La favola di Nico e Cristina. Un talento tutto particolare minacciato da seri problemi etici, amore a fiocchi e l'importanza di avere sempre una sciarpa a portata di mano.
12 Gennaio 2007
Nico non è che sapesse fare molte cose, nella vita. D'altra parte, nella breve analisi appena fatta, si è trascurato un particolare non irrilevante, come tutti i particolari, del resto: Nico aveva quattro anni, nel periodo storico di cui si narra. In quattro anni, con tutta la buona volontà, ne puoi imparare due, massimo tre, di cose. Di cose a farle bene, dico.
Nico c'era una cosa che la sapeva fare parecchio bene, nella vita: i pupazzi di neve. Che non son cose da tutti, i pupazzi di neve fatti bene: un artista, a modo suo. Ma non quel tipo di artista che pensa solo alla sua arte, si nutre e vive di quella e lascia agli altri tutto il resto: non un artista di quelli "non ti curar di lor ma guarda e passa", come diceva il proverbio. Che poi non era un proverbio ma ora a me non mi pare proprio il caso di stare a sottilizzare che siam qui per parlar d'altro.
No: lui, Nico, si poneva seri problemi etici. «Vedi» soleva dirmi. "Soleva", fa troppo letteratura: non ho resistito. Insomma, soleva dirmi «Vedi, che ne so». "Che ne so" era l'intercalare preferito di Nico, lui che sapeva fare i pupazzi di neve, ma nella vita si sentiva così insicuro, che non lo sapeva mai, lui, nella vita. «Vedi» soleva dirmi, «che ne so: un muratore mette dei mattoni, lavora per giorni e poi, anni e anni dopo, quando ripasserà di lì, vedrà il prodotto del proprio lavoro. Una casa, dove alcune persone ridono, parlano, fanno l'amore, vivono...», che io no lo so, cosa intendesse Nico — quattro anni ai tempi di cui si scrive — con "fare l'amore", ma vabbè.
Continuava, poi: «Un panettiere si alza la mattina presto, quando tutti dormono, per preparare il pane con gli occhi assonnati, che se c'hai gli occhi troppo svegli non vien mica bene, il pane. Ma lo fa sapendo che dopo poche ore qualcuno entrerà da quella porta e lo comprerà, ci mangerà col suo pane, magari dopo aver fatto l'amore, che a fare l'amore viene una fame che non ti dico», mi diceva invece, Nico.
E dopo andava avanti, che gli sembrava di non averlo spiegato ancora per bene, questo suo dramma etico-esistenziale: «Che ne so: lo spazzino si spacca la schiena per pulire in terra, ma sa che tutte le persone destinate a passare — volenti o nolenti — da quelle parti, saranno ben contente di camminare su un marciapiede pulito e questo renderà loro più gradita la restante parte della giornata, e magari capita che quando tornano a casa son così contenti che gli prende una voglia matta di fare l'amore. Devo continuare?»
Io gli dicevo che no, non doveva continuare, ma non per maleducazione: è che mi pareva si rischiasse l'impasse ad andare avanti con tutta una serie di esempi sempre più espliciti in cui la gente in qualche modo faceva di continuo l'amore.
«Insomma», concludeva, «per chi studio io tutto il giorno?»
Che lui, ogni volta che c'era un briciolo di neve, si metteva lì e si esercitava per ore e ore, cercava nuove soluzioni nel bilanciamento dei pesi, ponderatio che rasentavano il virtuosismo che nemmeno il discobolo, diverse interpretazioni della regola aurea della scultura contemporanea: "per fare un pupazzo di neve si necessita di tre palle, di neve s'intende, agglomerati sferoidali di superficie, e conseguentemente volume, decrescente dal basso verso l'alto" – cfr. "Mille Modi per Combattere il Freddo", manuale utilissimo in svariate occasioni, scritto negli anni '70 dallo studente Carlo Angiolini nelle notti insonni sprecate dentro al gelo di un sacco a pelo durante l'occupazione di un noto centro sociale; insomma, c'aveva del talento, Nico, per i pupazzi di neve, questo va detto
Per fare un pupazzo di neve si necessita di tre palle, di neve s'intende, agglomerati sferoidali di superficie, e conseguentemente volume, decrescente dal basso verso l'alto.
Citazione presa pari pari da Mille modi per combattere il freddo, manuale utilissimo in svariate occasioni, scritto negli anni '70 dallo studente Carlo Angiolini nelle notti insonni sprecate dentro al gelo di un sacco a pelo durante l'occupazione di un noto centro sociale a Bologna.
Farla breve: c'aveva del talento, Nico, per i pupazzi di neve, questo va detto.
«Per chi o per cosa mi sfinisco su questo materiale bianco e maledetto, mi ci arrabbio, gli do vita. Questo materiale meraviglioso e caduceo, che non fai in tempo a completare l'opera e già lei inizia a scomparire, che metti il naso al pupazzo e già la base è diventata acqua, porco bastardo di un effetto serra che finirai per far estinguere i pupazzi di neve, brutto buco nell'ozono di merda, ti venisse un colpo a te e a tutti quelli che usano le bombolette spray, che fanno pure schifo a sentire l'odore.»
Che poi quando si infervorava, Nico, diventava pure un po' sboccato, che si sa, le parolacce, a quattro anni: eh, sai quante parolacce hai imparato a quattro anni? Un'infinità, di parolacce, a quattro anni.
«Alla fine della fiera, a cosa serve tutto questo? A chi giovano tutte le sciarpe che faccio fare alla nonna, che Dio l'abbia in gloria, che se mi muore son nei casini, che alla Standa mica le trovo le sciarpe belle come quelle della nonna, alla Standa.»
Ecco: le sciarpe.
C'era la nonna di Nico (che Dio l'abbia in gloria) che passava le nottate — dritto, rovescio, ferri e lana — a fare le sciarpe: una sciarpa a notte. Annodava i fili per chiudere l'ultimo punto e poi la lasciava sulla poltrona vicino al caminetto. La mattina presto Nico passava, prendeva la sciarpa della sera prima, e usciva.
Mettetevi ora nei panni di suo padre, che, per la precisione, era pure il figlio della nonna, che le parentele funzionano così, se non sbaglio: io che non c'ho mai capito niente, nelle parentele. Insomma, il papà di Nico che vedeva tutte le notti sua madre srotolare delle sciarpe di cui poi la mattina dopo non c'era più traccia. Ecco, lui gli veniva quasi da pensare che ci fosse dietro una storia tipo quella di Penelope. Penelope di Ulisse dico, che il giorno tesseva la tela e la notte la disfaceva. Che poi quella storia lì era in Grecia, che in Grecia c'è un caldo della madonna mi hanno detto e non si capisce cosa se ne farebbero delle sciarpe. Sì, deve essere per quello, per questa cosa del caldo della madonna, che suo papà, il babbo di Nico, non se l'è mai spiegata questa faccenda che la nonna passava le nottate a sferruzzare ed è andato avanti tutta la vita a dirle che lei, alla sua età, non era nemmeno un bell'esempio a fare sempre le ore piccole per combinare chissà cosa poi.
Insomma, Nico girava sempre con queste sciarpe, ogni mattina una diversa, al collo. Ma mica per sé. No. Per il prossimo pupazzo che avrebbe fatto. Che c'era sempre il rischio, a passeggiare per la via, di trovarsi di fronte l'opportunità di farne uno così su due piedi, all'improvviso: diceva che la neve si trova, le sciarpe invece meno, e vanno portate noi, quando si fanno i pupazzi, che senza sciarpa non c'è verso di fare un pupazzo. Era fondamentale la sciarpa, diceva.
«L'hai mai visto un pupazzo senza sciarpa?» «No», rispondevo io, mentendo: che io li avevo visti i pupazzi senza sciarpa, ma eran così brutti che non si potevano guardare. C'aveva ragione, Nico: un pupazzo senza sciarpa non è un pupazzo decente. Torniamo comunque ai problemi che lo assillavano, a Nico, che era lì il punto.
«Ma mi spiego? Che ne so: se domani improvvisamente per un giorno sparissero tutti gli operatori ecologici o tutti i panettieri fossero in sciopero, sai che disastro!»
Si spiegava eccome, che sarà che lo conoscevo da quasi una vita (tre anni e mezzo a quei tempi), ma capivo dove voleva andare a parare: mi immaginavo infatti uno sciopero di tutti quelli che in tutto il mondo, abitualmente, fanno pupazzi di neve. Avrei voluto consolarlo in qualche modo, ma dovevo ammettere che gli abitanti di questo assurdo pianeta chiamato Terra non avrebbero avvertito nessun cambiamento nelle loro esistenze. Forse su Venere...
«Forse su Venere…», iniziai, mai resi subito conto che poteva sembrare un commento sarcastico, tenuto conto che Venere è pure più vicino al sole, e dicono ci faccia parecchio caldo, su Venere, quasi quanto in Grecia. Senza contare poi che, a mettere insieme Venere e la Grecia veniva subito fuori quella storia della dea dell'amore e tutto il resto e — visto il tono che avevano preso i discorsi quel giorno — a me mi pareva che non era proprio il caso di tirare in ballo ancora gente che faceva l'amore, figurarsi in Grecia poi, e al primo che mi dice che Venere era romana e gli antichi Greci la chiamavano Afrodite io ci stacco un orecchio, perché va bene essere nozionistici, ma fino a un certo punto.
Così lasciai cadere la frase nel vuoto: la frase non protestò più di tanto.
«In una sola parola, inutile. Ecco cosa sono, come mi sento: inutile», chiosò Nico.
Che anche "chiosare", in quanto a letteratura, non ha niente da invidiare a "soleva".
Non l'avevo mai visto così abbattuto e mi venne da pensare che i problemi etici possono essere qualcosa di veramente fastidioso: maledetti problemi etici, mi venne da pensare. Così tornai a casa riflettendo su quel che avrei potuto fare per aiutarlo.
Fu allora che incontrai la mia amica Cristina, mia coetanea, cinque anni come me ai tempi: avevamo avuto una storia, un po' di tempo prima, quando ci vedevamo tutti i giorni alla scuola materna. Non era finita proprio bene, ma eravamo rimasti in ottimi rapporti. Sarà perché non avevamo mai fatto l'amore, in quei sei giorni che eravamo stati insieme, io e Cristina.
E mi venne l'idea.
L'indomani Nico passeggiava ignaro per la solita via, che quando c'hai quattro anni non è che puoi far tutta questa strada, e le vie da passeggiare son sempre le solite: due, massimo tre, come i casi della vita. Insomma Nico passeggiava per la via da cui era appena stata spalata la neve quando, seduta su una panchina, intravide Cristina che piangeva disperata.
«Ahi, ahi», singhiozzava ella astutamente.
"Soleva", "chiosò", "ella" — qui siam dei professionisti in quanto a letteratura, non so se mi spiego.
«Ehi, che ti succede?», fece Nico premuroso, sedendosi accanto a lei. «Sto così male. Se solo qualcuno volesse aiutarmi, ma non è così semplice...", mentì, da brava piccola donna in procinto di crescere, la mia ex.
«E perché non è così semplice?»
Cristina lo guardò dritto negli occhi, come solo le donne, a qualunque età, sanno fare. «Sono così triste: se solo qualcuno mi facesse un pupazzo con tutta questa neve accatastata ai bordi della strada... ecco, quello sì che mi donerebbe di nuovo il sorriso. Ora, subito, qui. Ma come posso fare? È una richiesta assurda, una follia, lo so: chi vuoi che possa capirmi?»
Nico si allontanò un poco per poterla guardare meglio: non poteva credere a quello che aveva appena sentito. Diventò rosso e strinse forte la sciarpa che aveva al collo. Fu lì che si accorse che però non c'era niente da stringere, a voler essere pignoli, che da stringere c'erano i pugni, sì, che quelli ci son sempre, da stringere, ma dentro ci trovava solo un po' dell'aria secca e grigia dell'inverno di mattina: l'unico giorno, quello, che si era dimenticato la sciarpa accanto al camino.
Allora, ancora più rosso, abbassò gli occhi a terra e disse, rivolto alle proprie scarpe: «Mi dispiace, senza sciarpa io non mi riesce di fare un pupazzo di neve, senza sciarpa», che Nico c'aveva questo vizio di ripetere le cose, alla fine della frase: sarà che non era mai sicuro, che ne so, ma meglio dirle due volte che zero, diceva.
Insomma mise su una faccia così triste, ma così triste che Cristina non ce la fece più e scoppiò a ridere sonoramente. Poi gli passò una mano tra i capelli e non lo lasciò mai più.
Oggi, così lontani dal tempo di cui si è narrato, si è perso il conto delle volte che hanno fatto l'amore. Quei due.