HVSR Digest #28

HVSR Digest #28

Le figurine dei Ladytron, le fantasie di Against All Logic, le matrioske degli Ulver, i Sorry sempre puntuali e Yves Tumor con Diana Gordon: trova il pesce d'aprile!

1 Aprile 2020

Ladytron

Fugurine

Un confettino nichilista per addolcire la pillola mentre suonano le sirene dell'Apocalisse

Converrete su questo: nei profondi e accesi dibattiti su chi aggiungere alla lista dei maggiori innovatori in musica del ventunesimo secolo — in cui vi crogiolate un weekend sì e l'altro pure, appoggiati al bancone del bar del vostro localetto indie preferito — i Ladytron raramente sono al centro del discorso. Probabilmente per quel loro talento disarmante — che in passato hanno dimostrato sul campo — nello sfornare singoli quasi perfetti, pari quasi a quello — di cui forse avrebbero fatto volentieri a meno — di abbandonarli gradualmente ad appannarsi sulla lunga distanza di un disco intero, tra i solchi di quei due lati di vinile che da un po' avete ricominciato ad adorare come feticcio.

Eppure i tempi sono cambiati, ed è successo prevalentemente alla faccia vostra. O almeno è quello che stanno tentando di raccontarvi. L'album è morto, la fruizione musicale è diventata un bulimia "mordi e fuggi" e toh, guarda chi si rivede!

Sì, perché anche otto anni di silenzio non hanno certo aiutato a far sì che il quartetto di Liverpool continuasse ad orbitare attorno al nocciolo della questione. Ma poco importa. Come i migliori ecosistemi che si rigenerano dalle ceneri di un incendio o dalla melma di un'alluvione dopo una qualunque catastrofe naturale, Helen Marnie e compagni tornano ringiovaniti dalla loro stessa sopravvivenza. Il nuovo, omonimo lavoro sta a Gravity the Seducer come Velocifero stava a Witching Hour: la stessa idea, ma affilata come un coltello che ti lascia i segni addosso solo a pensarla.

In quest'ottica, Figurine potrebbe tranquillamente giocare il ruolo di una Destroy Everything You Touch distopica per tempi distopici: un seducente mix di melodia patinata e indie-rock sinteticissimo, figlio di un appuntamento su Tinder in cui gli Human League danno buca ai Sister Of Mercy, giusto un attimo prima della fine del mondo. Ovvero quella cosa che venti anni fa avete ghettizzato come electroclash al femminile e invece poteva essere il futuro del pop.

Ecco perché vi meritate i Chvrches.

Against All Logic

Fantasy

Il Dorian Gray dell'elettronica moderna ha in soffitta un ritratto che suona la techno al posto suo

Andrew Weatherall è morto, i Massive Attack fanno un coro ultras con Liberato e anche io non mi sento molto bene. Fortuna che c'è Nicolas Jaar.

Mezzo cileno, mezzo americano. Compositore a tutto tondo e field recorder ossessivo, ancora prima che producer di successo. Bipolare certificato dalla personalità musicalmente sdoppiata — o forse solo stanco della puzza di spocchiosa elettronica per palati fini che coloro che il palato fino vorrebbero millantare di averlo in genere attaccano addosso alle cose che fanno fatica a capire — lascia questi ultimi a trastullarsi con il suo nome ufficiale e, quando capita, mette su la maschera di un alias per scendere a sporcarsi le mani con le consolle dei peggiori dancefloor di Caracas.

Così nasce Against All Logic, moniker alternativo con cui va per locali a far ballare la gente di bocca buona: ritmiche industriali, effetti sonori catturati sul campo e campioncini mainstream deliziosamente paraculo. Il tutto condito da un gusto per la distorsione tutto suo, inconfondibile. Prendete Fantasy: downbeat-pop caotico e vorticoso per grattare via la polvere dai subwoofer e un sample tratto da una collaborazione del 2003 tra Beyoncé e Sean Paul ad alzare la posta in quello che sembra sul serio un ritornello.

A nome AAL — se ci scappa l'occasione — escono ogni tanto pure dei dischi, che non badano troppo al copywriting del titolo ma vanno comunque a coprire un'ipotetica timeline senza lasciare buchi spazio-temporali. Per ora infatti registriamo 2012-2017 e 2017-2019, ovvero robe che sanno di scritte sugli scatoloni pronti per un trasloco o di ricordi catalogati in soffitta, e invece.

Spiegata senza troppi fronzoli, come si farebbe con un bambino dell'asilo: due potenziali raccolte di scarti che sono — allo stato attuale delle cose — tra i migliori album di elettronica da club degli ultimi dieci anni. Il che la dice lunga sull'abisso che separa la maestria di questo signore dal livello medio dei suoi colleghi e contemporanei. Se non si fosse capito, stiamo parlando di svariati ordini di grandezza. E sì, lo so: era un paragone impietoso già in partenza, ma qualcuno doveva pur farlo.

Ulver

Russian Doll

La sottile linea nera tra la trollata e il genio

Kristoffer Rygg è il Mike Patton del black metal, ma meno autoreferenziale: uno che nella vita ha fatto — musicalmente parlando — di tutto, ma che se poi gli chiedi qual è la cosa di cui va maggiormente orgoglioso in un percorso più che ventennale ti risponde «il nostro disco di cover del 2012».

La sua creatura Ulver, negli anni, ha vestito i panni — ogni volta con successo, tra l'altro — di un'orchestra di oscuro folk scandinavo, di un combo di jazz-techno avant-garde, di un progetto estemporaneo per la colonna sonora di un film minimalista, di una cover band di pezzi garage anni Sessanta, di un ensemble specializzato in ambient-drone e di qualche altra cosa che mi sono perso nei momenti in cui ero distratto.

Non che il fatto stupisca più di tanto: dopotutto la comunità norvegese più estrema si è sempre rivelata un terreno fertile per chi ha sentito il bisogno di sperimentare e perfezionare stili e soluzioni innovative e non ha mai serbato troppo rancore — al netto delle ben note vicende a base di accoltellamenti, morti ammazzati e incarcerazioni, le cui origini sono in ogni caso ancora tutte da definire e vanno sicuramente oltre un banale risentimento da "svolta pop" — a chi si è voluto allontanare dalle sue radici brutali e rumorose.

In questo senso, Russian Doll mette sulla questione un carico da novanta e porta il dibattito "has black gone pop?" al livello di raffinatissima matrioska. Mixata da Michael Rendall e Martin Glover (due che sul tema "come plastificare il metal" potrebbero farci un corso universitario), sconfessa l'immeritata fama di superficialità dei synth con contenuti ispirati al film di Lukas Moodysson sul traffico di esseri umani (Lilja 4-Ever), mentre Annija Raibekaze ci balla sopra come una Britney Spears qualunque, indossando però la maglietta di Bergtatt: et Eeventyr i 5 Capitler e un chiodo di pelle dei Coil.

Puoi guardarla senza audio e immaginare che sia un nuovo pezzo dei Darkthrone, oppure ascoltarla senza sbirciare il video e gioire del fatto che i Depeche Mode finalmente abbiano scritto la canzone che aspettavi da un po'. Cosa vuoi di più dalla vita?

Yves Tumor (feat. Diana Gordon)

Kerosene!

Trasformismo pop: primitivo, esuberante, carnale

Sean L. Bowie ha un nome (e soprattutto un cognome) pesante, di quelli che è meglio nascondere dietro a un moniker per non suggerire paragoni complessi. La sua fortuna è che ha pure tutto il talento necessario per reggerne il fardello a prescindere. Normale quindi che tocchi a lui farci notare l'ovvio, e cioè che un genere musicale altro non è che un corpo e che, se dentro a quel corpo ti senti imprigionato, l'unica via d'uscita è ridefinirne l'essenza.

Così, se quel meraviglioso, indefinibile capolavoro di Safe in the Hands of Love stracciava l'hype di un termine come gender fluid, applicandolo contemporaneamente ai concetti di "pop" ed "elettronica" solo per sciogliere il tutto in un unico magma incandescente, l'imminente Heaven for a Tortured Mind sembra voler dare l'ennesima sterzata a una carriera volutamente fatta di tornanti e scalate in solitaria a coraggiosi gran premi della montagna seguiti da discese a rotta di collo verso solo lui sa dove.

Il fatto è che, nei suoi panni, la trasformazione brachettiana da rumoroso producer sperimentale a cantautore trascendente alla (tutto torna, alla fine) David Bowie sembra la cosa più naturale del mondo: gli è concesso, non stupisce, perché funziona e gli viene meglio degli altri.

Prendete Kerosene! — un duetto a dir poco psichedelico con Diana Gordon (quella che una volta si faceva chiamare Wynter Gordon ma ora rispolvera orgogliosa il vecchio nome dell'anagrafe), dove entrambe le voci non fanno che rincorrersi disperatamente, mentre cercano senza sosta di diventare, anche solo per un attimo, l'una l'altra. Caos o ordine in costante (dis)equilibrio, chitarre che se ne vanno per i fatti loro (ma sempre nella direzione di una nuova moderna idea di Prince 2.0) e la sensazione fissa che la cosa stia progressivamente crescendo verso un climax che invece rimane solo un'affascinante ipotesi autodistruttiva.

Un inno alla codipendenza — tra lui e lei, tra autore e ascoltatore, tra musica e il suo presunto significato — che non è mai suonato così groovy.

Sorry

Right Round the Clock

Gente da prendere sul serio anche se fa di tutto per non essere presa sul serio

Asha Lorenz e Louis O'Bryen trasudano da tutti i pori la stessa irresistibile combinazione di sarcasmo, genio mascherato da stupidità ammiccante e costante sospetto che ti stiano prendendo per il culo che attraversa tutti i loro pezzi. Fosse solo questo, l'impulso sarebbe quello di lasciar perdere. Il fatto è che ti piantano sottopelle un tarlo che prude così tanto che senti di non poterti permettere nemmeno il minimo beneficio del dubbio. Perché se invece stessero facendo le cose sul serio, le starebbero facendo così bene che sarebbe un peccato mortale non dar loro l'attenzione che meritano.

Per dire, sono giusto al debutto, eppure si comportano come delle scafate rockstar di lunga data, anche se il costume da Elvis Presley che ricorre nei loro video sa più di scherzo di Halloween che di vera e propria volontà di impersonificazione. Onnivori ma sempre austeri sotto i baffi, hanno assorbito tutto quello che si sono trovati anche solo a sfiorare e rimescolato ogni cosa (post-punk, pop, jazz) in una personale — ironica ma del tutto consapevole — aggiornatissima versione di quello che una volta si chiamava indie rock.

Right Round the Clock è solo un esempio a caso. C'è il groove degli anni Sessanta, un ritornello sexy pronto per uno spogliarello nel peggior night club e il solito sguardo lascivo da educande della chitarra. Ti immagini subito il Mike Patton di Evidence che balla con Sophie Ellis-Bextor,

Poche giovani rock band sanno mettere nero su bianco la loro ambizione a diventare un cliché con questa chiarezza spudorata. Ma d'altra parte poche rock band odierne sono ambiziose come questa. I Sorry adorano prendersi per il culo e prendere per il culo la storia della musica tutta, ma dimostrano di avere il talento per poter andare oltre la semplice gag. Se poi siete di quelli che non sanno stare al gioco e sostengono che dovrebbero invece scusarsi di tanta sfrontatezza, forse non avete visto bene come si chiamano.

Note a margine
Questa mini playlist è un piccolo estratto di quella che è stata selezionata in esclusiva per hvsr.net e che ancora continua a fare la sua porca figura, in costante evoluzione, sull'omonimo sito. La riportiamo anche qui, in fila per cinque con il resto di quel che avanza, per questioni di vanagloria, completezza e perché Spineless è come il maiale: non si butta via nulla. Ma soprattutto per non dimenticare, a perenne memoria di quei bei tempi andati in cui i mixtape si facevano a mano e gli algoritmi ci mettevano i bastoni tra le ruote solo durante le ore dei corsi di algebra.
HVSR Digest #27
L'insostenibile pesantezza dell'essere i Radiohead