HVSR Digest #13

HVSR Digest #13

Kurt Vile, gli Esterina, i Desire, Giorgio Canali e i Giardini di Mirò: cinque pezzi buoni per vivere tutti (in)felici e contenti dopo la festa dei morti travestiti male.

6 Novembre 2018

Esterina

Santo amore degli abissi

Una donna minore e la band più sottovalutata d'Italia

Ci sono band che hanno il successo che si meritano, altre che riempiono i palazzetti ma non ci si spiega come, un bel po' di gente che è giusto non si fili nessuno… e poi ci sono gli Esterina.

La formazione toscana — a dispetto di un catalogo che vanta ormai quattro album costantemente al di sopra della media nazionale — sembra disgraziatamente rimasta bloccata sotto il cono d'ombra della propria bravura, vittima consapevole della sua stessa coerenza, come un minuscolo segreto nascosto, custodito gelosamente da pochi, affezionati adepti.

Sarà per il nome, che ci riporta alle nostre nonne, piccole grandi donne di un'Italia minore, e che volutamente prende le distanze dai battesimi roboanti di un certo immaginario rock. O forse per il fatto che in questo paese, se da un lato sei arrivato troppo tardi per salire sul treno degli anni '90 (quando l'alternative italico si convinse — probabilmente invano — che poteva sul serio cambiare le carte in tavola) e dall'altro rifiuti per scelta di cadere nella trap(pola) di un generico, attuale it-pop, semplicemente finisci in quella terra di nessuno dove tutti ti guardano da una certa distanza di sicurezza, a metà tra il diffidente e il sinceramente rammaricato, nemmeno fossi un animale esotico dietro le sbarre di uno zoo.

Fatto sta che gli Esterina è dal 2008 che scrivono canzoni per esseri umani (vale a dire roba viva, passionale e oculatamente imperfetta), ma si son dovuti rassegnare a scriverlo nel titolo di un album, visto che da queste parti le cose o si spiegano come a un bambino di quattro anni oppure si diventa subito radical chic.

Canzoni che hai bisogno di far macerare dentro per apprezzare appieno, vestite di un intricato groviglio di sonorità che va dal'indie americano alla Versilia, da un certo tipo di cantautorato colto nostrano a un post-rock d'oltremanica storicamente strumentale (i suoni di Santo amore degli abissi — non a caso mixato da Gareth Jones — starebbero senza problemi in uno degli ultimi album dei Mogwai), ma che qui invece viene raccontato da una voce atipica, che si muove pericolosamente in equilibrio tra la melodia e la stonatura, senza mai però precipitare dalla parte sbagliata. Briciole di significati intensi lasciate cadere lungo il cammino, a uso e consumo di chi — nell'ordine — sa riconoscerle, vuole capirle e ha la pazienza di piegarsi a raccoglierle.

Perché è vero che, in generale, la vita è bella quando fa come gli pare e fin che la barca va tocca accontentarsi, ma per andare a pescare la tua personale moneta sul fondo dell'oceano, un minimo di impegno ce lo devi mettere. Almeno trovare il coraggio di buttarti anche se l'acqua è gelata, trattenere il fiato finché puoi e sgranare bene gli occhi contro la salsedine, in modo da essere sicuro di non perderti quel poco di bello che ti galleggia intorno.

Vedrai che non sono solo stronzi.

Desire

Tears From Heaven

Il nuovo singolo dei Chromat… ah, no

Pur di trovare una scusa per ritardare l'uscita del nuovo disco dei Chromatics, Johnny Jewel è disposto a qualunque cosa: rischiare di morire alle Hawaii, distruggere tutte le copie fisiche dell'album e registrarlo di nuovo da capo, partecipare alla colonna sonora del nuovo Twin Peaks, dedicarsi a un disco solista di temi per la TV, perder tempo a cercare di imbucarsi nel backstage della Paris Fashion Week.

L'ultima vi mancava? Eppure è successo sul serio. Per farlo ha addirittura riesumato, dopo quasi dieci anni, i suoi Desire (che in fin dei conti sono lui, Nat Walker e Megan Louise, ovvero i Chromatics con alla voce una tipa diversa da Ruth Radelet, ma altrettanto carina — quindi, per il momento, accontentiamoci) e fatto uscire un singolo nuovo di zecca che ha visto la sua première durante la sfilata parigina di Chanel.

Messa così non suona nemmeno malaccio, anche se forse ci siamo fatti prendere un po' troppo dall'entusiasmo. "Nuovo di zecca" infatti si fa per dire, visto che Tears From Heaven (che no, non è un remake che fa piovere giù dal paradiso tutte le antiche lacrime di Eric Clapton) era già uscita nel 2013 come parte della compilation che faceva da colonna sonora per After Dark 2.

La nuova versione è la chirurgia plastica patinata dell'originale, perfetta appunto per il sogno glitterato di una passerella primavera/estate e impreziosita da un'ammucchiata molto sexy di quei synth retrò che ormai sono un marchio di fabbrica Italians Do It Better, l'etichetta che il produttore americano ha creato per potersi definitivamente isolare dentro il suo (la vita va proprio al contrario, a volte) "sogno italiano": un passato futuristico (più surreale che reale) che se volete potete chiamare italo dream-pop, in cui Moroder sarebbe stato presidente della Repubblica, Milano capitale da bere e Discoring l'unica fonte di (fake) news attendibile. Un mondo ottimista e disinibito dove Carol Alt aveva ancora meno di quarant'anni, Marina Ripa di Meana era ancora viva e i nostri connazionali, non si sa bene cosa, ma la facevano sul serio meglio di tutti gli altri.

Per ora disponibile solo in versione digitale, tutti ci chiediamo se questa possa essere l'anticipazione di un imminente secondo album della band. Domanda tanto inutile quanto retorica, visto che, come sempre quando si tratta di Johnny Jewel, la risposta è una sola: vai a sapere.

Giardini di Mirò

Different Times

Senza parole, ma anche senza immagini

Quante volte avete detto, riferendovi a una delle nostre band a chilometro zero, «Ah, se questi fossero americani» (o inglesi o aggiungete una nazionalità a caso purché anglofona) «sarebbero universalmente riconosciuti come uno dei migliori gruppi nel loro genere». Ecco, i Giardini di Mirò sono quella band. Anzi, qualcosa di più. Perché la formazione reggiana è davvero universalmente riconosciuta come una delle migliori nel suo genere. Anche (e soprattutto) all'estero, nonostante vengano da Cavriago, che non si presenta propriamente come la metropoli di grande respiro internazionale che si potrebbe pensare una volta scoperto essere l'unico posto in Italia che può vantarsi di ospitare un busto di Lenin e la casa natale di Orietta Berti.

Dall'ultimo, ottimo Good Luck — se si esclude la sonorizzazione del film muto Rapsodia Satanica — sono passati sei anni. Sei anni in cui i nostri non sono stati con le mani in mano: Jukka Reverberi ha messo su e fatto crescere (un album, un disco live e un EP) il progetto Spartiti insieme a Max Collini degli Offlaga Disco Pax, Corrado Nuccini ha realizzato (con l'altro GdM Emanuele Reverberi) il primo full-length dei Vessel e girato tutto lo stivale seguendo Emidio Clementi dei Massimo Volume nei suoi reading (Notturno Americano, Quattro Quartetti), gli altri sono stati sicuramente occupati in qualcosa d'importante che va sotto la voce "fatti loro".

Tornano — tutti insieme, adesso — con Different Times, un nuovo lavoro che ha un'etichetta (42 Records) ma non ancora una data d'uscita ufficiale e un tour che è appena partito (giusto per confermare il discorso di cui sopra) non dal circolo ARCI di Bibbiano, ma dall'AMFEST di Barcellona, i cui organizzatori li definiscono appunto «One of the most influential bands that has ever existed in Europe in this genre».

Il genere in questione è prevalentemente strumentale e lo chiamano post-rock, che suonerebbe anche fico, come nome, non fosse che — alla stregua di post-punk o qualunque altro post-genere musicale — non vuol dire niente, perché la verità è che non si può pensare a qualcosa di più stupido che traslare una definizione cronologica in una caratterizzazione estetica.

E allora ben venga una title-track non solo muta ma anche cieca, con il suo non-video (battezzatelo post-video, se vi piace di più — per rimanere in tema) che si snoda immobile in un lungo countdown del pezzo verso la sua stessa fine: il modo migliore per prendere il tempo che un tempo scorreva senza parole, e raccontarlo oggi, nel tempo in cui l'immagine è tutto, anche senza immagini.

Kurt Vile

One Trick Ponies

Senza ritornello, ma anche senza strofe

Se una certa idea di folk americano è riuscita a mettere la testa fuori da specifici pub dell'Arizona e a far breccia nel vago recinto dell'indie-rock — risultando in qualche modo attuale anche dopo la morte di Woody Guthrie e il Nobel a Bob Dylan — una buona parte del merito va sicuramente a Kurt Vile. L'ex War On Drugs infatti — bisogna dargliene atto — ha un fiuto da cane da tartufo per quei riff semplici e puliti che sono capaci di non annoiarti per qualche giro di lancetta (la lancetta dei secondi, dico — non vi spaventate) e così riescono, da soli, a fare una canzone.

D'altra parte, se madre natura è stata così didascalica (per non dire sadica) da darti, oltre che la nappa di Gérard Depardieu, anche una voce a dir poco nasale, è giusto che tu possa sfruttare la cosa a tuo vantaggio in altri modi. Non tutto il male vien per nuocere, credo sia il detto da tirare in ballo in questo caso.

E pensare che l'imminente Bottle It In era stato annunciato da un primo singolo come Bassackwards e dai suoi quasi dieci minuti di logorrea che avevano subito provato a mandare in vacca tutta la traballante teoria di cui sopra. Fortuna che, subito a seguire, arriva One Trick Ponies, una menestrellata elettrica che, per compensare, porta invece quella stessa teoria alle sue estreme conseguenze. Qui infatti il riff in questione è semplicissimo e pulitissimo e, soprattutto, da solo, fa davvero tutta la canzone, che incredibilmente riesce a mantenere la prova d'ascolto nei limiti della soglia di attenzione pur essendo, di fatto, costituita da un'unica, infinita strofa che fa della monotonia esasperata la sua carta vincente.

O forse si tratta di un unico (infinito) ritornello? La risposta è strettamente soggettiva e dipende sostanzialmente dallo stato d'animo con cui si entra nel loop dopo quell'«Oh, shit!» iniziale (tanto sbracato da risultare semplicemente delizioso).

Rimane il fatto che quando — mentre ascolti un pezzo e ti fermi un attimo a far mente locale — non sei capace di distinguere in quale parte della classica forma-canzone ti trovi, delle due l'una: o chi l'ha scritta ha sbagliato mestiere, oppure lo sta facendo fin troppo bene. Il sospetto di trovarsi nel secondo caso, da queste parti, è abbastanza forte.

Giorgio Canali & Rossofuoco

Emilia parallela

L'ottimismo è il sale della vita, ma la merda è sapida di suo

Il problema di questi tempi storti è che la gente parla, parla, parla e non smette mai, anche se ha perso le parole. Per questo Giorgio Canali è sempre così incazzato: deve essere qualcosa che ha a che fare con il disagio che ti sale dentro nell'affrontare il mestiere di campare in un mondo del genere, a maggior ragione se sei uno che entra in studio solo quando sente di aver qualcosa da dire, quando hai voglia te e non quando vogliono gli altri. Uno che altrimenti sta zitto.

E zitto, l'ex CCCP/CSI c'è stato ben sette anni (se si esclude quel Perle per porci, che però era un disco di cover e quindi non vale), un periodo che — vista la velocità a cui frullano le opinioni al giorno d'oggi — sarebbe più che sufficiente a dimenticarci dove eravamo rimasti. Ma Giorgio Canali non è il tipo che perde il filo del discorso facilmente e infatti riparte esattamente da dove ci aveva lasciato, ovvero da uno dei versi della traccia di chiusura di Rojo («Come se avessimo bisogno di un'altra canzone di merda con la pioggia dentro»).

Poi va da sé che, nel frattempo, non è che le cose siano migliorate. Anzi: lo schifo non ha fatto che accumularsi lungo i bordi delle nostre strade fino a tracimare nella carreggiata al primo accenno di maltempo e allora le canzoni di merda con la pioggia dentro son diventate undici e hanno riempito un disco che — senza particolari sussulti né sorprese — risulta crudo e sarcastico ai soliti, estremi livelli, cinico, disilluso e spiazzante come e più di prima.

Così quell'Emilia che per Ferretti era stata paranoica e con Zamboni si era trasformata in parabolica, diventa ora prima paracula e poi paralitica nel giro di due versi, ma soprattutto costantemente parallela fin dal titolo, specchio di un paese alla frutta che non ha nemmeno la lungimiranza di rendersene conto, fatto di gente evidentemente distrutta e consumata, ma ancora convinta che è un po' che non s'annoia.

Insomma. A sentir qua, la speranza per un futuro migliore ha preso ormai stabilmente residenza su un altro pianeta. Su questo, al momento, quello che riecheggia è il grido pungente e spinoso di un sessantenne scavato e smunto, eppure mai domo.

Qualcuno pensa sia una sorta di denuncia. Magari è solo una terapia.

Note a margine
Questa mini playlist è un piccolo estratto di quella che è stata selezionata in esclusiva per hvsr.net e che ancora continua a fare la sua porca figura, in costante evoluzione, sull'omonimo sito. La riportiamo anche qui, in fila per cinque con il resto di quel che avanza, per questioni di vanagloria, completezza e perché Spineless è come il maiale: non si butta via nulla. Ma soprattutto per non dimenticare, a perenne memoria di quei bei tempi andati in cui i mixtape si facevano a mano e gli algoritmi ci mettevano i bastoni tra le ruote solo durante le ore dei corsi di algebra.
Tra conigli e conigliette
(Quasi) morte