HVSR Digest #26

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I Calibro 35, gli Ultraísta, Paolo Benvegnù, i Mariposa e Ed O'Brian: cinque pezzi buoni da sminuzzare come coriandoli per terra, a testimonianza che qualcuno si è divertito, buon per lui.

12 Febbraio 2020

Calibro 35

Fail It Till You Make It

Una miracolosa rilettura del contemporaneo per gli Stati Generali della nostra attualità musicale

L'unico vero supergruppo italiano. Dove il termine è da assumersi ad ampio spettro. Nel senso più puro e originario, sì — visto l'approccio tipicamente Senventies a una curiosità armonica a tutto tondo — ma solo se siamo bravi a traslarlo e attualizzarlo in un presente stupefatto, se non addirittura in un futuro (speriamo) prossimo. I suoni di oggi e di domani, l'atteggiamento di quando c'era ancora qualcosa in cui sperare. Perché se si stava meglio quando si stava peggio, allora — visti i tempi nostri — vuoi vedere che potrebbe anche non buttare poi così male?

Non è un esercizio semplice, mi rendo conto: serve uno sforzo di fantasia in cui mischiare musica e spazio/tempo e ci siamo sempre meno avvezzi. A sforzarsi con l'intelletto, intendo. Ma d'altra parte, con i Calibro 35 è stato così fin dall'inizio. Un supergruppo al contrario — nato (nemmeno troppo) per caso come divertissement all'insegna delle colonne sonore dei poliziotteschi di serie B — diventato tale (super, dico) a posteriori, mentre i singoli membri raggiungevano successi più o meno dignitosi con quelli che avrebbero dovuto essere progetti paralleli mai banali. Un'infinità di progetti paralleli. Così, per essere sicuri.

Gente con un talento fuori dall'ordinario, che continua ad avere il buon gusto di rimanere viva, vegeta e pimpante nella testa forse ancor più che nelle mani. E vi assicuro che questi con le mani ci sanno davvero fare.

Così, in un Paese di cervelli in fuga, eccoci di fronte alle menti migliori della nostra generazione che si prendono la briga di togliersi passamontagna e tute spaziali e — dopo aver riletto il passato con gli occhi di chi ha saputo capirlo — in un atto di generosità verso il futuro, donare tutto al presente.

Solo una domanda rimane in sospeso: cosa abbiamo fatto di così buono per meritarci tutto questo?

Ultraísta

Tin King

Gente che avrebbe dovuto essere famosa e invece no

La ricetta giusta per diventare dei divi non è così scontata. Il talento, ad esempio, in questìottica non è una condizione né necessaria né sufficiente. Indubbiamente aiuta, nel senso che può servire come base di partenza, ma non serve a prescindere e soprattutto non basta da solo. Cìè bisogno di ben più che una manciata di predisposizione personale e quanto basta di condizioni favorevoli. Detta senza giri di parole: bisogna esserci portati e avere una discreta dose di culo.

Nigel Godrich è il maggior responsabile — almeno quanto loro stessi — di quello che Thom Yorke e i Radiohead sono stati e poi sono diventati. Qualcuno lo ringrazierà in eterno, qualcun altro non lo perdonerà mai. Ma non è qui il punto. Il dato di fatto è che esclusivamente per questo — mica per aver prodotto alcuni tra i migliori dischi degli ultimi vent'anni — verrà ricordato.

Joey Waronker ha collaborato con Beck, Roger Waters, Atoms for Peace, Paul McCartney, Smashing Pumpkins. Eppure lo conoscono giusto gli insegnanti di batteria.

Laura Bettinson ha iniziato in una band chiamata Dimbleby & Capper, in pratica formata da lei e dal suo campionatore. Non si sa bene come — da anonima carneade — è finita a suonare a Glastonbury, dove gli altri due l'anno vista e ci hanno sentito del buono.

Nemmeno un anno dopo era pronto un disco che sapeva di trip-jazz inconsulto. Synth raffinati, layer vocali come se piovesse e un drumming dichiaratamente complesso, ma che non te lo faceva pesare. Era il 2012 e nel giro di sei mesi tutti se ne erano già — colpevolmente — dimenticati.

Gli Ultraísta tornano oggi — come se il tempo fosse un'opinione — con un pezzo all'insegna del motorik-pop vagamente acido. Sembrano i Portishead accelerati al doppio della velocità e inzuppati in salsa kraut. Una roba epiletticamente strana, che avrebbero potuto registrare gli Underworld nel '94 e farci i veri quattrini.

Sister uscirà a marzo. È facile pronosticare che sarà — ancora una volta — estremamente interessante, ma finirà di nuovo per generare più ammirazione che vero e proprio amore. Niente successone mainstream insomma, nemmeno a questo giro.

Paolo Benvegnù

Pietre

Poesia necessaria, per chi ha ancora voglia di stupirsi

Raccontare non è un'arte semplice: si rischia di inciampare nella presunzione delle proprie parole senza possibilità di rialzarsi, oppure di semplificare troppo le cose tralasciando volutamente pezzi fondamentali per una comune mancanza di coraggio. Serve fare ordine, schematizzare, suddividere indignazione, stupore e presunte banalità in blocchi di cemento sagomati al meglio. Prendere tempo, perdere tempo, fare mente locale, respirare e lasciare recuperare il fiato a chi ascolta. Se necessario, sommergere di sassate ogni calo di attenzione.

Pochi come Paolo Benvegnù hanno dimostrato di saperlo fare in un panorama musicale volubile come quello italiano e usando una lingua bella e complicata come la nostra. Prima con gli Scisma, poi da solo, ma sempre accompagnato da gente di cui potersi fidare a occhi chiusi. Anche quando le parole da mettere in fila erano pesanti come macigni, anche quando le persone a cui mostrarle erano quello che più ti avevano deluso. I tuoi simili, per esempio.

Gli spalti vuoti della Cavea del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino sbiaditi in un bianco e nero in cui l'amara verità risuona come in un Memoriale per gli ebrei assassinati d'Europa qualunque. Un non-luogo — sospeso tra la Toscana e Berlino — dove tutto sembra immobile, statico. Sereno nell'assenza.

Perfetto per un inno all'attesa, sincopato, nervoso, sapientemente macchiato da aperture melodiche di (in)aspettato lirismo che richiede una dose più convinta del solito di pazienza, amore e dedizione per scandagliare fino in fondo le sue cadenze. Una dedizione che al giorno d'oggi sembra essere diventata sempre di più un lusso che non possiamo (vogliamo) permetterci.

Ma la poesia è una roba difficile: non viene gratis e pretende attenzione. In caso contrario, meglio lasciar perdere e tornare — senza rimpianti — al prossimo, confortevole meme.

Mariposa

Licio

L'orchestrina Liscio Gelli anima la festa di un Paese alla deriva

Fondamentalmente, una grande famiglia. A loro piace definirsi un "gruppo di musica componibile", ma tant'è: i due concetti sono più simili di quel che sembra. Una grande famiglia con la selezione all'ingresso però, almeno a scorrere i nomi che hanno preso parte, negli anni, al collettivo bolognese. Per dire, non è certo necessario star qui a cantare le lodi di certi personaggi di confine come Alessandro Fiori o Enrico Gabrielli (uno che ha fatto le fortune di Marco Parente, Paolo Benvegnù, John Parish, Afterhours, Calibro 35, PJ Harvery e chi più ne ha più ne metta), che amano stare più o meno dietro le quinte ma quando c'è da fare sul serio sono i primi della lista.

Dopo otto anni, i Mariposa mettono finalmente fine alla loro eclissi inconsapevole e ritornano in grande stile — forti del contributo di due vecchi amici, i testi di Daniele Calandra (Addamanera) e la voce di Serena Altavilla (Solki) — con Liscio Gelli, un disco che — già dal titolo, in maniera programmatica — si dichiara un complotto artistico bello e buono: far ballare su tempi romagnoli tradizioni musicali e scheletri nell'armadio che niente hanno a che fare con certi avanzi di balera.

Licio riassume perfettamente la cosa: un tango arrugginito in cui la Prima Repubblica si mette a nudo per farsi guardare sotto la sottana. Craxi ammanettato al letto che aspetta Moana in sottoveste, mentre il gatto piscia nella sabbietta, il cane sullo stipite della porta e il cardinale fuori dal vaso, tra uno swipe e l'altro su Tinder. Un western per voyeur appassionati dei misteri d'Italia, dalle ben precise coordinate temporali, ma simbolicamente fuori dal tempo perché buono per tutti i tempi.

Ci sono i poster dei Duran Duran, di Platini e degli ex componenti della band. Ma soprattutto c'è la prima pagina di Paese Sera:

Arrestato Ugo Tognazzi: è il capo delle BR.

Perché — nonostante tutto — il tango, il valzer, il liscio o chi per loro in fondo sono nostalgia dei tempi andati. Quando anche le fake news avevano tutto un altro spessore.

EOB

Shangri-la

Quello bello dei Radiohead nel frattempo ha imparato pure a suonare

Il terzo chitarrista, in una rock band, nella maggior parte dei casi non serve a un cazzo. Sempre che la band in questione non sia la più importante della storia recente del rock stesso, s'intende. Lì tutto l'ambaradan si complica e un sacco di cose che non servono a un cazzo diventano d'improvviso indispensabili.

Le parole di Thom Yorke confermano (smentendola coi fatti) l'intera la teoria:

Reclutammo Ed perché lo trovavamo fico e perché assomigliava a Morrissey.

Non proprio l'apologia di un guru delle sei corde, ecco. D'altronde, quelle di Mr. O'Brien stesso ci vanno giù ancora più pesante:

Non ero assolutamente in grado di suonare — quando entrai a far parte del gruppo sapevo a malapena fare un accordo.

A giudicare da Pablo Honey, probabilmente era il Sol.

Poco importa che la storia abbia sentenziato, al riguardo, un sonoro "chìssene": con dei presupposti del genere qualche chilo di scorie ad affossare l'autostima ti rimangono per forza. Ed O'Brien c'ha messo quasi trent'anni a scuotersele di dosso, ma oggi — finalmente — fa outing con una piacevolissima sorpresa, che da sola — nell'ottica di un senno di poi che grazie a Dio non arriva troppo tardi — racconta una capacità di scrittura per niente scontata e conferma il sospetto che non puoi diventare la band più importante della storia recente del rock se tutti i membri non portano il loro personale contributo alla causa.

Soprattutto — cosa, questa, confermata da un dato che molti tendono a dimenticare, ovvero che la band più importante della storia recente del rock non ha subito un solo cambio di formazione in tutta la sua carriera — devi investire sulle persone prima forse ancora che sui musicisti.

9 giugno 1997, Irving Plaza — NYC. Il settore VIP è pieno di gente che dovrà decidere se quella che stanno per vedere diventerà in effetti la band più importante della storia recente del rock.

Prima che aprissero i cancelli sono andato a dare un'occhiata: Madonna aveva il tavolo migliore del locale e mia mamma quello in fondo. Ho pensato "così non va" e ho chiesto che venissero scambiati. Alla fine mia madre era in prima fila, tra gli U2 e i R.E.M. e Miss Ciccone dietro a tutti. Ed è proprio così che deve essere, sono convinto che Madonna avrebbe fatto lo stesso. È bello che ci sia tutta quella gente, ma se c'è la tua mamma, la tua mamma è la cosa più importante.

Questo è Ed O'Brien. La morale della storia è invece che se ci fossero più Ed O'Brien nel mondo, il mondo sarebbe un posto decisamente migliore. Sono sicuro che (Ed)orado Bennato sarebbe d'accordo.

Note a margine
Questa mini playlist è un piccolo estratto di quella che è stata selezionata in esclusiva per hvsr.net e che ancora continua a fare la sua porca figura, in costante evoluzione, sull'omonimo sito. La riportiamo anche qui, in fila per cinque con il resto di quel che avanza, per questioni di vanagloria, completezza e perché Spineless è come il maiale: non si butta via nulla. Ma soprattutto per non dimenticare, a perenne memoria di quei bei tempi andati in cui i mixtape si facevano a mano e gli algoritmi ci mettevano i bastoni tra le ruote solo durante le ore dei corsi di algebra.
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