiere ancora ringraziano sentitamente per la pace ritrovata e l'inaspettata fine degli scapestrati schiamazzi nelle vie sotto casa, mentre tutti quegli eretici che si lamentavano della mancanza di una certa attitudine punk sui dancefloor di mezzo mondo si sono goduti un bel periodo di electro'n'roll suonato come si deve. Hanno guardato i quattro scapestrati passare più volte, ma sempre con sadico rispetto, sui cadaveri ancora ipotetici di Gary Numan e Dave Vanian e li hanno aizzati a fare peggio quando quelli hanno deciso di portare il giramento di coglioni in mezzo ai synth, ben prima che i Prodigy ne facessero carne da MTV.

Quindi, cos'è che è andato storto? Quando è successo che abbiamo perso il gusto di mischiare le proprie influenze senza un criterio ben preciso? Chi è che ha stabilito che era finita l'era della musica bastarda nel mainstream?

Perché il fatto è che i locali ormai, una roba del genere, non perdono più tempo nemmeno a ghettizzarla dentro la triste serata a tema del martedì sera. E così anche i Nostri hanno iniziato a nascondere le chitarre dietro produzioni impeccabili come questa. Poco male: dopotutto non sono molti, oggi, a saper ancora far sgroppare una 808 su una giostra dal groove così rock.

Ma allora cos'è questa specie di sana nostalgia sguaiata e rancorosa che ci sta salendo su come un groppo in gola?

The Comet Is Coming

Summon the Fire

Il sax in disco

La cometa sta arrivando e, come vuole la tradizione, si porta appresso, ben aggrappati alla sua coda imbizzarrita, tre Re Magi esotici e un po' fuori dal coro. King Shabaka è quello Shabaka Hutchings che l'hanno scorso ha fatto ufficialmente il botto con i suoi Sons of Kemet, mentre i due alfieri che seguono le bizze del suo sax con malato compiacimento hanno nomi da androide — Danalogue e Betamax — ma all'anagrafe sono registrati come dei banalissimi Dan Leavers e Max Hallett e stanno rispettivamente dietro ai synth e alla batteria.

Insieme provano a esplorare nuovi mondi sonori senza il ritegno di non distruggere qualunque ideale musicale non sia utile al loro scopo. Il risultato è sorprendentemente ballabile: un tappeto di texture e pattern elettronici fatti di frasi semplici e ripetitive ma dalle ritmiche irresistibili che con naturalezza sorprendente reggono il moccolo a uno sbrocco di letale logorrea solista.

Un azzardo futurista troppo bello per essere vero e infatti il tutto — per sicurezza — butta un occhio anche ai tempi andati, chiamando al banco dei testimoni lo spettro di Alice Coltrane, ma solo per sgambettarlo e farlo cadere di faccia dentro cosmiche pozzanghere ricolme della pioggia acida di Blade Runner. È come se Sun Ra avesse firmato per la DFA o se gli LCD Soundsystem fossero stati violentati nei camerini di un jazz club e poi spediti in orbita a raccontare la loro esperienza ai marziani.

Il loro secondo album, Trust in the Lifeforce of the Deep Mystery, già dal titolo dichiara di voler proseguire con ancora più convinzione su questa rotta interstellare di improvvisato delirio mistico-psichedelico, eppure promette di riuscire a tirare le fila del discorso e di «rispondere a domande universali con verità e suoni altrettanto universali.»

Anche a costo di doversi inventare di sana pianta entrambe entrambe le cose.

Note a margine
Questa mini playlist è un piccolo estratto di quella che è stata selezionata in esclusiva per hvsr.net e che ancora continua a fare la sua porca figura, in costante evoluzione, sull'omonimo sito. La riportiamo anche qui, in fila per cinque con il resto di quel che avanza, per questioni di vanagloria, completezza e perché Spineless è come il maiale: non si butta via nulla. Ma soprattutto per non dimenticare, a perenne memoria di quei bei tempi andati in cui i mixtape si facevano a mano e gli algoritmi ci mettevano i bastoni tra le ruote solo durante le ore dei corsi di algebra.
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