HVSR Digest #29

HVSR Digest #29

Gli Zeus con Mike Patton, i Built to Spill alle prese con il fantasma di Daniel Johnston, Awolnation con Alice Merton, i Melt Yourself Down e Lorenzo Senni: non esattamente gente da concertone del Primo Maggio.

1 Maggio 2020

Zeus (feat. Mike Patton)

Human Fly

Mosca e dintorni

L'idea di "band" comunemente intesa non è propriamente morta — grazie al cielo — ma diciamo che non ce n'è più così tanto bisogno come un tempo. Nel senso che l'assunzione — una volta imprescindibile — che tutti debbano essere nella stessa stanza per comporre un pezzo è sorpassata da un bel po'. Tipo dal secolo scorso. Sicuramente da prima che tutta una serie di decreti antipandemia ne sancissero il divieto, mettendo di conseguenza nero su bianco anche l'esigenza di fare musica a distanza.

Questo per dire che sì, forse è solo l'impressione distorta da giorni e giorni di reclusione forzata, ma mai come in questo periodo sembrano piovere collaborazioni più o meno improbabili, realizzate con in mezzo spazi più o meno virtualmente oceanici. E ben vengano, sia chiaro, se l'alternativa deve essere l'ennesimo aperitivo su Skype.

Poteva quindi mancare all'appello il principe dei progetti paralleli come se non ci fosse un domani (e spesso anche senza un domani)? Colui che del "feat."" a tappeto ne ha fatto prima un'arte e poi una ragione di vita? Stiamo parlando di quel Mike Patton che è l'unica — vera e orgogliosa — mosca tzè-tzè della musica internazionale: imprescindibile e geniale ai limiti del fastidioso, come il prezzemolo ma meno profumato. Camaleontico, direbbero quelli per cui le parole non hanno (più) importanza.

Non stupisce nemmeno la rimpatriata emilana (lui che ha vissuto a lungo a Bologna) con gli Zeus! (da Imola con furore) e la scelta di affrontare di petto una canzone che basa la sua poetica su un concetto meno banale di quello che sembra, in giorni saturi di presunte informazioni — «I say buzz buzz buzz». L'originale era già abbastanza inquietante, ma qui l'interpretazione al solito parapsicopatica dell'ex frontman dei Faith No More — unita al folle math / prog-rock del duo Cavina / Mongardi e a un video che sembra uscito da un incubo di Gondry seviziato da Cronenberg — portano la cosa su un ulteriore livello di depravazione.

Sta su Really Bad Music for Really Bad People: The Cramps as Heard Through the Meat Grinder of Three One G, che è una sorta di sequel di quello che l'etichetta californiana aveva già fatto nel 2002 con i Queen e nel 2006 con i Birthday Party, però a questo giro dedicata a certi furfanti del CBGB noti come Lux Interior e Poison Ivy. Vede la partecipazione di gente del calibro di METZ, Chelsea Wolfe, Daughters (and so on) e la sensazione è che abbia un valore che va ben oltre il semplice autoerotismo sulla storia del punk.

Built To Spill

Life In Vain

Per ribadire che nessuna vita è invano

Lo sapevamo: sarebbe dovuta andare così — avrebbe dovuto essere l'ultimo (mini) tour di sempre. Cristo, ma non in questo senso. Cinque misere date, esclusivamente negli Stati Uniti, con il supporto di altrettante band scelte dall'infinito mazzo di quelle che "ha influenzato con la sua musica": Jeff Tweedy & Friends a Chicago, i Built to Spill a Portland e Vancouver, i Districts e i Modern Baseball a Philadelphia e i Preservation All-Stars a New Orleans. A voler ben vedere, così in effetti poi è andata: in ogni occasione il gruppo che lo ha accompagnato ha deciso anche la setlist e durante l'evento è stato proiettato il documentario del 2005 The Devil and Daniel Johnston.

In pratica, una specie di addio alle armi in cinque puntate sotto forma di sonorizzazione della sua stessa storia. Malinconico quanto complicato. Difficile, molto difficile. Ma pur sempre di un significativo viatico verso la pensione si sarebbe dovuto trattare. Mica in direzione cimitero. E invece.

E invece poi ti tocca fare i conti con quello che è rimasto. E quello che è rimasto sono i nastri di una sala prove: una manciata di cover venute particolarmente bene, che magari vale la pena di far uscire alla luce, anche solo per venire a patti con la triste necessità di dover dire addio al posto di ciao.

Il giro dei pensieri nella testa di Doug Martsch deve essere stato più o meno questo, e così ecco in arrivo Built to Spill Plays the Songs of Daniel Johnston, da cui è tratta una versione finalmente suonata da una band intera di quella Life in Vain che a suo tempo stava su Fun, lo sfortunato disco con cui Danny Boy (o chi decise per lui) tentò un timido e inutile assalto al mondo mainstream delle major nel 1994, mettendo le bozze che aveva in testa nelle mani di una produzione non dico degna, ma almeno che facesse uso di strumentazioni un minimo più evolute di un Sanyo Boombox da 59$.

Come ogni volta che ci si è avventurati in un'operazione del genere con l'opera dell'indiscusso — e probabilmente involontario — emblema dell'estetica lo-fi, la morale è sempre la stessa e ha qualcosa a che fare con la devastante potenzialità della composizione originale: delizioso bubblegum-pop se ci passi sopra una vernice patinata, killer-rock se premi il pedale dell'acceleratore con una punta di distorsione e una batteria che pesta alle spalle — vale (e soprattutto funziona) tutto.

Poi ovvio, al solito ci saranno quelli che storceranno il naso a prescindere, chiedendosi indignati: dove finisce la presunta, bambinesca "onestà" del personaggio quando l'approccio alle sue canzoni esce dai canoni di un ossequioso purismo di solitudine DIY? Ma quelli son fan(atici). Lasciateli perdere.

Awolnation (feat. Alice Merton)

The Best

Chiedere aiuto a un'influencer

Quando — quest'autunno, nei panni di primo singolo estratto dall'imminente Angel Miners & The Lightning Riders — fece capolino The Best, non sembrava avere più di due possibili chiavi di lettura: da un lato vendersi come ironica fonte di ispirazione un po' tamarra nell'ottica di prendersi cura di se stessi alzando sempre l'asticella delle proprie ambizioni, dall'altro una (poco) accidentale parodia di un certo presidente americano che non dà l'impressione di necessitare di ulteriori spinte al riguardo.

Poi invece è andata che — a rileggerne ora il testo, nel contesto attuale di virus aggressivi e chiusure forzate — il messaggio può suonare anche diverso. Parole come «Me I wanna walk a little bit taller / Me I wanna feel a little bit stronger / Me I wanna think a little bit smarter», nella loro immediata ingenuità, hanno il ritmo di un mantra per la sopravvivenza. O comunque ci ricordano il magico potere della musica quando si tratta di superare le barriere di qualunque crisi e farci sentire uniti nel momento del bisogno. Disse l'inguaribile romantico.

Sì, perché aggiungendo una punta di cinismo, non è difficile partire da altri — un po' più pratici — presupposti. Ovvero dal fatto che Aaron Bruno, l'obiettivo di diventare il migliore, non ha mai nascosto di averlo in cima alla lista delle cose da fare. E quale partner più adatto — per seguirne la scia ed eventualmente imparare qualche trucchetto — se non colei che in quest'ottica è già un bel po' avanti? Ecco, vi presento Alice Merton — vagonate di ascolti streaming e una metamorfosi da più cercata su Shazam a supereroina dello stardom europeo ormai certificata.

Sia chiaro, non che gli Awolnation non siano sulla buona strada (hanno già in cascina sette Top 5 — compresa una #1 — nelle radio alternative USA e discreti numeri di vendite e download, oltre a essere comparsi nelle colonne sonore di svariati film, serie TV e pubblicità), ma per arrivare ai 220 milioni di ascolti su YouTube che vanta No Roots ancora ne devono mangiare di minestra.

E allora, nell'attesa, godiamoci questa puntata di Alice e Bruno, che messa così pare il titolo di una favoletta animata per bambini (tipo Masha e Orso, ma meno russa) e invece potrebbe rivelarsi l'abbinamento più azzeccato della stagione.

Melt Yourself Down

Crocodile

Un incrocio tra il gabinetto del dottor Caligari e la cabina telefonica di Doctor Who

Dici "suonare post-punk col sax" e subito il pin di Google Maps si drizza dalle parti di Bristol, mentre la lancetta della macchina del tempo oscilla impazzita tra il '77 e l'81 — tradotto in due parole: Pop Group.

Di acqua ne è passata da allora sotto il ponte sospeso di Clifton e oggi qualunque sfiatata che trasformi l'ottone in oro pare debba transitare per forza attraverso i polmoni e la boccuccia di Shabaka Hutchings, che — tra i Sons of Kemet, gli Ancestors e i Comet Is Coming — si è meritato sul campo il monopolio di qualunque applicazione dello strumento al di fuori dei canoni del jazz classico.

I Melt Yourself Down sarebbero proprio il perfetto punto di contatto tra la band di Gareth Sager e l'ultima creatura del "King". E infatti — guarda caso — Shabaka stesso faceva parte della formazione originaria del gruppo. Poi si sa, due galli in un pollaio non possono durare granché e il pollaio in questione era quello dove il sassofono più lungo ce l'aveva Pete Wareham. Così la cosa ha preso una piega più punk che fusion. Anche se messa in questi termini suona parecchio riduttiva.

Sì, perché 100% YES è non solo il nuovo album dei sei londinesi (in gran parte acquisiti, nel nome della globalizzazione etnica), ma anche la sintesi di un obiettivo giudizio al riguardo. Parla di cose serie come il lato oscuro del colonialismo inglese in India, le parti insabbiate della tragedia di Grenfell, gli effetti devastanti di droghe russe molto in voga tra i ragazzini (la krokodil citata in questo pezzo). Il bello è che lo fa con un linguaggio che non si può descrivere a parole, a meno di non voler esagerare con un'overdose di etichette. Che ne so, tipo "punk jazz funk afrobeat blues hip-hop no wave free jazz dance psychedelic rock".

A saper disegnare, sarebbe più facile, forse. Verrebbe fuori la caricatura di Bobby Gillespie, coi rasta, il piercing al naso, un turbante tuareg in testa e in bocca — al posto di una canna — un qualunque strumento a fiato. Anzi, no. Meglio se insieme alla canna.

Lorenzo Senni

The Power of Failing

Il Kasparov dell'elettronica viene dalla Riviera

Dalla scena hardcore punk di Rimini al gotha dell'IDM internazionale. Pare un titolo clickbait wannabe da Gazzetta della Romagna e fa già ridere così. Eppure, volendo riassumere questa storia andando subito al sodo senza sprecarsi in fronzoli, è esattamente il verso che hanno preso le cose.

Una gavetta smanettata nel tragitto immaginario tra la sua cameretta di Cesena e MySpace, per finire a fondare un'etichetta d'avanguardia nel cuore urban di Milano, che ha da poco festeggiato il decennale con un takeover di una notte intera al Berghain di Berlino. Dopotutto si sa, la provincia è così: divisiva ma non troppo. Ti attieni alla filosofia straight edge in sala prove, ma poi al baretto giochi a Street Fighter con i gabber. Prendi tutto e porti a casa, senza discriminazioni. Vuoti il sacco sotto forma di sample appuntiti, ribalti la filosofia che vuole la dance mainstream focalizzata esclusivamente sul prossimo crescendo schiavo del knob delle LFO e da accompagnare con un'esplosione di coriandoli, ma alla fine riesci comunque a onorare la purezza dell'unico, vero risultato che si richiede all'electro — provocare la risposta più spontanea, intensa ed entusiasta in termini di movimento di culo.

E infatti se lo è preso la Warp. Lorenzo Senni, dico. Nel quartier generale della Spectrum House a Londra non si sono fatti troppi problemi a superare i pregiudizi a tema “italiani: piadina, mamma, mafia e mandolino campionato” e hanno messo il timbro sul suo ultimo lavoro. Ecco, se di Scacco Matto vogliamo parlare, The Power of Failing è la mossa astuta con la regina che viene un attimo prima: ficcare la melodia in un algoritmo intensamente percussivo, senza cadere nella tentazione di aggiungere campioni vocali o di batteria, perché così sarebbero buoni tutti.

Se ascolti bene, puoi vedere Manuel Göttsching che annuisce e — dietro le sue spalle — Richard D. James che ghigna come solo lui sa fare, in segno di assoluta approvazione.

Note a margine
Questa mini playlist è un piccolo estratto di quella che è stata selezionata in esclusiva per hvsr.net e che ancora continua a fare la sua porca figura, in costante evoluzione, sull'omonimo sito. La riportiamo anche qui, in fila per cinque con il resto di quel che avanza, per questioni di vanagloria, completezza e perché Spineless è come il maiale: non si butta via nulla. Ma soprattutto per non dimenticare, a perenne memoria di quei bei tempi andati in cui i mixtape si facevano a mano e gli algoritmi ci mettevano i bastoni tra le ruote solo durante le ore dei corsi di algebra.
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