Campioni del mondo

Campioni del mondo

Tragedia al Santiago Bernabeu, ovvero il primo LEGO non si scorda mai. Soprattutto se te lo distruggono la sera della finale dei mondiali.

2 Ottobre 2012

I LEGO fecero la loro comparsa in casa mia il 9 giugno 1982. Era una serata abbastanza afosa, ma non afosa tipo le serate di giugno di adesso che c'è in corso il cambiamento climatico, come hanno detto alla televisione. Meno afosa. Gli zampironi facevano buona guardia sul davanzale delle finestre aperte. Perché il 9 giugno dell'82 l'aria condizionata stava solo nei film di fantascienza.

Dice come fai a ricordartelo.

Ma me lo sono inventato, ovvio: come farei a ricordarmelo, son passati trent'anni. Però era il 1982, questo siam sicuri, e anche con giugno direi che non ci sono andato tanto lontano, visto che l'11 luglio (dell'82 dico) i LEGO eran già in casa mia da un mesetto buono.

E l'aria condizionata, in casa mia, manca tutt'ora.

Mio zio Angelo

Dice come fai a ricordartelo.

Come fosse ora, me lo ricordo, porca miseria: erano le nove e trentasei della sera quando Spicchio Altobelli spezzava le gambine alla Germania Ovest con un rasoterra a porta vuota dopo aver saltato uno Schumacher in disperata uscita, Pertini muoveva l'indice rivolto a chissà chi dicendo col labiale «ormai non ci prendon più» e mio zio Angelo saltava su dal divano atterrando con i calzini giusto sopra la mia astronave, un attimo prima di correre ad abbracciare Bearzot che in quel preciso momento aveva la forma obesa del televisore Normende in salotto, quello grande, con lo schermo tutt'altro che piatto ma ben protetto da un consistente stato di energia elettrostatica che fece il tipico rumore da friggitrice economica a contatto con la sua canottiera.

La mia astronave

La mia astronave era fatta di mattoncini bianchi, grigi e blu, aveva il tetto apribile trasparente, le antenne arancioni e due sporgenze anteriori verdi che non era ben chiaro a cosa servissero, ma a me pareva evidente che eran lì per sparare: non c'erano santi, vedessi come sparavano, dei cristi di raggi laser fotonici sparavano. E io a mio zio ci avrei sparato, quella sera lì, ma l'omino rosso che era alla guida della mia astronave, colto di sorpresa dagli urli di Nando Martellini durante la telecronaca, non fece in tempo ad azionare i comandi.

L'omino rosso

L'omino rosso che era alla guida della mia astronave era un omino vestito di rosso (rossa la tuta, rosso il casco), come Alboreto, ma con la faccia più gialla, inspiegabilmente gialla, e, per ogni evenienza, aveva anche una specie di motoretta, ottima per le esplorazioni a terra: un qualcosa di simile a quegli scooteroni che avrebbero invaso le strade di questo pianeta vent'anni dopo, ma senza ruote, fatta di mattoncini bianchi e neri, sicuramente comoda su qualsiasi terreno e maneggevole in curva, ma molto, molto meno fica dell'astronave bianca, grigia e blu che giaceva a pezzi sotto i piedi marchiati Segio Tacchini (80% cotone, 20% sintetico) di mio zio.

Nonostante questo, l'omino rosso che era alla guida della mia astronave non perse il sorriso incrollabile che aveva stampato (nero su giallo, s'intende) in faccia. Io invece mi misi a piangere, ci mancherebbe: in realtà ero incazzato nero, ma un bambino di quattro anni cosa vuoi che si incazzi. Piange, un bambino di quattro anni: il sollievo e la soddisfazione che dà una bella madonna piantata lì su due piedi in faccia ai parenti, all'allenatore della nazionale e al presidente della repubblica l'avrei scoperto solo qualche tempo più tardi.

Eppure, col senno di poi, non tutto fu da buttare, in quella che nella mia storia è passata alla storia come la sera funesta in cui lo strapotere mediatico del calcio pose fine alla gloriosa era della missioni spaziali.

Un'idiozia

Sì, perché col senno di poi, forse fu proprio quella sera, seduto sul tappeto, mentre tentavo di rimettere insieme i pezzi della mia personale tragedia che stonava ancora di più davanti alla festa piena di coriandoli che usciva dallo schermo a fine partita e ai clacson impazziti che salivan su dalla strada entrando attraverso le finestre aperte, che realizzai l'idea geniale che stava alla base di quei giocattoli colorati, quella loro caratteristica principale che negli anni a venire avrei imparato ad apprezzare ancora di più, quel concetto salvifico che declassa ogni errore e ti fa tirare un sospiro di sollievo semplicemente regalandoti un'altra possibilità.

I LEGO non si rompono, si smontano.

Sembra un'idiozia, messa così.

La cazzata del secolo sembra, messa così: la scoperta dell'acqua calda al tempo dei neutrini. Ma pensaci. Pensa a quante altre cose, nella vita, avresti preferito avessero avuto questa dote. Pensa a tutte le volte che ti sei detto: ora smonto tutto e ricomincio daccapo. Pensa a quell'infinità di occasioni in cui i mattoncini delle tue giornate non si sono incastrati come avresti voluto. Quante saranno state?

Te lo dico io, quante saranno state: millemila.

E allora fu quella sera che, nella mia testa di quattrenne traumatizzato dalla furia del patriottismo ultrà, si insinuò la convinzione che se la vita fosse fatta di LEGO sarebbe molto, molto più semplice.

Una pacchia sarebbe, una vita rimontabile a piacere. Grasso che cola, si dice dalle mie parti.

E invece.
Toccherà accontentarsi.

Note a margine
Questa storia era stata originariamente raccontata in esclusiva per legolovers.com ed è comparsa per la prima volta sull'omonimo sito, che poi è stato eliminato dall'internet per motivi a oggi non del tutto chiariti: le indagini sono ancora in corso, ma si sospettano forti pressioni da parte della lobby dei giocattoli. La riportiamo anche qui per questioni di vanagloria, completezza e perché Spineless è come il maiale: non si butta via nulla. Ma soprattutto per non dimenticare, a perenne memoria che di un mucchio di mattoncini che ci ha letteralmente cresciuto, nel bene, e nel male (come nel caso in questione).
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