Una storia di calcio, ma solo marginalmente. Una storia di stanchezza, piuttosto. Di quando la distanza è troppa per colmarla di gioia e allora ti arrangi con quel che passa al convento.
26 Agosto 2006
Il problema è che a volte la gioia ti prende proprio dal lato che le tue difese immunitarie hanno lasciato momentaneamente sguarnito: si insinua dentro e non la riprendi più. Puoi provare a rincorrerla, ma è fatica sprecata: hai perso l'attimo e il tuo autocontrollo è come un portiere che si guarda sotto le gambe e vede il pallone appoggiato in fondo alla rete. Gol.
Fu proprio nel momento in cui la palla, malata di uno strano effetto roto-traslatorio, sbatté sul palo e rimbalzò oltre quella riga maledetta (o benedetta, dipende dalla vecchia storia dei punti di vista — sacrale, in ogni caso) che successe.
Vista dagli spalti, con quello strumento inutile noto al grande pubblico come il "senno di poi", fu una scena del tutto insensatamente asimmetrica: nella colonna sonora di uno di quei boati che solo uno stadio sa mettere insieme, un pulviscolo di puntini che si dirigono impazziti tutti verso la stessa direzione mentre un altro — uno solo — sfugge a questo improvvisato processo di aggregazione di particelle per avvicinarsi, lentamente... a cosa?
Ci sono momento, nella vita, in cui non sei dove vorresti essere, o solo sei troppo lontano da dove vorresti essere: vedi quello che vorresti ti succedesse a poca distanza e in quello che vedi manchi proprio tu. Sa di beffa, e ci deve essere un modo per recuperare una fetta di tempo perduto, pensi.
Ci deve essere.
C'era una volta un calcio in cui i difensori difendevano. Punto. Uno sport estinto in cui, se la sorte aveva avuto la malaugurata idea di appiccicarti sulla schiena un numero minore o uguale al 6, potevi giocare decine di partite senza superare la linea di centrocampo: non era richiesto, anzi, era tacitamente sconsigliato. Capitava spesso, allora, se la sorte aveva avuto quell'idea storta di chiamarti terzino, di vederli che si abbracciavano, da lontano.
Oggi non succede più. Sarà colpa della marcatura a zona, dell'idea di calcio totale o forse solo della globalizzazione: fatto sta che un difensore che non sale (per dirla in gergo tecnico) puzza di foto in bianco e nero.
Deve essere stato per questo che, nelle interviste del dopopartita, non si sottrasse alle domande dei cronisti e, come un bambino, con l'unica naturalezza con cui si può coltivare una logica in un gesto privo di senso, spiegò:
Ci sono arbitri — e sono i più grandi — che hanno la capacità di affogare le situazioni nel loro contesto, per gestirle nella giusta misura, e agiscono di conseguenza. Il signor Charmundia (federazione argentina, sezione di Buenos Aires) rimase un attimo perplesso, poi gli appoggiò una mano sulla testa, come una carezza sobria — se mai una carezza può esserlo — e continuò a indicare il centrocampo, mentre sussurrava, nella sua lingua: «Roba da matti». Successivamente, circa un'ora dopo, ritenne giusto argomentare meglio e parlò lentamente, scandendo bene le parola, ai giornalisti che aveva di fronte:
La foto fece il giro del mondo: un ragazzone di un metro e novanta inginocchiato accanto a un signore piccoletto e un po' stempiato, le braccia strette intorno alla vita, la testa dell'uno appoggiata (meglio sarebbe dire lasciata andare) sul petto dell'altro. Il tutto in mezzo a un campo di calcio, immenso come la Germania intera, in quel preciso istante: sta lì, il punto. Ogni TV mandò quei quattro frame in loop fino alla nausea, eppure nessuno ebbe il coraggio di caricare la scena di significati che non aveva.
Perché anche i più subdoli sono disarmati di fronte alla purezza della spontaneità. Per la bellezza, dell'idea in sé. Perché tutti, almeno una volta nella vita, siamo stati troppo stanchi per fare la cosa giusta, quella sarebbe rientrata nell'anormalità delle cose. E Dio sa quanto avremmo voluto, in quel momento, avere a portata di mano un arbitro qualunque.
Da poter abbracciare.