Febbraio

Febbraio

Quello che avanza di un carnevale fallito in partenza. Una lettera di addio o forse di arrivederci. Una manciata di desideri inespressi, come coriandoli sospesi, per qualche stella filante caduta.

9 Febbraio 2008

Cara te, oggi comincia febbraio. Non che questo sia di una qualche importanza, visto che i mesi non son come certe cose, che prima le inizi e prima finiscono: i mesi no, loro c'hanno un giorno ben preciso per dire quando iniziano, e poi un giorno ben preciso (un altro, per la precisione) per raccontarti quando finiscono. E non ci sono santi, non si schiodano da lì, bastardi conservatori reazionari come sono, i mesi.

Io, giuro, c'avevo provato qualche tempo fa: avevo fatto richiesta, su all'ufficio del piano di sopra, di avere i giorni (e conseguentemente i mesi) a tasso variabile. Ovvero i giorni (e conseguentemente i mesi) che decidevi te quanto dovevano durare: ti svegliavi la mattina, ti guardavi intorno, aggiustavi il bordo del lenzuolo sul profilo di lei (oppure aggiustavi il profilo del lenzuolo sul bordo di un niente — l'alternativa dipendeva strettamente dal tuo stato coniugale), poi controllavi in che posizione eran rimasti i vestiti della sera prima, o quale taglio aveva scelto stamani il filo di luce che penetrava dalle serrande. E in base a quello decidevi: un'ora, due ore, trenta ore, tre giorni.

Sì, nella mia bozza di proposta era previsto che avresti potuto scegliere anche dei giorni lunghi tre giorni, o mille giorni, o anche farli finire subito, i giorni, non c'eran limiti alla creatività.

Mi pareva una buona idea, non credi? A me sì, mi pareva una buona idea. Ma per ora non ho avuto risposta.

Eh, sai: siamo un po' indietro con l'evasione delle richieste. Oggi serviamo il numero tredici milioni e duecentosessantamila quattrocento sessantacinque. Ho fatto un etto e mezzo, che faccio? Lascio?

Dio onnipotente

Oggi comincia febbraio, cara te. È un mese strano febbraio, un mese che va di corsa, l'unico mese che sa quando inizia ma non sempre sa quando finisce. Pare che sia il mese in cui le statistiche forniscono i picchi più alti di suicidi, chissà perché poi. Forse quel paio di giorni mancanti all'appello rispetto al solito ti mettono addosso una specie di fretta di chiederle subito, le faccende.

E allora sì, comincia febbraio, quelli che si vogliono ammazzare si stanno già muovendo con i primi preparativi, e se saremo fortunati avremo anche la neve. O almeno così hanno detto quelli della televisione. Ma non è di questo che voglio parlarti.

È che me ne vado.

Sì, insomma. Sarà che ormai ho aspettato così tanto che non mi ricordo più cosa stavo aspettando, e mi dicono che quello è il segnale esatto che è il momento di smettere di aspettare, o almeno, se proprio non ne siamo capaci, di andare ad aspettare da un'altra parte. Sarà che la prima volta che ti ho vista mi avevi regalato quel filo colorato da portare al polso, di quelli che si comprano per strada e si esprime un desiderio che vorremmo si avverasse quando si spezzerà, e io invece l'ho indossato desiderando che non si spezzasse mai: non so, magari non ne ho ben capito il funzionamento e ho desiderato al contrario, ci voleva il libretto delle istruzioni, forse.

Sarà che non c'è il mare a Praga. Probabile che faccia un salto a controllare, ora che avrò più tempo. Poi magari ritorno, però. Non si può mai dire. Che quando si parte l'unico trucco che funziona è lasciarsi dietro una scusa per tornare: e questo è tutto ciò che ho imparato sull'andare.

Dicevo: vado. Proprio oggi che comincia febbraio. Se tu fossi qui non mi chiederesti nemmeno perché proprio oggi: lo sai che mi piacciono le date facili da ricordare, dal momento che tutto il resto, tutto quello che viene dopo, prima o poi, si dimentica. Non ho grosse pretese al riguardo: sai meglio di me con con i desideri e i ricordi ho sempre fatto dei pasticci memorabili. È che quasi sempre tendo a confonderli o, peggio, a identificarli. O peggio ancora: a innamorarmene.

E invece stare in equilibrio in mezzo alle persone, starci anche nel ricordo, anzi, resistere soprattutto lì, nella testa e nella memoria, è una faccenda da grandi chef. Mica gente come me, che in cucina ha sempre improvvisato: magari anche con risultati apprezzabili (che dopotutto pararsi il culo con un po' di naso e un paio di etti di fantasia in polvere non è nemmeno difficile) senza mai però allontanarsi da una classica pentatonica, scala di profumi semplice e povera, ma mai coraggiosa per evidenti motivi strutturali, se capisci cosa intendo. «Con cinque note puoi farci quello che vuoi, ma sempre un numero limitato di quellochevuoi», diceva ogni volta Steve, il mio amico di Detroit, malato terminale di free-jazz, quando mi veniva a trovare al Pistoia Blues. Che mica è necessariamente un difetto eh, per dire: gli AC/DC c'hanno fatto una ventina di dischi, con la pentatonica. «E si sente», dice Steve.

Chissà dove sei, ora.

Scusami: "chissà dove sei" è l'espressione meno indicata per tentare di rendere credibile un addio, come sta scritto a pagina 121 del secondo volume dell'indimenticabile e indimenticata opera di Goffredo Tracciati — macchinista delle purtroppo indimenticate ma dimenticabili Ferrovie dello Stato di giorno, sublime scrittore a lume di candela di notte — Millemila modi per abbandonare qualcuno e un semplice trucco per ritrovarlo. Ma non riesco a smettere di chiedermelo.

Magari stai persa in mezzo al chiasso dentro un qualche carnevale, dove tutti fanno un gran casino. Allegro, ma pur sempre casino. Che, già! Oggi comincia febbraio e ci siamo proprio sotto, al carnevale.

«Il carnevale è un posto pieno di travestiti.» non si stancava mai di ripetere Sandrone Brighella, spericolato pilota di carri a Viareggio per tutto febbraio, libero professionista dell'amore in saldo — ai più noto come Colombina — tra le frasche del parco di San Rossore il resto dell'anno. E son dolori.

Io il carnevale è una festa che mi è sempre rimasta difficile. Difficile da capire prima ancora che da sentirmela addosso. Così difficile che spesso mi dimentico che arriva, e poi ci sbatto contro senza essermi preparato come avrei dovuto. Ci sbatto contro senza aver studiato, per capirsi. Come sempre, del resto, quando finisci addosso a qualcosa senza essere pronto, e poi ti tocca d'imparare a convivere con un bernoccolo di dimensioni spropositate che appena lo sfiori vedi le stelle. Filanti.

A proposito. Credo che stia per finire la carta. L'ultimo bloc-notes l'ho sprecato per appuntarmi una frase che ha detto cinque minuti fa un tizio in una canzone dentro la radio.

I am all the days that you choose to ignore.

L'ho attaccato sul davanzale della finestra di fronte (la signora è stata gentilissima, farmi entrare così, senza chiedere spiegazioni) in modo che quando ti affacci lo vedi: mi pareva carino ricordartela, quella cosa lì.

Ma la carta dicevo, sì. Niente. Niente più carta in giro, te la aggiungo alla lista della spesa che hai lasciato dentro il beauty case, in bagno.

Guarda come mi son ridotto, che ti sto scrivendo sopra quella camicetta bianca, quella che mi piaceva tanto, ti ricordi? Quella stretta in vita e un po' più larga (grazie a Dio) sul seno. Insomma te la sto scarabocchiando dall'inizio alla fine, dal colletto alle maniche: non so se dopo farà ancora la sua figura. Però è bello questo effetto che le scritte poi si vedono anche in controluce. Pensa. Se ci spari contro il proiettore finisce che quello che ti dico potresti leggertelo direttamente sul muro, comodamente seduta in poltrona. Come al cinema. Al contrario, però.

Ma che idee mi vegono. Scusa ancora. Comunque ho quasi finito. Senti, te la lascio, la camicia intendo, appesa al cactus, quello accanto al telefono, quello che il tuo pappagallo-fachiro ha deciso di viverci sopra. Gli ho detto di starsene buono, al pappagallo, di aspettare che tu torni. Perché sul fatto che tornerai — come disse Noè — non ci piove.

Lui, il pappagallo dico, per tutta risposta mi ha dedicato una filastrocca, abbastanza articolata per uno che vestito così giusto per carnevale può sentirsi a suo agio, sull'aria di Quel mazzolin di fiori, quello che vien dalla montagna, immagino tu la conosca, almeno a grandi linee. In sostanza dice che sono uno stronzo. Non so, può darsi.

Comunque io vado. Poi, magari, ritorno. Magari l'ultimo giorno. L'ultimo giorno di carnevale, dico, di un carnevale qualsiasi, a fine serata. A guardare il corso con quel che ne rimane, col tappeto umidiccio di coriandoli sfatti, le stelle filanti accasciate per terra nemmeno fossero stelle cadenti (o meglio, cadute) e tutta quella foschia post nucleare attorno, quella che i poeti ci srotolerebbero addosso una sfliza di versi e io invece rimango convinto che sian solo le esalazioni del propano delle bombolette di schiuma che i tredicenni si rovesciano addosso nell'attesa di farne miglior uso quando gli spunterà la barba. A guardare tutti quegli extracomunitari vestiti di arancione che puliscono in giro, che festeggiare si sa, stanca, e poi quando la festa finisce di rimanere a riordinare la casa non c'ha voglia nessuno e allora meglio chiamare qualcuno che è una vita che non festeggia, per fare il lavoro sporco. A guardare l'ultima strega che piange seduta su una panchina, o il Batman di turno che vomita ubriaco fradicio ma contento di non ricordarsi più nemmeno di quale festa stavamo parlando, oppure a maledire quel leone ritardatario che mi sfreccia a un centimetro in bicicletta, cantando a squarciagola Felicità di Al Bano e Romina.

Io non lo so, cara te, il mondo come farà a andare avanti, continuare a cantare Felicità di Al Bano e Romina.

Insomma vado. Poi magari, però, ritorno. Non si può mai dire. L'ultimo giorno, s'intende. Che tanto lo sai.

Lo sai che me, più delle cose in sé, mi piacciono i resti, delle cose.

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