HVSR Digest #20

HVSR Digest #20

I Clinic, Peter Perrett, i Sex Pizzul, Gobbi e gli HU: cinque pezzi buoni da prendere a calci per finire il campionato serenamente fuori dalle sabbie mobili della zona salvezza.

30 Giugno 2019

Clinic

Laughing Cavalier

Sempre uguali a se stessi, mai uguali a nessuno

Credo non sia del tutto corretto dire che i Clinic abbiano creato un loro personale microgenere.

Nel senso, perché un genere musicale possa definirsi tale ci sarebbe bisogno almeno di qualcun altro che decida di farlo suo. Invece, a oggi, la band di Liverpool non conta tentativi di emulazione da parte dei propri colleghi, se non alla lontana. È vero anche che, quasi vent'anni di carriera e otto album partoriti con cadenza più o meno regolare stanno lì a dimostrare che — almeno a livello di pubblico — il modo di tirare a campare dentro la propria nicchia Adrian Blackburn e compagni l'hanno trovato eccome.

D'altra parte anche l'originalità — come tutto, del resto — la decide il mercato e quindi, finché nessuno prova a copiarti, continuare a fare imperterriti la stessa cosa risulta a tutti gli effetti il modo più estremo per fare ogni volta qualcosa di nuovo.

E infatti i Nostri perseverano diabolicamente lungo il vecchio viottolo, piastrellato di mattonelle ben incastrate anche se un po' consumate, sì dalle proprie stesse impronte, ma lasciate pur sempre con degli ottimi, coloratissimi calzini antiscivolo. Una sorta di neo-art-garage la cui componente "arty" prende spunto dai disegni di un bambino dell'asilo, un arsenale di strumenti raccattati al mercato delle pulci e tutta una loro estetica teatral-circense, perennemente in bilico tra l'abbigliamento di uno stimato primario in cors(i)a per il premio malasanità e un artista di strada spaesato al Ferrara Buskers Festival.

Sarebbe punk se il punk suonasse Bontempi. Sarebbe rock se il rock fosse una partecipata della Giochi Preziosi. Sembra il contrario, ma è una roba tremendamente seria. E finché nessuno se ne accorge, va benissimo così.

Peter Perrett

Master of Destruction

Forma (ottima) e sostanze (stupefacenti)

La questione dei cosiddetti comeback album è abbastanza spinosa. Nel senso che è sempre difficile resistere alla tentazione di non speculare sulle ragioni che ci stanno dietro. Sincera passione contro ogni senso del pudore? Squallida strategia commerciale pianificata a tavolino? Necessità improvvisa di pagare le bollette? Crisi d'astinenza? Vai a sapere.

Quello che è sicuro è che nel 2017 il comeback album che non ti saresti mai aspettato è stato quello di Peter Perrett. Nemmeno due anni dopo, rieccolo in pista. Il che ha quasi del miracoloso e fa di questi ultimi settecento giorni il periodo più prolifico della sua carriera dall'ormai lontanissimo 1978-1980, nel corso del quale gli Only Ones esaurirono il loro catalogo — giusto prima di un oblio passato a scegliere se era meglio farsi di eroina o di crack, un giorno sì e l'altro pure.

E allora vale la pena sottolineare come il nuovo Humanworld non sia semplicemente un buon disco per uno che ha passato l'ultimo decennio a burciarsi i neuroni con tutto quello che passava al convento della droga: è un lavoro dannatamente buono e basta. Principalmente perché riesce non scegliere tra le due più frequenti trappole che ti aspettano in casi come questo: sforzarsi di suonare a ogni costo attuale o cercare in tutti i modi di resuscitare la gloria del passato. Pochi fronzoli, guitar rock pulito e dritto, semplice e di gran gusto, buono per riconciliarsi innanzitutto con se stesso e con chi ti vuole bene.

Per dire, Master of Destruction è stata scritta dal figlio Jamie, che nell'album suona la chitarra. Suo fratello Peter sta al basso, in una rischiosa e potenzialmente ridicola situazione da sit-com: The Perrett Family. E invece, alla fine della fiera, buon sangue non mente mai. A quanto pare nemmeno dopo che hai passato le tue migliori stagioni a mischiarlo accuratamente con le peggiori schifezze.

Sex Pizzul

Mounir

Un piccolo capolavoro balistico

Come Igor Protti e Dario Hubner, i Sex Pizzul hanno debuttato in serie A un po' in ritardo rispetto alla media e — come Dario Hubner e Igor Protti — sono partiti dalla provincia alla conquista della classifica dei cannonieri, forti di un'idea originale e ottime doti nell'antica arte di rapinare l'area piccola, approfittando a forza di pedate dei meccanismi difensivi ancora poco rodati dell'indie italiano.

La band fiorentina torna a mischiare rock sguaiato e pallone, new-wave elettronica ed estetica ultras, con un mestiere da far invidia a Nick Hornby, portando a galla il lato più nascosto e godereccio di un'ipotetica "Bruno Pizzul Experience" a 360 gradi (centigradi) e promette di regalarci ancora un disco d'altri tempi.

Anticalcio uscirà a settembre, ma già dal titolo ribadisce l'idea del suo predecessore: una musica da ballare marcando a uomo e da ascoltare con la radiolina all'orecchio, mentre poghiamo con (e contro) pochi eletti sulle gradinate dei peggiori campi di periferia e altoparlanti vecchi come il cucco gracchiano oltre la recinzione una sorta di Anarchy in the UISP corale.

Mounir arriva a campionato finito ma perfettamente in tempo per la Coppa d'Africa e, vista la storia che si porta appresso, probabilmente la cosa non è una coincidenza. Un "mundial-disco-punk" insaporito di Maghreb, che fonde in maniera amabilmente maccheronica una babele di arabo, italiano, inglese, portoghese e russo, per raccontare la vicenda (sicuramente inventata ma del tutto verosimile) di un giocatore marocchino abbagliato dal sogno dell'ingannevole e lussu(ri)oso mondo calcistico occidentale.

Pure troppo, verosimile. Con un paio di aggiustamenti potrebbe essere la versione low-budget dell'avventura italiana di Al-Saadi Muammar Gaddafi. Chiedete in giro a Perugia se volete conferme e maggiori informazioni al riguardo.

Gobbi

Bologna Merda

Cori da stadio per una dolce intimità ultras

Leggi "gobbi" e ti aspetti come minimo una faida ultras in cui un esercito di juventini viene affogato nelle acque viola dell'Arno. E invece scopri che quei colori bianconeri che potevano confondere le idee, suggerendo pensieri di azioni truci di cui vergognarsi prima del fischio di inizio, sono in realtà quelli del Cesena Football Club, onorata compagine dalla storia illustre ma dalle alterne fortune in termini di classifica, un tempo nota come Associazione Sportiva Dilettantistica Romagna Centro Cesena. Un nome, un destino segnato.

Non che questo sminuisca l'eroismo del gesto. Perché, in termini di sfrontatezza sfacciata e coraggio incosciente, andare a cantare un pezzo come questo nel bel mezzo di Piazza Maggiore indossando la maglia del mitico Emiliano Salvetti, ha lo stesso valore del presentarsi un Curva Fiesole vestito così.

Eppure è quello che ha fatto Giuseppe Gobbi, giovane cantautore romagnolo ma ormai già trapiantato ("sparato con la cerbottana") a Milano, per presentare il primo (e per ora unico) singolo della sua carriera.

A modo suo figlio d'arte (il padre, detto Fosforo, fu campione di Sarabanda) sfoggia la padronanza innata per una sorta di guerrilla marketing al contrario tipica dei millennial (un certo mood da sfigato costruito ad arte, i profili social ufficiali abilmente camuffati da profili fake, una delicata dichiarazione d'amore fatta con la grammatica grezza di un coro da stadio) e un gusto per la melodia giusta che richiama i peggiori (o migliori) interpreti dell'ultimo pop nostrano. Cesare Cremonini? Tiziano Ferro? Sentitevi liberi di sparare a ventaglio, tanto l'impressione è che non scalfirete le sue (in)sicurezze nemmeno con un graffio).

C'era davvero bisogno di un nuovo Calcutta della riviera che prendesse l'immaginario nazional-(pop)olare di un pallone di provincia in cerca di rivincite per farne note da sbaciucchiare via Instagram Story? La domanda suona retorica, ma il dubbio rumoreggia in sottofondo: e se la risposta fosse "forse sì"?

The Hu

Wolf Totem

Il metal mongolo è una cosa seria

Praticamente sconosciuti fino a nemmeno un anno fa, hanno portato a casa quasi 30 milioni di visualizzazioni in poco più di dieci mesi con due soli video, firmato un contratto discografico con l'etichetta dei Mötley Crüe, scalato le classifiche specializzate fino al n.1 e fatto pure breccia nel cuore degli editor di GQ.

Considerate che la Mongolia ha 3 milioni di abitati e traete le vostre conclusioni riguardo alle dimensioni del fenomeno.

Gli HU hanno trovato la chiave per fare piazza pulita di qualunque record di comunicazione virale, semplicemente sovrapponendo oriente e occidente come se fosse la cosa più naturale di questo mondo ormai (de)globalizzato. Musica tradizionale mongola, suonata con strumenti tradizionali mongoli e cantata secondo i dettami della tecnica vocale tradizionale mongola (una specie di "soft growl" che si piazza esattamente in un vuoto equidistante sia da Johnny Cash che da Phil Anselmo), ma che sfoggia un tiro, delle linee melodiche e dei ritornelli già pronti e confezionati per una distesa di mani alzate dentro uno stadio americano.

Video con riprese aeree di paesaggi mozzafiato che farebbero invidia a uno spot del Touring Club e una fotografia a metà tra il La principessa e l'aquila e sette stagioni di Sons of Anarchy. Gilet di cammello battriano e monili di corna di argali abbinati a felpe col cappuccio, bandana e occhiali scuri, per una Route 66(6) che asfalti la steppa dell'altopiano.

Suona grottesca, messa così. Ma la verità è che è qualcosa che non avete mai sentito. Non è musica rock o metal suonata da dei Mongoli. È rock mongolo (o metal mongolo, se preferite) a tutti gli effetti e ha un nome ben preciso: hunnu rock. Una roba così solida e genuina da far sospettare che non sarà una ventata passeggera, un breve vezzo esotico o la sola moda di un'estate.

Note a margine
Questa mini playlist è un piccolo estratto di quella che è stata selezionata in esclusiva per hvsr.net e che ancora continua a fare la sua porca figura, in costante evoluzione, sull'omonimo sito. La riportiamo anche qui, in fila per cinque con il resto di quel che avanza, per questioni di vanagloria, completezza e perché Spineless è come il maiale: non si butta via nulla. Ma soprattutto per non dimenticare, a perenne memoria di quei bei tempi andati in cui i mixtape si facevano a mano e gli algoritmi ci mettevano i bastoni tra le ruote solo durante le ore dei corsi di algebra.
Albascura
Mongol metal is the new black