Un commovente Paolo Spaccamonti con Roberto Tax Farano, i Black Mountain, i Modeselktor, i nostrani Gentlemens e il misterioso Orville Peck: cinque pezzi buoni per l'inizio della primavera.
24 Marzo 2019
Il tempo è galantuomo, dicono gli inguaribili ottimisti che hanno tempo da perdere e ancora stanno lì a sperare che l'attesa lenisca, in qualche modo, le ferite. Se il tempo in questione però traballa in bilico su dodici battute, allora si chiama blues e su quelle ferite, al contrario, ci butta il sale o, nella migliore delle ipotesi, uno schizzo di whiskey. Niente di sadico, è solo il suo mestiere e lo fa al meglio perché per quello è stato creato.
Qui i galantuomini sono tre e lo ribadiscono sbagliando due volte il loro stesso plurale. Trucco che funziona alla grande sia per crearsi una nicchia tra le ricerche di Google, che per distinguersi nell'affollato gruppetto di gente per bene che ha fatto capolino negli annali della musica rock, a partire certi tipi di Dallas negli anni '60, passando a Seattle con gli amici di Duff McKagan a fine '90, per arrivare nella Sheffield dei giorni nostri a suon di disco-pop. Ricerca interessante, questa sui "gentlemen" in giro per il mondo, ma che rischia di portarci fuori tema.
Perché qui il tema è se sia possibile, allo stato attuale delle cose e soprattutto in questo paese, riuscire a far esplodere sul serio l'ossessione di Jon Spencer senza per forza tirare in ballo le scazzottate western all'italiana di Carlo Pedersoli e Don Matteo. La risposta è sì, parte da Ancona e ha dovuto sbadilare chili e chili di bitume per asfaltarsi la sua personale autostrada del Brennero fino a Berlino, dove ha trovato l'etichetta giusta per le proprie ambizioni.
Due chitarre e una batteria. Raramente, quando serve, un'armonica e qualche accenno di strumento con i tasti da pigiare (organo, synth o qualunque nome volete dare al Maligno). Tutto il resto è grasso di suino poco addomesticato che cola in un irresistibile bukkake di pentatoniche sguaiate quanto basta, sparato sui vostri brutti musi senza avvertirvi prima.
Una roba così anziana e sudicia da doverla portare in giro con la flebo attaccata, ma che sa travestirsi bene per andare a roteare la borsetta sui viali di un'attualità inaspettata e lasciarvi mezzi ignudi — giusto con quelle mutande e quei calzini che vi farebbero vergognare in caso di un ricovero d'urgenza in ospedale — su una spiaggia deserta alle cinque di mattina, persi in un'alba offuscata dalla puzza di alghe marce e concime biologioco a chilometro zero, dentro un'atmosfera che odora di conceria così sconcia che per un attimo ti sfiora il sospetto, fortissimo, che un typo malizioso e consapevole ci sia pure nel titolo di quest'ultimo singolo.
Che il blues del vecchio, caro, quasi anonimo John fosse pubico prima che pubblico?
La simbiosi tra Sascha Ring, Gernot Bronsert e Sebastian Szary è ormai arrivata a quel punto di non ritorno per cui devono far uscire i rispettivi dischi in contemporanea anche quando non si tratta di un album dei Moderat. Dopo Apparat infatti, Who Else è l'ultima fatica a firma Modeselktor, arrivata in questi giorni, sul filo di lana, dopo due anni spesi a procrastinare senza un criterio, seguiti da dei mesi di panico puro e ansia da prestazione e infine registrato in sole quattro settimane con il pepe al culo.
Impreziosito dalla partecipazione di Tommy Cash, nuovo fenomeno del rap estone — e abbiamo detto tutto — questo è il primo singolo estratto dal cilindro, in cui il ragazzo mostra le sue doti di virtuoso delle parole, danzando scomposto sopra un testo all'insegna del dubbio atavico destinato a sfociare inevitabilmente nel disimpegno totale, che parte da una serie di domande retoriche senza risposta e finisce infatti per trovare l'unica soluzione nell'assenza totale di contenuto di un "bla-bla-blah" di Young-Signoriniana memoria.
Piccolo capolavoro di delirio (dis)organizzato il video, diretto dal regista crucco di origini libanesi Chehad Abdallah, che ci va giù pesante con accostamenti surreali e compone un potpourri di immagini potenti e allegoriche, senza risparmiarsi un pizzico di malizia né citazioni e riferimenti rischiosi come Gesù, Caravaggio, i freakshow del primo '900 e tutta un'estetica meta-rinascimentale. Per capirsi: si passa dagli inconvenienti che comporta lo scegliere la lametta sbagliata per una rasatura total-body, a soluzioni naturali per staccarsi i denti (non più) da latte, dal giocare a Twister su un tappeto di trappole per topi a sessioni di air guitar con una motosega, da relazioni imposte con svariati giri di nastro adesivo ai dolori di un giovane toy boy quando la macchinina telecomandata con cui sta giocando gli va a sbattere sui gioielli di famiglia.
Riassumendo per gli appassionati: una roba che sembra una campagna di Gucci pensata da uno stylist sotto chetamina. Ovvero esattamente quello che rappresentano i Modeselektor nella scena attuale: techno-IDM di lusso accolta a suon di inviti esclusivi nei salotti buoni dell'elettronica mondiale, che mai però può permettersi di abbandonare certe allusioni a un non detto un po' tamarro che li obbliga a presentarsi, sempre e comunque, alle cinque di mattina per un set chimicamente illegale dentro un capannone abbandonato.
La ricetta dei Black Mountain — rimasta invariata al netto dei ricorrenti cambi di formazione — ormai la conoscete tutti. In caso contrario, è presto qui riassunta: prendete gli Arcade Fire e fategli suonare qualcosa dei Black Sabbath. Dopo avergli infilato sotto la lingua qualche acido di quelli buoni, dico.
I riff pesanti di estrazione hard inglese, qualche ambizione prog grazie a Dio tenuta senza particolari sforzi sotto controllo, un paio di cioccolatini pop mai troppo ammiccanti e quella sorta di atmosfera perennemente in bilico tra una hippieness consapevole e la psichedelia pura, virata oltre l'attrazione terrestre verso un moderno heavy-space'n'roll che ha permesso alla band canadese di condensare in una proposta praticamente unica tutta la serie di banalità appena elencate.
Almeno fino ad oggi. Sì, perché se nei quattro album precedenti erano riusciti a spalmare con gusto un'evidente ossessione Seventies sulla superficie di quella che era la loro versione amabilmente alternativa della storia del classic rock, a sentire questo nuovo singolo, pare abbiano fatto il famoso passo più lungo della gamba sulle scale mobili dello spazio-tempo, finendo direttamente a grattare l'uscio di certi riff cotonati che hanno reso celebri i peggiori parrucchieri degli anni '80.
Eppure tutto ha una spiegazione. E qui la chiave di lettura sta in un semplice esame di guida, finalmente superato a pieni voti. Se infatti le persone normali la patente la prendono a vent'anni, Stephen McBean ha ben pensato di aspettare i cinquanta per togliersi questa soddisfazione e dare improvvisamente gas, lasciandoci attoniti e in parte spiazzati, avvolti dai fumi dei suoi tubi di scarico. Ma dopotutto si sa: con un bolide sotto il culo chiunque rincitrullisce un po' e torna ragazzino. Senti il vento nei capelli, la puzza di benzina e di pneumatici bruciati, ti sale un po' il tamarro dentro ed è subito Eye of the Tiger.
Così finisci per saltare a tempo con il ricordo dei Van Halen e a chiederti sconsolato perché — a te che volevi vivere una vita da rocker di strada dentro Out Run — tutti questi benedetti, sedicenti critici continuano a infilarti imperterriti dentro le classifiche dei migliori dischi indie.
Young Till I Die è una canzone di una vecchia band di Reno, Nevada, così sguaiatamente punk che saresti pronto a scommettere che chi la cantava ci credeva davvero. Young Till I Die è una scelta di vita, perché il punk è una scelta di vita, almeno finché la vita non sceglie di giocarti un tiro così punk che non te lo saresti mai aspettato. Young Till I Die è la voce di una speranza, perché permettersi di sperare dovrebbe essere un lusso garantito da qualunque carta dei diritti dell'uomo. Young Till I Die è una dichiarazione d'amore, lapidaria nel senso di lapide, piantata in una Spoon River privata, a metà strada da Torino e il più importante gruppo harcore italiano di sempre.
È la negazione della resa, che dei Negazione è sempre stata la benzina, incisa sulla pietra dura da due musicisti che non credono nei miracoli, ma si rifiutano, per natura, di cedere alla rassegnazione. Musicalmente parlando, Young Till I Die — questa, Young Till I Die — è una cosa molto poco hardcore fuori ed estremamente hardcore dentro: dura appunto come la scorza del suo nucleo che vorrebbe non abbandonarsi alla semplice commemorazione, eppure quasi dolce nel suo dipanarsi strumentale. Una cosa fatta con le mani di Paolo Spaccamonti e il cuore di Roberto Tax Farano, o forse viceversa, perché quando le cose le fai con il cuore in mano tutto si confonde e distinguere i meriti non ha più importanza. Una cosa disegnata prevalentemente con le chitarre, decise e screziate, che procedono prendendosi il tempo che serve, con l'andatura lenta di chi sta cercando qualcosa. O qualcuno. O una via di mezzo, almeno.
Colpi di frusta dalla traiettoria aggraziata ma dall'effetto letale, su una lastra di vetro, luminosa e tagliente, che a tratti si lascia attraversare dallo sguardo di chi ascolta, a tratti riflette e abbaglia (dipende dall'inclinazione, questo lo sanno anche i bambini), ma non senza lasciare segni. A modo suo, indubbiamente, comunica.
Perché Marco Mathieu, da più di un anno e mezzo ormai, lotta prigioniero di un corpo inerte — il suo — e anche di gesti come questo ha bisogno per continuare a dirci qualcosa. Anche fosse solo per conto terzi, grazie a un abbraccio di feedback, a uno schiaffo arpeggiato, a un "buon compleanno" sussurrato fuori tempo massimo, per ribadire che lo spirito è duro a morire, e che, anche se magari non potremo davvero arrivare a essere vecchi e forti, almeno c'abbiamo provato.
C'è un nuovo supereroe mascherato che veglia su questa città.
Buono a sapersi: ne avevamo bisogno a prescindere, visti i tempi che c'è toccato in sorte di viverci dentro. Ma, appurato questo, la questione da dibattere è un'altra: esiste forse un mistero meno misterioso dell'ennesimo enigmatico artista che piomba in incognito — ma sempre e comunque enigmaticamente di proposito — tra le righe dell'ennesima enigmatica press release? Dubito.
Per quel che ne potreste sapere, io stesso potrei avere una doppia vita e passare le mie notti a perlustrare i vicoli dell'underground indie o i backstage dei più lerci club di periferia, spacciandomi per un oscuro "signore della trap" (o qualunque altra cosa), ben nascosto dietro a un nome bizzarro e un costume appariscente (era un esempio — giuro, non lo faccio).
Ciò che è meno comune dell'essere un enigmatico artista è invece essere un enigmatico artista convincente. Perché una cosa è avere le palle per presentarsi al mondo senza faccia e armati di una bio che offre al buon senso più domande che risposte, un'altra è regalare all'immaginario popolare un'idea (e, nello specifico, delle canzoni) abbastanza appetitosa da lasciare le sue papille gustative non proprio affamate, ma almeno curiose di capire se nel menu è compreso qualcos'altro.
È questo il caso di Orville Peck? Secondo quelli della Sub Pop sì, visto che l'hanno messo sotto contratto convinti del suo potenziale e si sono pure sforzati di inventargli addosso un genere ad hoc, un enigmaticissimo homoerotic cowboy-pop che vuol dire tutto e nulla ma, in termini di copywriting stretto, denota uno sforzo creativo decisamente superiore alla fortunata intuizione che a suo tempo mise in moto (quasi a costo zero) tutto il carrozzone del cosiddetto grunge.
Questo secondo singolo, che anticipa l'album di debutto Pony, sembra confermare la cosa, visto che sfido chiunque a non lasciarsi affascinare da un simile, disperato crooning western vestito da wrestler, da certe ritmiche ambient-shoegaze che riportano il concetto di country dentro un'attualità disarmante, dal minuzioso lavoro su una caliginosa lap steel guitar che profuma di legno, polvere e sesso a buon mercato, come le pareti delle stanze di un bordello vero.
Orville Peck è il deserto che sta tra Tex Willer e M¥SS KETA, la voce di Alex Cameron che narra una sceneggiatura di David Lynch, il pistolero camuffato da fantasma di Jim Reeves che, da ora in poi, proteggerà il nostro sonno. Nella speranza — ci mancherebbe — di incubi migliori.