Mattina presto nella metropoli esplosa. Una riflessione sulla grammatica umana, una matura presa di coscienza dei propri intimi tempi verbali. Un guanto di sfida lanciato alle cose prima che succedano.
3 Marzo 2012
Eran le otto e mezzo di mattina, più o meno. Le otto e mezzo di mattina di stamattina, dico, che questa (che era stamattina, dico) me mi pareva una cosa importante da specificare, per dare alle righe che seguono quel tono di vita vissuta, di passato prossimo mascherato da imperfetto con tutta quella falsa modestia che può avere un passato prossimo che finge di nascondere la sua perfezione di tempo verbale che ti lascia intatto tutto il ricordo in quanto prossimo, comunque senza darti nessuna possibilità di scampo in quanto pur sempre passato.
Che dire eran le otto e mezza di mattina e basta, poi uno pensa guarda questo che sta iniziando a raccontarci una storia, tipo una storia inventata, ambientata un giorno, in un posto, alle otto e mezza di mattina, più o meno. Dire eran le otto e mezza di mattina e basta, io c'avevo il timore che poteva poi sembrar come dire era una notte buia e tempestosa, e allora ci tenevo a puntualizzare che eran le otto e mezza di stamattina, più o meno, e c'era pure un bel sole, splendida giornata, stamttina verso le otto e mezza o giù di lì.
E niente. Saran state le otto e mezza di mattina, più o meno, in questa grande metropoli che pare un cantiere aperto: buche di qua, lavori di là, e poi martelli penumatici techno-trance, gru e scheletri di palazzoni a metà, tram sferraglianti su binari scomodi e clacson un po' così, clacson free-jazz diciamo, suonati a caso senza una partitura precisa che non sia quel sottile pentagramma che dirige il giramento di maroni delle otto o mezza di mattina in una grande metropoli sventrata dalla voglia di convincersi che la crisi non c'è, non la vedi, con tutti questi lavori in corso, tutte queste robe da fare, e le buche e le gru e i tram e i clacson post-industriali: non c'è posto per la crisi qui, non c'è tempo per la crisi, nella grande metropoli in progress. Che si sa, lo dicon tutti, anche alla televisione: fa girare l'economia, la grande metropoli.
E pure i maroni, dirla tutta.
Ma comunque. Le otto e mezza di mattina di stamattina, più o meno, nella grande metropoli tempestata di impalcature poco a norma: l'ambientazione mi pareva chiara, immersa in quel passato prossimo che più la tiro per lunghe con queste digressioni e più invecchia in quell'altro passato, quello remoto che continua (ci mancherebbe) a darti zero possibilità di scampo ma almeno ti annebbia i ricordi fino a quel punto tanto atteso, quello in cui puoi tirare il fiato e convincerti che le cose non son successe.
Lo adoro quel punto lì, io. Non fosse solo che arriva sempre troppo tardi.
Sì, insomma. Con l'ambientazione ci siamo. Andiam quindi a introdurre i personaggi, che poi, ben vedere, è uno solo il personaggio, se vogliamo escludere me medesimo. E direi che vogliamo escluderlo (me medesimo, dico) che è un tipo così schivo che preferisce non esser citato, soprattutto in una storia imbarazzante come questa, me medesimo.
Quindi il personaggio, dicevamo: uno solo. Che, sarà mica un monologo diranno ora quelli più appassionati di teatro. No, non è un monologo per il semplice fatto che nessuno apre bocca: una parola nemmeno a pagarla, giuro. E se nessuno parla, nemmeno l'unico personaggio in scena, che monologo vuoi che sia? Me, mi pareva che non si poteva definire un monologo, con queste premesse. Andiam dunque avanti e basta interruzioni, voi appassionati del teatro, che ci penso da solo a perder il filo del discorso.
Era un operaio, il personaggio in questione, forse il meno singolare tra tutta l'esposizione variegata di operai che offre una grande metropoli col make-up in continuo rifacimento, alle otto e mezza di mattina. Che io non lo so mica perché me mi colpiscon sempre le cose meno appariscenti, meno interessati, più innocue si potrebbe dire: deve esser per quella vecchia storia degli Etruschi, che ora non mi pareva il caso di tirarla fuori di nuovo, che quella sì, altro che passato remoto, trapassato remoto ormai è, quella storia lì degli Etruschi.
Trapassato remorto, direi, se mi si permette il gioco di parole. Trapassato nel senso di trapassare.
Ma lasciam perdere, che dovevamo parlar di vita vissuta, passata ma prossima, avevam promesso.
Insomma c'era questo operaio anonimo, alle otto e mezza di mattina, minuto più minuto meno, stamattina, in questa metropoli brulicante di tombini aperti, che stava in piedi davanti a un tombino. Un tombino scoperchiato appunto (tutto torna, alla fine — che sembra che siam qui a confonder le acque, ma poi, precisi come degli svizzeri, quando si tratta di tirar le fila del discorso che avevam perso): un lavoretto da nulla, dicevamo, rispetto ai tubi del gas dell'imponente viale di circonvallazione interna, o alle fondamenta del grattacielo della grande banca non più locale con sede nella piazza dedicata a quel famoso condottiero un po' fascistello.
Ma non è lì il punto. Era l'espressione, il punto. L'anonimo dipendente della nota azienda non più pubblica che ha il monopolio dei tombini aperti (e chiusi) della grande metropoli sotto lifting, si stava infatti mettendo i guanti, i guanti quelli da lavoro dico, che va bene che siam nella capitale della moda, ma gli operai delle fognature hanno ancora un po' di dignità, grazie a Dio. I guanti quelli grossi e ruvidi che dentro son di morbido tessuto sintetico rigorosamente non traspirante e fuori di un materiale che potrebbe sembrare pelle di camoscio essiccato (il camoscio, dico) al sole delle Dolomiti e invece è probabilmente solo amianto riciclato a seguito quegli studi faziosi secondo i quali faceva malissimo (l'amianto dico). A respirarlo, evidentemente, mica a metterselo sulle mani.
E allora. Si stava mettendo i guanti, il nostro eroe nazionalpopolare, con quella faccia rassegnata al suo destino che può avere solo un operaio del pozzo nero o un elettore del PD.
Si mette il primo: tutto a posto. Che sembran piccole cose, mettersi un guanto, ma lui, una volta realizzato che l'operazione era andata a buon fine, gli era salita una luce negli occhi che che pareva cominciata bene, la mattina, stamattina alle otto e mezza nella capitale economica senza crisi di questo paese in crisi perenne, almeno per un minuscolo operaio alle prese con un tombino.
Fa quindi per mettersi il secondo e lì, io non so: sarà stata la stanchezza, che uno, anche alle otto e mezza di mattina più o meno, soprattutto in una metropoli come questa tutta affannata a inventarsi una buca da scavare per tenersi occupata, può essere terribilmente stanco, stanchissimo può essere uno, poco dopo le otto di mattina, in una metropoli che non se ne vuol fare una ragione. O sarà stata una distrazione, che con tutti quei rumori si sarebbero distratti anche gli Einstürzende Neubaten che sono un gruppo di musicisti tedeschi (di quei tedeschi tedeschissimi con i puntini sulle "u") che ci son abituati, loro, alle seghe circolari a ai martelli pneumatici, per scelta. O l'emozione di avere ancora un lavoro, almeno per oggi, io non lo so. Però le mani gli son tremate, le dita intrecciate, forse i pensieri inciampati l'uno con l'altro: fatto sta che il secondo guanto di amianto scamosciato, in un atto di ribellione sociale, si è liberato della presa e ha seguito il suo destino, in accordo con tutte le leggi stabilite (in particolare quella di gravità, quella del minimo dell'energia potenziale, e quella di Murphy insieme a tutti i suoi corollari), inesorabilmente dentro il tombino che i più attenti di voi utenti anonimi si ricorderanno essere, ormai da svariate righe, aperto.
Ecco. È lì che ha allargato le braccia, dondolandole un po' a mezz'aria, e scosso la testa come se non c'erano santi: doveva per forza andar a finire così. Ha dondolato un po' le braccia a mezz'aria, a quel modo, un po' ridicole, esser sinceri, una con un guanto e l'altra senza, e la testa, la testa quella l'ha scossa come uno che lo sapeva che finiva così, per forza, che era solo l'ultima goccia di una giornata, che alle otto e mezza di mattina già sembrava infinta, nella capitale lavorativa di questo Belpaese che fai sempre più fatica a vederci qualcosa di bello in questo paese, ma i nomi si sa, son peggio delle abitudini ed è un casino poi toglierseli dalla testa, e allora continuiamo pure a chiamarlo Belpaese anche se io, lo confesso, esser questo Paese, mi sentirei pure un po' preso per il culo, sentirmi chiamar Belpaese in questo preciso momento storico. Ma tant'è.
Sì. Lui ha allargato, dondolato e scosso, non mi ricordo se esattamente in questa sequenza: non è importante. Così: un guanto lanciato senza il minimo accenno di sguardo di sfida o intenzione di duello. Un guanto lasciato, mi verrebbe da dire.
E allora io che lo guardavo da lontano in equilibrio su un sanpietrino scheggiato ho pensato bravo, così impari, non indossar le protezioni prima di iniziar il lavoro. Bravo davvero ho pensato, io col mio sarcasmo saccente interiore, non mettersi i guanti prima di aprire i tombini. Bravo sì, te lo sei proprio meritato, non seguir provocatoriamente anche la più semplice di tutta una serie di leggi per la sicurezza sul lavoro del tutto ipotetiche. Non è mica difficile, ho pensato io con quel tono di pensieri saputello che fare coming out qui io lo so che poi ne pento: avanti a tutto si metton su i guanti di camoscio d'oro ignifugo, poi — solo dopo — si apre il tombino. Così per prima cosa non si rischian le dita sotto il pesantissimo coperchio trafilato al bronzo di mussoliniana memoria, e in seconda battuta difficilmente i guanti appena indossati ti cadranno nel tombino appena aperto. Bravo sul serio, mi è venuto da pensare, ora vai a lamentarti dal sindacato, che magari c'hai pure la faccia come il culo, che prima non prendi precauzioni e poi piangi sul latte versato, come fece quella che rimase incinta. Ma lì non era latte.
Semplice, lineare, supponente: nei miei pensieri parevo proprio un indigeno, di questa metropoli all'italiana che vorrebbe essere rigida e inquadrata, ma non gli vien mica tanto bene. Una roba che ci vuol del coraggio, raccontarla sull'internet. Un indigeno parevo, a leggermi nel pensiero, e nemmeno me ne rendevo conto.
Solo che poi lui ha allargato le braccia, le ha dondolate, e poi ha fatto quella faccia scuotendo la testa come uno che per forza, ci mancava solo questa stamani. Non si è incazzato, non si è disperato, non ha bestemmiato i santi, non ha sacramentato il governo e tutti gli assessori, non ha nemmeno fatto il gesto di provare a recuperarlo, quel guanto maledetto, un accenno di inchino per provare a seguirlo, anche solo un attimo prima che si infilasse in quel maledetto tombino. Solo quella faccia lì, di quello che ormai che vuoi che sia questa in mezzo a tutto il resto di una giornata così che più o meno alle otto e mezza di mattina già ne son successe di tutti i colori che figuriamoci un guanto che vuoi che sia, maledetto guanto che tanto lo sapevo che ti ci mettevi pure te, farmi girar i maroni, non bastasse questa stupida metropoli acciaccata, figlia venuta male della rivoluzione borghese del diciottesimo secolo, direbbe Max Weber.
Ecco. È stato a quel punto che son come dire rinsavito, che la nebbia la polvere il casino mi son diradati da dentro la testa e ho avuto fin vergogna.
Così gli son sfilato via accanto, all'operaio sconsolato, che continuare a star lì a guardarlo, star lì a rimirar la tragedia in essere ma già ormai compiuta nel miglior stile di quel participio passato che per definizione è un tempo verbale che ti tira scemo, me mi pareva pure brutto, o indelicato quanto meno. Gli son sfilato via accanto e mi son vergognato come un bambino beccato a rubar la marmellata (ma sempre meno di un elettore del PD, s'intende) di tutti quei pensieri inopportuni, indispondenti e ingiustificati.
Che io non lo so, sarà che alle otto e mezza di mattina sono in media due ore che sono andato a letto e quindi c'ho inevitabilmente i maroni un po' girati storto, sarà che questa grande metropoli subalpina alimenta il mio cinismo nutrendolo e ingrassandolo con una dieta a base di smog e rumori molesti. Sarà che son diventato una brutta persona, ed è una cosa che è successa in un passato ormai passato per quanto prossimo, e allora che vuoi farci.
Niente, "processo irreversibile" si chiama.
Io non lo so, però ho pensato, mentre sfilavo via con il viso nascosto dietro il bavero alzato come i peggior ceffi di una New York anni '30, che non avevo nessun diritto dir bravo davvero, bravo sì, bravo sul serio, di pensar tutte quelle cose da pseudo-comunista viziato, della sicurezza sul lavoro, del sindacato dei miei maroni. Ho pensato che chissà quante cose eran successe, stamattina, prima delle otto e mezza o qualcosa di simile, a un povero operaio dei tombini di una metropoli sempre troppo occupata, per finir a far quella faccia lì. Ho pensato che io, non lo volevo nemmeno sapere, io, tutte quelle cose che eran successe. Io non ci volevo nemmen pensare, a tutte quelle cose che potevano essere successe.
Ho pensato che alla fine, io, nella vita, finisce sempre così. Che io le cose che son successe, non ci voglio pensare. Figuriamoci poi quelle che ancora devono succedere. Quelle che ancora possono succedere. Io, quelle cose lì, voglio far finta che non sian successe ancora prima che succedano.
Che sian passato remoto senza passare dal passato prossimo.